Sguardi adriatici: il Delta del Po

Il Po riesce a fare dell’Adriatico una sua estensione salata o, volendo ribaltare la prospettiva, solo l’Adriatico è un mare che prolungandosi nel Po ha una sua fonte. Continua la nostra esplorazione dell’Adriatico, mare che accomuna

12/07/2019, Fabio Fiori -

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Gorino Ferrarese (© Uta Scholl / Shutterstock.com)

Una luce aurorale di giugno rende ancora più potente l’archè del luogo, l’atmosfera originaria del Delta del Po, lì dove l’acqua dolce incontra quella salata, portando al mare virtù e vizi della terra che il fiume raccoglie con minuzia monacale. Ho varato il kayak a Gorino, ultimo paese di questo oriente ferrarese, in un via vai di barchini e pescatori, silenziosamente indaffarati nella più importante economia di questi ultimi trent’anni, quella della vongola verace. Verace non lo è affatto, visto che è stata introdotta in questo ambiente alla metà degli anni Ottanta del Novecento. Al contrario, come ci ricorda il nome scientifico, è una specie originaria delle filippine, con una straordinaria capacità di colonizzare gli ambienti lagunari. Oggi è perfettamente adattata, sia da un punto di vista ambientale che economico e gastronomico, visto che gli spaghetti con le vongole veraci sono solo l’ultimo tassello di quel sincretismo alimentare che è la tavola italiana. Inimmaginabili oggi pasta e pizza senza pomodoro! Così il monumento alle vongole veraci, che campeggia nella rotonda d’ingresso di Goro, può essere letto anche come monumento allo straniero capace di adattarsi e trasformare ambienti, mercati e abitudini alimentari.

Scendo in corrente, anch’io nel flusso, senza pagaiare, avanzando lentamente. Nessun altro mediterraneo ha un rapporto strettissimo con un fiume come l’Adriatico. Certo il Rodano o il Nilo hanno la loro importanza nelle dinamiche dei mari in cui sfociano. Ma solo il Po riesce a fare dell’Adriatico una sua estensione salata o, volendo ribaltare la prospettiva, solo l’Adriatico prolungandosi nel Po ha una sua fonte. Un rapporto che i geologi ci insegnano essere mutevole nel tempo, come la loro geografia. Negli ultimi tre milioni di anni, un’inezia per i tempi geologici, il livello del mare è cambiato spesso in maniera significativa, in conseguenza a di grandi variazioni climatiche. Tre milioni di anni fa, le temperature erano più alte, e l’Adriatico invadeva tutta la Pianura Padana, arrivando a lambire le Alpi Cozie, mentre solo quindicimila anni fa con l’estendersi dei ghiacciai la riva settentrionale adriatica era arretrata di centinaia di chilometri e il Po sfociava a sud del Conero. Di queste cicliche oscillazioni il Delta è il pendolo, la parte più sensibile nei tormentati rapporti tra questi due titani acquei.

Perciò ogni volta che camminiamo scalzi sulle sue rive i nostri piedi avvertono vibrazioni inusuali, qualcosa di diverso da quello che accade in altri luoghi dove il mare e la terra s’incontrano. Lungo le spiagge del Delta anche il fiume dice la sua, un ménage à trois in continuo divenire, in cui l’acqua dolce e quella salata s’accarezzano e insieme accarezzano sabbie finissime. Di questi rapporti, teneri o violenti a seconda delle stagioni, l’Isola dell’Amore è figlia, che ho raggiunto quando ancora il sole fiammeggiava poco sopra l’orizzonte. L’isola è una creatura giovane e fragile, un’isola elettridea, capace di apparire o scomparire allo stesso modo delle sue mitiche sorelle, narrate da Apollonio Rodio. Anche io, arrivato al mare come gli argonauti, ho fatto forza sui remi “senza tregua, finché arrivarono all’isola sacra di Elettride, / ultima fra tutte, accanto al corso dell’Edidano”, contro una impertinente maretta di Scirocco.

Libri antichissimi, accompagnano la mia erranza adriatica, di isola in isola, di porto in porto. Altrettanto indispensabili sono però i libri contemporanei, che hanno la stessa aura. Quella del viandante, di colui che attraversa ramingo “l’aperto giorno”, riprendendo l’incipit di Hölderlin scelto da Gianni Celati per il suo “Verso la foce”. Pubblicato trent’anni fa, in quell’ormai lontano gennaio 1989, alla vigilia di cambiamenti inaspettati ed epocali. Così per festeggiare il compleanno di questo libro che mi ha insegnato a guardare gli ambienti contemporanei, consapevole che “anche l’intimità che portiamo con noi fa parte del paesaggio”, sono andato a rileggermelo proprio sulla spiaggia dell’Isola dell’Amore. In un giorno infrasettimanale di giugno, dove e quando i silenzi marini sono ancora feriali, lontanissimi dai rumori balneari festivi. Li avevo entrambi questi due libri nello zaino messo a prua del kayak con cui ho fatto questa piccola anabasi inversa nell’ultimo tratto del Po di Goro, che insieme al più piccolo Po di Volano delimitano a est e a ovest la Sacca di Goro. Il puntiglio geografico innanzitutto! Oggi, ai tempi di Google Earth, per paradosso ancor più necessario per trasformare lo spazio in luogo, per fare di un fiume l’Eridano, amato dai greci, e di un mare il Mare Superum, caro ai latini.

Un piccolo viaggio il mio, fatto in kayak e a piedi, ideale prosecuzione di quell’andare verso la foce incominciato da Gianni Celati in un post-atomico mese di maggio del 1986 a Piacenza. “Le notizie di oggi sono che la centrale nucleare di Černobyl non brucia più, cessato il pericolo catastrofe”. Un allarme che in quei giorni e in quei luoghi, a Caorso dove era attiva l’omonima centrale elettronucleare, era ancor più angoscioso. In quell’occasione si sostanziò, forse per la prima volta per tutti, l’idea che i problemi ambientali sono globali, che vento, nuvole e onde, come gli inquinanti, non hanno confini. L’ambiente è ancora in prima pagina e qui le emergenze sono angosciosamente visibili: plastica in mare e cambiamenti climatici, con relativi effetti sulla erosione costiera.

Sul Delta, se muovendosi a piedi o in bicicletta si respira ancora oggi, come scriveva Gianni Celati, “un’aria di solitudine urbana”, amplificatasi mostruosamente dalla dipendenza da smartphone, pagaiando offline lungo i rami deltizi la solitudine ritorna ad essere quella fluviale, antica e potente. La solitudine che cerca, almeno per un’ora o un giorno, il viandante per lenire le sue nostalgie di un tempo nomade perduto. O forse no! Se solo si decide di decelerare, attivando tutti i sensi, di vagabondare per terre e per acque, fiutando l’aria.

Sono trascorsi vent’anni da quando il geografo Eugenio Turri ha avviato la monumentale trilogia narrativa e fotografica intitolata “Adriatico Mare d’Europa”. Turri rinnovò una lunga tradizione veneta che ha in Vincenzo Maria Coronelli uno dei suoi figli più illustri. Il primo volume venne pubblicato nel novembre 1999. Venti di guerra spiravano violenti sulle acque adriatiche e sulle terre balcaniche; Google aveva solo due anni ed era semisconosciuto. Dell’Adriatico “così importante, in quanto costituisce uno degli spazi problematici dell’Europa” Turri e decine di intellettuali delle due sponde hanno descritto i tratti caratteristici, a partire proprio dall’idea di “paesaggio come teatro”, riprendendo il titolo di un altro suo libro fondamentale. Oggi, che le guerre sono terminate ma le riappacificazioni sono difficili e che l’Adriatico non è ancora un mare d’Europa ma è un bene comune europeo, riprendiamo e aggiorniamo – grazie alla collaborazione con Fabio Fiori – il racconto dei mille paesaggi che lo compongono, a partire da una banchina, una spiaggia o una falesia. Luoghi in cui ritrovare o rinsaldare la relazione con il nostro mare quotidiano. Vai a tutti i testi di Fabio Fiori

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