Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità

Claudio Bazzocchi recensisce una raccolta di saggi del sociologo Zygmunt Bauman. Tra crisi dello stato nazione, integrazione europea e responsabilità di "fare società".

21/11/2002, Redazione -

Il disagio della postmodernità
Bruno Mondadori, 2002. Pag. 275

Zygmunt Bauman è uno dei più noti sociologi al mondo. Professore emerito di Sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia, in italiano ha pubblicato: Modernità e olocausto (Bologna 1992), Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategia di vita (Bologna 1995), Le sfide dell’etica (Milano 1996), La società dell’incertezza (Bologna 1999), Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (1999), Voglia di comunità (2001), Modernità liquida (2002).

È uscita ultimamente in Italia una raccolta di saggi di Zygmunt Bauman dal titolo Il disagio della postmodernità, in cui il sociologo polacco riprende i temi a lui cari negli ultimi anni, sviluppati soprattutto nel libro La società dell’incertezza, edito in Italia da Il Mulino nel 1999.
Fin dal titolo Bauman si richiama al famoso saggio di Freud Il disagio della civiltà, nel quale il grande viennese, analizzando la società moderna, scriveva che il principio di realtà aveva prevalso sul principio di piacere. L’uomo moderno, per Freud, aveva così scambiato una parte di felicità per un poco di sicurezza. Ora, a 72 anni dall’analisi di Freud, è il principio di piacere ad essere divenuto dominante. E allora, ribaltando Freud, Bauman può scrivere che gli uomini postmoderni hanno perso una dose della loro sicurezza in cambio di un aumento della probabilità o della speranza di felicità. Se il disagio della modernità stava nel "dover pagare la sicurezza restringendo la sfera della libertà personale", il disagio della postmodernità "deriva invece da una ricerca del piacere talmente disinibita che è impossibile da conciliare con quel minimo di sicurezza che l’individuo libero tenderebbe a richiedere".
L’estrema libertà crea quelle incertezze che Bauman è riuscito ad elencare nelle sue ultime opere in una sorta di catalogo delle paure postmoderne: dalla paura dell’immigrato a quella dell’inadeguatezza, cioè la paura di non poter mostrare sempre la forma migliore e più alla moda in un mondo continuamente cangiante. Queste paure sono il risultato dell’incertezza, ma vengono anche continuamente alimentate. Infatti i poveri, i devianti e gli emarginati sono il risultato di una società sempre più divisa fra ricchi e poveri con sempre meno protezioni sociali, e incutono timore, ma nello stesso tempo sono anche lo sfondo scuro necessario sul quale le figure dei ricchi e di tutti coloro che possono continuamente scegliere splendono "in modo così abbagliante che, come per il sole non si vedono le macchie" di cui sono coperte.
La libertà individuale estrema e il principio di piacere dominante inducono gli uomini postmoderni a cercare sensazioni sempre diverse e sempre nuove esperienze. Questa ricerca spasmodica abbatte ogni tipo di regolazione sociale, compresa quella che nella modernità, tramite il welfare, aveva garantito la protezione sociale, ed un minimo di dignità anche per le classi subalterne. Bauman ci dice che tagliare le forme di protezione sociale e smantellare il welfare state non aggiunge nulla alla libertà di chi è libero:
"La restrizione di libertà degli esclusi non aumenta la libertà dei rimanenti, mentre toglie loro gran parte della sensazione di sentirsi liberi e della capacità di godere della libertà. L’eliminazione dello stato assistenziale apre molte strade, ma non è affatto detto che qualcuna di esse conduca a una società di individui liberi. Dal punto di vista dei bisogni umani, appaiono tutte dei vicoli ciechi. Viene infatti turbato l’equilibrio tra i due versanti della libertà: giunti circa a metà di ognuna di queste strade, il piacere della libera scelta diminuisce, mentre aumentano la paura e l’angoscia. Evidentemente la libertà di chi è libero, per poter venire realmente goduta, deve essere una libertà universale (pag. 263)".
Per Bauman allora la libertà deve essere sempre una relazione sociale, così come altre volte in questa sede abbiamo ricordato che i diritti umani sono un progetto di società (C. BAZZOCCHI, La pervasività della retorica dei diritti umani e la loro pericolosa influenza sugli interventi di cooperazione nei Balcani, Osservatorio Balcani, 2001). Infatti per Bauman "il potere paralizzante esercitato dagli altri non è tanto una funzione delle loro caratteristiche particolari (né tantomeno una funzione delle conseguenze esistenziali dell’esistenza degli "altri" in sé), quanto l’effetto o la proiezione della debolezza di coloro che, per mancanza di mezzi, cadono vittime dell’emarginazione". Allora un progetto politico postmoderno dovrà ispirarsi al triplice principio di Libertà, Differenza, e Solidarietà, "nel quale la solidarietà rappresenta l’indispensabile completamento, nonché la condizione necessaria della libertà e della differenza". Ed è proprio il postulato della Solidarietà che richiama gli uomini postmoderni a fare società oltre i meccanismi automatici del mercato globale deregolato:
"Ciò che i sistemi postmoderni non sono … in grado di esaudire da soli, senza un intervento politico, è il postulato della solidarietà; e ricordiamo ancora una volta che senza solidarietà la libertà non può sentirsi sicura, mentre le differenze e la "politica dell’identità" che per natura esse tendono a sviluppare conducono quasi sempre … a un’interiorizzazione dell’oppressione (pag. 267)".

L’integrazione europea
Quello che più ci interessa di questo libro è seguire come Bauman articoli le sue riflessioni sulla libertà a proposito dell’Europa e del processo di integrazione europea.
Per la prima volta – ci dice Bauman citando Galbraith – nei paesi occidentali gli elettori hanno premiato una politica che favorisce l’aumento della diseguaglianza sociale:
"Una maggioranza di persone spera di guadagnare di più investendo i suoi redditi nel libero gioco di mercato, che non cedendo parte cospicua di essi alle istituzioni statali incaricate di soddisfare i suoi bisogni fondamentali (pag. 253)".

È questa l’Europa che i cittadini dei paesi postcomunisti hanno cominciato a conoscere. Parliamo di un’Europa più egoista, non accogliente verso i fratelli dell’est e soprattutto disposta a rinunciare alla politica e alla solidarietà nella convinzione degli effetti benefici del mercato senza regole. E Bauman analizza il percorso dei paesi postcomunisti negli ultimi dieci anni, caratterizzati da quello che alcuni hanno voluto chiamare "economia politica della pazienza". Si tratterebbe in sostanza di un percorso nel quale alla libertà non hanno fatto seguito la felicità e il benessere. La pazienza sarebbe allora quella virtù mediante la quale dovrebbe essere possibile sopportare la precarietà e la povertà presente in cambio del benessere futuro. Ma Bauman invita gli europei dell’est a seguire invece un’economia politica della speranza, secondo la penetrante definizione del sociologo Krysztof Zagórski. L’economia politica della speranza sta ad indicare "che la coscienza umana considera basilare non solo la velocità dei cambiamenti, ma anche la loro direzione, e che in entrambi i casi non si può certo sperare di firmare un assegno in bianco". Ancora una volta Bauman ci richiama a ritornare alla politica e al fare società secondo una direzione decisa collettivamente e verificata in corso d’opera. Insomma, avere pazienza significa accettare senza dubbi che la diseguaglianza e la deprivazione producano infine un risultato migliore di quello ottenuto dai regimi comunisti, mentre avere speranza significa potersi interrogare "fino a che punto la diseguaglianza crescente possa davvero produrre frutti del genere". Per Bauman l’economia politica della speranza che può nascere nell’est europeo, dovrà rappresentare proprio una speranza anche per la democrazia europea. Infatti se i soddisfatti della diseguaglianza sono in Occidente ancora la maggioranza, nell’illusione che essa possa portare ricchezza e benessere, allora la vitalità della democrazia è in serio pericolo, e la democrazia stessa rischia di trasformarsi in pura routine procedurale. Sarà proprio l’economia politica della speranza dei cittadini dell’est a ridare alla democrazia la capacità di rinnovarsi, là dove la democrazia viene vissuta come un compito da eseguire, una cosa di cui parlare e su cui interrogarsi continuamente:
"Per poter fare democrazia bisogna parlarne, parlarne ampiamente e seriamente, nel senso che niente possa essere accettato per fede o proceda per inerzia al seguito della tradizione. Che lo si voglia o no, bisogna tornare a interrogarsi sui nessi tra forme e contenuto del modo di vivere democratico e commisurare gli intenti ai mezzi, verificando il valore delle procedure attraverso il confronto con i risultati. Il centro del dibattito che negli ultimi due secoli ha nutrito la civiltà europea si sposta oggi a est (pag. 255)".

Tribù, nazioni e nazionalismi

L’economia politica della speranza ed il fare società ad essa collegata possono essere forse anche l’antidoto al proliferare di stati basati sull’identità etnica nell’est europeo. Per Bauman certamente lo stato-nazione moderno è in crisi a seguito dei processi di globalizzazione, ma non – attenzione – l’idea di stato-nazione:
"Le difficoltà in cui è venuto a trovarsi lo stato nazionale hanno reso l’idea di stato nazionale più attraente che mai: adesso le comunità etniche, che in tempi di sovranità nazionale non se lo sarebbero mai sognato, possono "conquistare l’indipendenza". Il "treppiede della sovranità" segnava i confini prospettici dell’esistenza statale. Per costituirsi in stato, le nazioni in spe hanno dovuto dimostrare la possibilità realistica di un’esistenza autonoma basata sull’autosufficienza economica, militare e culturale. Oggi che nessuno, o quasi nessuno stato può parlare seriamente di autosufficienza, nessuno deve più dimostrare nulla. Come ha spiritosamente detto un attento osservatore della storia contemporanea, Erik Hobsbawm, ‘qualunque isolotto del Pacifico può aggiudicarsi l’indipendenza e una vita felice per il suo presidente purché possieda un golfo per una base marittima che faccia gola agli stati più solvibili, un giacimento di manganese o almeno un numero di spiagge candide e di belle ragazze sufficiente per potersi pubblicizzare come paradiso turistico’".
Tale situazione è gravida di conseguenze drammatiche e grottesche. Una di queste è la pulizia etnica, lo strumento utilizzato nel momento in cui le tradizionali pressioni assimilatrici dello stato-nazione non sono più efficaci. Un’altra conseguenza è il fiorire di presunte identità etniche nel cuore dell’Europa occidentale: padani, scozzesi, bretoni, occitani… Per Bauman lo stato nazionale diventa sempre più, agli occhi di quelle nuove identità etniche, come quel potere intermedio odioso che lo stesso stato-nazione aveva combattuto e cancellato all’inizio della propria storia. Si chiede Bauman, immaginando la domanda dei padani o degli scozzesi: "perché mai i burocrati della capitale dovrebbero mediare tra loro e l’Europa?". Lo stato-nazione viene sempre più configurandosi come un organo amministrativo locale che controlla l’esecuzione delle decisioni prese in sede europea. Non può più neppure appellarsi al patriottismo, poiché "ha perso il monopolio nel definire le identità umane e nel codificare i doveri di lealtà ad esse legate".

Fra comunitarismo e liberalismo
Per Bauman neppure il comunitarismo (Per una definizione di comunitarismo si veda: D. BELL; Communitarianism, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Winter 2001 Edition), Edward N. Zalta (ed.), può considerarsi una soluzione al proliferare delle identità, sempre che questo possa e debba essere considerato un problema. Il comunitarismo per Bauman non rappresenta altro che la seconda trincea sulla quale si attestano i fautori delle minoranze comunitarie con gli stessi principi del nazionalismo: la validità delle scelte di vita solo in presenza di alternative trasmesse agli esseri umani attraverso la lingua e la tradizione della loro società. Insomma, le minoranze che erano state sconfitte dagli stati nazionali in nome di un unico potere statale omogeneo che mettesse al bando i poteri intermedi, ora in nome della comunità e dei governi locali ripropongono gli stessi principi del nazionalismo, al di fuori del quadro del potere statale centrale. È questa per Bauman un’illusione, poiché solo il potere statale centrale poteva garantire al nazionalismo l’autorità di indicare scelte di vita valide per tutta la collettività nazionale. Bisogna infatti riconoscere che:
"Le speranze riposte nello stato nazionale non si sono mai realizzate; che per un morivo o per l’altro, lo stato nazionale non è più, e probabilmente non sarà mai, fonte e garanzia di una "valida scelta di vita"; che, privato dello scudo del potere statale, il nazionalismo ha perso quell’autorità senza la quale il rifiutare il diritto alle scelte individuali diventa praticamente impossibile e teoricamente inaccettabile; e infine, che nel deserto venutosi a creare, sono proprio le minoranze in lotta, fino a poco tempo fa sterminate dallo stato nazionale, a formare quella seconda linea di trincee dove una scelta valida può trovare rifugio dallo sterminio definitivo e compiere ciò di cui il potere statale si è rivelato incapace".

E non è un caso allora che quelle comunità etniche che in nome dei diritti umani e delle minoranze hanno rovesciato gli stati socialisti nell’est europeo, si sono trasformate a loro volta in regimi oppressivi e illiberali – al pari, e a volte molto di più – degli stati nazionali che hanno voluto abbattere.
Bauman ci invita allora a prendere atto che c’è una contraddizione insanabile che affligge l’uomo contemporaneo: quella fra la libertà senza comunità e la comunità senza libertà. Questa contraddizione riporta comunque a quella centrale della postmodernità, la contraddizione fra libertà e sicurezza, fra principio di piacere portato all’estremo e incertezza. Allora il comunitarismo non può essere la soluzione ai problemi del liberalismo:
Sia il comunitarismo, sia il liberalismo sono proiezioni della reale e grave contraddizione che inesorabilmente si annida nella condizione dell’individuo autonomo. Entrambe sono però proiezioni unilaterali, entrambe ignorano il fatto che nessuna virtù di un’esistenza libera può sopravvivere all’eliminazione dei suoi difetti. La comunità senza libertà è una prospettiva altrettanto pericolosa e ripugnante della libertà senza comunità. Nel bene o nel male, la vita dell’individuo autonomo deve esprimersi nel veleggiare tra due estremi altrettanto sgradevoli. Nel bene o nel male, l’evitare i due scogli sommersi è l’unica chance di quella vita sensata e dignitosa che gli uomini liberi hanno il diritto di desiderare, anche se i filosofi fanno il possibile per nascondere loro tale verità.
L’inesorabile richiamo della politica
L’invito di Bauman, per concludere, è allora sempre quello di assumersi la responsabilità del fare società e del creare legame sociale, in una prospettiva di azione mai definitiva, che rifiuta l’ideale di una società perfetta, ma non per questo rinuncia al diritto di spostare l’orizzonte della giustizia sociale sempre più avanti.

Claudio Bazzocchi

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