Albania | | Cultura, Migrazioni
Un oceano di distanza
Lo spaesamento, l’esperienza del perdersi che deriva dall’aver attraversato il confine, e del ritrovarsi. Con le parole della leggerezza. Un’intervista a Ornela Vorpsi
Di Antonia Pezzani
Il 5 aprile scorso il Seminario Internazionale sul Romanzo ha proposto a Trento un incontro con Ornela Vorpsi* dal titolo "Le parole senza pensieri" non andranno in paradiso, mutuato da un verso dell’Amleto, titolo dietro il quale si cela l’idea personale di letteratura di Ornela Vorpsi, che crede fermamente nella necessità di ‘portare al lettore qualcosa di realmente accaduto’ e nell’importanza di una narrazione che vada al di là, che sia ‘la riflessione di questo essere nel mondo’.
Ti trovi bene a scrivere in italiano? Come mai questa scelta? È liberatorio scrivere in una lingua che non è la tua? Cosa significa per te poter scrivere in italiano?
Mi trovo bene a scrivere in italiano certo, altrimenti non avrei fatto questa scelta. Anche se a dirti la verità, non è una cosa su cui ho riflettuto e mi sono detta: ecco, mi posiziono così, scriverò in questa lingua. È una scelta venuta in maniera molto organica. Riflettendo, visto che questa questione mi si è molto posta, ho trovato una risposta che mi sembra abbastanza veritiera.
Per scrivere avevo bisogno di una lingua che non portasse in sé l’infanzia e per me l’italiano è una lingua senza infanzia. Magari ho bisogno di distanza, essenziale e salutare per fare quello che voglio fare. È un discorso molto soggettivo, perché tanti altri scrittori hanno bisogno di essere immersi nella loro lingua madre, io invece ho bisogno di una lingua che non porta il mio vissuto. Per questo ho scelto l’italiano. Un’ altra lingua vuol dire un’altra cultura, un altro paese, un oceano di distanza con il tuo popolo, con il tuo vissuto e io per ragioni personali avevo bisogno di questa distanza.
Nel tuo ultimo romanzo, che in francese si chiama Veleno verde, sei molto critica rispetto alla percezione del confine, dello stare al di qua, nell’Occidente o al di là, nei Balcani: cosa ti spinge a stare al di qua?
Il fatto che ad esempio Parigi, dove risiedo oggi, per me è uno stato neutro, come scrivere in una lingua straniera. Magari sono stata molto ferita e l’Albania mi è molto dolorosa: per questo non riesco ancora a stare là o a trovare un posto là. Cerco di stare nelle terre neutre per poter guarire le mie piaghe, ne ho bisogno. Il confine lo percepisco, perché penso di essere una grande osservatrice, soffro di osservazione e quindi evidentemente osservo, osservo: è per questo che magari ho voluto parlarne.
Cos’è il ‘veleno verde’?
Il ‘veleno verde’ non è la rabbia della migrazione, assolutamente: sarei molto disonesta altrimenti, perché la migrazione è stato un prezzo caro da pagare però per tanti altri aspetti mi ha salvato dalla condizione assurda dell’ex-Albania e quindi non è questo. In Francia sono uscita con due libri in contemporanea, Vetri rosa e Veleno verde e quindi, visto che vengo dalle arti plastiche, ho voluto giocare un po’ con questi libri e i colori. Inoltre era molto difficile tradurre in francese La mano che non mordi, veniva una forma poco felice.
Mirsad (mondo-giardino?), l’amico sofferente, è il tuo ‘ritratto di Dorian Gray’? È un po’ il tuo alter ego?
Solo in minima parte. È il mio alter ego quando parla del sovraesporsi al mondo, dell’essere molto facilmente toccabili, con gli organi fuori, dunque estremamente, patologicamente sensibili. Il ritratto di Dorian Gray non fa parte della finzione letteraria, è vero: la persona che stava male, che è altrettanto vera, quel giorno leggeva veramente Il ritratto di Dorian Gray e quindi l’ho riportato fedelmente.
In che rapporto sono memoria e finzione in quello che scrivi?
Sono in un rapporto molto stretto: non mi ritengo scrittrice di finzione pura in quanto ho bisogno di portare al lettore delle cose realmente vissute. Ho un’idea di onestà che magari non sta in piedi, ma ho bisogno di portare al lettore qualcosa di realmente accaduto. Ho questo bisogno di raccontare l’esperienza, di qualcun altro anche, però qualcosa di realmente accaduto.
Non ho voglia di portare al lettore qualcosa di immaginario. La condivisione per me deve accadere nelle basi dell’esistenza reale. Poi l’immaginario è un’altra storia.
Le memorie ad esempio in La mano che non mordi, sembrano avere vita propria, narrazioni autonome contenute in un’altra narrazione: qual è la struttura compositiva del tuo ultimo romanzo, se si può parlare di una?
In effetti la colonna vertebrale di questo ultimo romanzo è questo viaggio Parigi-Sarajevo, Sarajevo-Parigi e su questa colonna vertebrale ho appeso tutte queste storie: piccole storie, piccole riflessioni che per me erano la cosa più importante, perché per me la cosa più importante in questo piccolo libro era la riflessione di questo essere nel mondo.
Scrittrice, fotografa: c’è un filo rosso tra i due linguaggi? Un qualcosa che li accomuna?
Il filo rosso tra i due linguaggi sono io stessa, qualcosa che li accomuna sono io stessa perché sono la fonte di tutta la fotografia che faccio e della scrittrice. Come ricerca e come descrizione lavoro in ambiti differenti. Evidentemente nei libri porto una dimensione che non potrò fotografare, certe memorie, certe cose; mentre nella fotografia ho fatto tutto un altro lavoro di conquiste con il visuale, nella scrittura cerco di essere nelle parole. Penso però di avere una struttura di artista classica, non la struttura della scrittrice vera e propria o prodotta. Non lo so, voglio dire che in fondo le arti plastiche mi hanno molto strutturata e penso che questa forma frammentaria che si può magari percepire nella mia scrittura di oggi sia dovuta alla pittura e alla fotografia.
Come mai le donne rappresentate sulla copertina dei tuoi due romanzi editi da Einaudi sono voltate di spalle di schiena, appoggiate a un muro?
Perché non amo essere disturbata dal viso e perché in un certo senso ho sempre voglia di fare ruotare il personaggio per vederlo: alla fine del libro, quando il personaggio si sarà voltato, lo vedrai dentro nel romanzo, la fisionomia e tutto il resto: lo vedrai bene. Non voglio caratterizzare il libro con un volto, con qualcosa di molto conciso. Invece nella schiena c’è qualcosa…mi ricorda donne solitarie che sono un po’ tra sé e sé, a me questa cosa piace molto.
*Ornela Vorpsi nasce nel ’68 a Tirana, a 22 anni emigra in Italia, a Milano, dove frequenta l’Accademia di belle arti di Brera, e ci rimane cinque anni. Da dieci anni vive a Parigi, ma, per ora, la sua lingua di scrittura rimane l’italiano. Fotografa di fama mondiale ha esordito con Il paese dove non si muore mai, con cui vince il premio Grinzane Cavour. Nel 2006 esce per Nottetempo edizioni Vetri rosa e del 2007 è La mano che non mordi pubblicato da Einaudi, come il libro d’esordio.