Sguardi adriatici: la traversata

Tesare l’ammantiglio, giù di drizza randa, prua al vento, lascare scotta, inferire la mura della prima mano… rito officiato in rigoroso silenzio, che dà il via all’attraversata dell’Adriatico, mare che accomuna

12/08/2019, Fabio Fiori -

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Replica di una Gaeta Falkusa (foto © Stjepan Tafra/Shutterstock)

A poppa la costa è ormai solo una linea sfumata, ma altissimo, color dell’ambra in questa alba sciroccosa, il Gran Sasso è ancora oggi un prezioso talismano per il marinaio adriatico. La montagna più alta, che raggiunge i 2914 metri al Corno Grande leggo sulla carta nautica. Un faro diurno, visibile nelle giornate limpide dal Conero al Gargano, fino alla costa illirica. Da quella parte è orientata la nostra prua, per 70°. È quella di una piccola barca a vela che va cercando i silenzi e le magnificenze del largo. Perché anche una traversata adriatica di 70 miglia a vela è un’esperienza odissiaca o, riprendendo il verso dantesco, un’avventura “per l’alto mare aperto, sol con un legno e con quella compagna picciola dalla qual non fui diserto”.

Il mio è un legno degli anni Settanta del Novecento, una barchetta in vetroresina di sette metri e mezzo; un progetto dello storico studio inglese Camper & Nicholson, un Brigand 7.50, robusto e marino, capace cioè di affrontare bene le onde e il vento. La mia è una compagnia piccolissima, quella di un amico con cui fin da ragazzo ho condiviso entusiasmi, gioie e dolori dell’Adriatico che è il stato il nostro grembo marino, che è il luogo dove teniamo viva la nostra selvatichezza.

“Felice chi, come Ulisse, ha compiuto un viaggio avventuroso; e non c’è mare per viaggi avventurosi come il Mediterraneo”, urlo nello Scirocco che incomincia a far spumeggiare le onde. È una frase di Conrad che per noi è diventata un vaticinio da mandare a memoria, per declamarlo tutte le volte che mettiamo la prua a oriente.

“Marinaio! Una mano di terzaroli!”, ordina il comandante con un sorriso che solo l’aria salata sa regalargli. Vado così a base d’albero e fedele all’adagio marinaresco, “una mano per sé e una per la barca”, svolgo a una a una le manovre necessarie. Tesare l’ammantiglio, giù di drizza randa, prua al vento, lascare scotta, inferire la mura della prima mano, su di drizza, tesare la borosa della prima mano, puntare i mattafioni, mollare l’ammantiglio, cazzare la scotta quanto necessario per navigare al traverso. Il rito viene officiato in rigoroso silenzio, quello rumoroso del mare, intervallato da pochissime parole marinaresche funzionali alla buona e rapida manovra.

Lo Scirocco, vento di sudest genericamente foriero di perturbazioni in arrivo da occidente, in Adriatico è motore di acque temperate, limpide, rigeneranti. Una fondamentale linfa ionica che potenzia la circolazione superficiale, indispensabile al rinnovo e alla rivitalizzazione delle acque.

Benvenuto Scirocco! o Jugo, come lo chiamano gli slavi, anche per chi deve attraversare l’Adriatico a vela, alla maniera degli antichi. Con una mano di terzaroli e il fiocco la barca va docile a quasi 5 nodi. Intorno a noi un mare che è diventato blu cobalto, screziato di bianco, quello delle ochette, le prime schiume bianche che il vento crea quando supera i 10 nodi. Mure a destra, il sole picchia forte e impone ritmi ferrei di guardia al timone. Due ore al sole in coperta e due ore all’ombra sottocoperta. Steso in cuccetta sottovento, chiudo gli occhi e lo sciabordio è una nenia antichissima e dolcissima.

“Delfini! Delfini!”, grida l’amico. Salgo in coperta e vado a prua. Sono cinque meravigliose stenelle, i delfini più piccoli che zigzagano giocosi. È sempre uno spettacolo che incanta. Le vele piene, la barca sbandata. Loro si fanno accarezzare dalla piccola onda di prua; decelerano e accelerano con incredibile facilità, intersecando le loro rotte con la nostra. Uno più grande sparisce nel blu. Dopo qualche minuto, salta fuori dall’acqua a un quarto di miglio al mascone di destra. A uno a uno anche gli altri lo seguono, chi immergendosi in profondità, chi con guizzi in superficie. Così come sono improvvisamente apparsi, scompaiono. Un’epifania pelagica, capace di incantare i marinai di ieri e di oggi.

Nel pomeriggio appare all’orizzonte il profilo severo dell’isola di Vis o Lissa o Issa, per usare il toponimo greco delle origini. Quasi al centro il monte Om, che sfiora i 600 metri, ha già nel nome una sua sacralità. Ci vorranno ancora quattro ore perché appaiano anche le più piccole Santo Stefano e Busi. Quest’ultima venendo da sudovest è un preludio d’isola, un misterioso scoglio “pien de busi” per dirla alla veneziana, che in queste isole sono stati di casa per secoli.

La Grotta Azzurra di Busi è la più bella dell’Adriatico e non ha niente da invidiare all’omonima e ben più nota di Capri. Indimenticabile è per me il ricordo del primo ingresso in quell’antro sirenico, fatto a nuoto in un crepuscolo serale di tanti anni fa. La luce e il suono della grotta era quello di un cuore; un cuore turchese e sinfonico, il cuore adriatico. Ma questa volta andiamo direttamente a Komiža, storico approdo occidentale dell’isola di Vis.

A poche miglia dall’ingresso dell’ampia baia sottovento sfila una vela latina. Immagine iconica della barca che ha fatto la storia peschereccia dell’isola, la gaeta falkusa. È un piccolo gozzo che veniva utilizzato per la pesca delle sardelle. Un’attività fiorente fino ai primi decenni del Novecento, quando erano impiegate un centinaio di gaete che partivano in flotta alla vota del pescoso micro-arcipelago di Pelagosa, un paio di sassi esattamente al centro dell’Adriatico, a circa quaranta miglia per sud-sudovest.

Entriamo in porto al tramonto, giusto il tempo di sbrigare le formalità per mettersi subito in cammino. Voglio salire sul primo pendio alle spalle del porto, per verificare personalmente quello che ho letto durante la traversata su un portolano ottocentesco. “Il vallone di Comisa s’apre fra le punte Stupisce e Knez-rat, e prospetta le rive d’Italia, il cui gran sasso scorgesi distintamente da Comisa, quando il sole a ciel sereno verge al suo tramonto”. C’è foschia, aria umida di Jugo e il Gran Sasso rimane un invisibile talismano adriatico.

Sguardi adriatici

Sono trascorsi vent’anni da quando il geografo Eugenio Turri ha avviato la monumentale trilogia narrativa e fotografica intitolata “Adriatico Mare d’Europa”. Turri rinnovò una lunga tradizione veneta che ha in Vincenzo Maria Coronelli uno dei suoi figli più illustri. Il primo volume venne pubblicato nel novembre 1999. Venti di guerra spiravano violenti sulle acque adriatiche e sulle terre balcaniche; Google aveva solo due anni ed era semisconosciuto. Dell’Adriatico “così importante, in quanto costituisce uno degli spazi problematici dell’Europa” Turri e decine di intellettuali delle due sponde hanno descritto i tratti caratteristici, a partire proprio dall’idea di “paesaggio come teatro”, riprendendo il titolo di un altro suo libro fondamentale. Oggi, che le guerre sono terminate ma le riappacificazioni sono difficili e che l’Adriatico non è ancora un mare d’Europa ma è un bene comune europeo, riprendiamo e aggiorniamo – grazie alla collaborazione con Fabio Fiori – il racconto dei mille paesaggi che lo compongono, a partire da una banchina, una spiaggia o una falesia. Luoghi in cui ritrovare o rinsaldare la relazione con il nostro mare quotidiano. Vai a tutti i testi di Fabio Fiori

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