Živojin Pavlović, profeta della realtà
Chi era Živojin Žika Pavlović (1933-1998), regista e scrittore al quale nella Jugoslavia di Tito era stata affibbiata l’etichetta di ideologicamente scomodo? Diplomatosi in pittura decorativa all’Accademia delle arti di Belgrado, ben presto si accorge che la sua vocazione è il cinema e ne diventa uno dei protagonisti indiscussi
Quest’estate solcando il mare del web in cerca di notizie sul novantesimo anniversario della nascita di Živojin Pavlović, mi sono trovato a dover fare i conti con un pescato assai magro catturato “in rete”. Un interessante testo scritto dal regista e attore Radoš Bajić e un articolo dedicato alla presentazione del libro Kino-poeta velikog crnila [Il poeta del cinema del grande nero] tenutasi lo scorso 18 maggio a Belgrado [1]. Alla presentazione sono intervenuti, con parole emozionanti e sagge al contempo, Rade Šerbedžija, Miša Radivojević, Darko Bajić, Goran Gocić e Nenad Pavlović (in rete troverete facilmente la registrazione video dell’evento, vale la pena guardarla.)
Chi era Živojin Žika Pavlović, regista al quale nella Jugoslavia di Tito era stata affibbiata l’etichetta di ideologicamente scomodo? Chi era l’intellettuale Pavlović che, in un’intervista [2] rilasciata dopo la dissoluzione della Federazione jugoslava, affermò che quel periodo [socialista] in cui aveva subito vari attacchi, era pur sempre da considerarsi un’epoca d’oro dell’arte e della cultura, paragonandolo all’età di Pericle? Mi chiedo anche chi fosse l’uomo e artista al quale l’attore Bogdan Diklić, alla domanda se fosse interessato a interpretare un personaggio secondario in un suo film, rispose che in un film di Žika Pavlović avrebbe interpretato anche una gamba di un tavolo. Ricordo che un collega di Diklić, Rade Šerbedžija, ha dichiarato che, anche se non avesse mai interpretato i ruoli principali nei film diretti da registi stranieri di fama internazionale, comunque avrebbe avuto qualcosa di cui vantarsi: “Ho interpretato i personaggi principali nei film di Žika Pavlović e a me basta. Cos’altro mi serve?”.
Živojin Pavlović nacque nel 1933 a Šabac. Per via del lavoro del padre, trascorse l’infanzia in diverse città della Serbia, passando però la maggior parte del tempo nella terra natia di sua madre, nel villaggio di Vratarnica nei pressi di Zaječar, che il regista considerava la sua unica vera patria (quell’area della Serbia orientale attraversata dal fiume Timok è il palcoscenico della maggior parte dei romanzi e dei racconti di Pavlović). Si diplomò in pittura decorativa presso l’Accademia di arti applicate di Belgrado. Frequentando la Cineteca della capitale fu travolto dalla forza ispiratrice dei film Quarto potere di Orson Welles e Un cane andaluso di Luis Buñuel. A soli diciannove anni iniziò a scrivere di cinema e arte per diversi giornali e riviste belgradesi. Stando alle sue stesse parole, fu all’inizio degli anni Cinquanta, durante il ricovero in un sanatorio per pazienti affetti da tubercolosi a Golnik, in Slovenia, che, sovrastato dall’ombra della morte, capì che la sua vera vocazione non era la pittura, bensì il cinema, visto come un possibile strumento per contemplare l’essenza dell’esistenza. Questa contemplazione si rivelerà un’autentica cifra della produzione artistica di Pavlović, dominata dall’idea che un vero artista non può permettersi di fuggire da se stesso.
Dopo un film amatoriale del 1958, dedicato al pittore Ljuba Popović , nel 1962 Pavlović realizzò il suo primo lungometraggio Žive vode [Acque vive] – parte integrante di un omnibus cinematografico intitolato Kapi, vode, ratnici [Gocce, acque, guerrieri] – che ricevette il premio speciale della giuria al Festival del cinema di Pola. Con i suoi film successivi – Neprijatelj [Il nemico, 1965], che esprime, seppur implicitamente, quell’idea guida della sua arte a cui abbiamo accennato prima, e Povratak [Il ritorno, 1966] – Pavlović si impose come figura di primo piano del nuovo cinema jugoslavo. Un cinema – che proprio per via delle opere di Pavlović, Petrović, Žilnik e altri registi all’epoca considerati sovversivi – i “controllori del sistema” (come Pavlović chiamava gli occhi e le orecchie sempre vigili del regime) denominarono informalmente Crni talas [L’onda nera].
Neprijatelj e Povratak confermano la maturità del linguaggio cinematografico e l’autenticità dell’espressione artistica di Pavlović. Il protagonista dei due film è Velimir Bata Živojinović, all’epoca il più famoso attore jugoslavo. Neprijatelj, ispirato al romanzo Dvojnik [Il sosia] di Dostoevskij, ripercorre la vita di Slobodan Antić, operaio ed ex soldato, un idealista del tutto estraneo al camaleontismo che si oppone all’ipocrisia della cosiddetta morale socialista. Antić rimane fedele a se stesso, come anche Al Kapone, protagonista del film Povratak, un ex criminale che, una volta uscito dal carcere, cerca di dare una svolta alla sua vita. Entrambi i protagonisti – in cui sembra possibile vedere una specie di alter ego del regista – finiscono tragicamente: la scelta di seguire la voce della propria coscienza comporta un prezzo da pagare.
I protagonisti di tutti i film di Pavlović (nel corso della sua carriera ne ha realizzati quindici) sono individui emarginati, relegati ai margini di una società che in loro si rispecchia, senza però rendersene conto, essendo pochi quelli capaci di mettere in luce questo aspetto. Fra le opere di Pavlović spiccano alcuni capolavori degli anni Sessanta: Buđenje pacova [Il risveglio dei ratti, 1967], vincitore dell’Orso d’argento al Festival di Berlino; Kad budem mrtav i beo [Quando sarò morto e bianco, 1968], premiato come miglior film al Festival di Karlovy Vary, e Zaseda [L’imboscata, 1969], vincitore del Leone d’oro a Venezia. Quest’ultimo film, mettendo a nudo l’altra faccia della Rivoluzione, suscitò ira e preoccupazione tra gli alti funzionari del partito. Ad ogni modo, tutti i film di Pavlović attirarono l’attenzione del grande pubblico e, giustamente, se ne parlava e discuteva molto. Oltre che in patria, Pavlović fu insignito di numerosi riconoscimenti anche all’estero (fra i suoi film non ve n’è nemmeno uno che sia rimasto senza premi.)
Quando venne messo al bando il film Plastični Isus [Gesù di plastica, 1971] di Lazar Stojanović, Pavlović fu tra i pochi a criticare tale decisione e, di conseguenza, venne estromesso dall’insegnamento presso l’Accademia d’arte drammatica (tornò a insegnare solo nel 1981). Un’estromissione a cui contribuì anche il fatto – di cui i controllori del sistema di certo non si erano scordati – che qualche anno prima fu vietato Ispljuvak pun krvi [Uno sputo pieno di sangue], un libro di Pavlović scritto in forma di diario e dedicato agli eventi del 1968 [3].
Va ricordato che Pavlović fu anche un grande scrittore. Esordì nel 1963 con la raccolta di racconti Krivudava reka [Il fiume serpeggiante], a cui fecero seguito trentuno libri di prosa scritti nel corso degli anni, principalmente romanzi, raccolte di racconti e saggi. Le duemilacinquecento pagine del suo diario, raccolte in sei volumi, furono pubblicate postume. Per ben due volte si aggiudicò il premio letterario NIN (nel periodo in cui questo premio rivestiva ancora grande rilevanza e vantava una giuria competente) per i romanzi Zid smrti [Il muro della morte, 1985] e Lapot (1992). Nella sua prosa, come anche nei suoi film, Pavlović rimase sempre fedele a quello che considerava il suo unico vero mondo, ossia alla realtà (leggendo un articolo dedicato a Žika Pavlović sono rimasto piacevolmente sorpreso nell’apprendere che non gli piacevano affato le opere dello scrittore di fama mondiale Milorad Pavić.) Non stupisce quindi quell’ironico annuncio di Pavlović [contenuto nel suo libro Flogiston del 1989]: “Offro tutte le opere di Borges in cambio di un solo racconto di Isaak Babel’”. E in Italia? Non sforzatevi inutilmente, non vi è traccia di traduzioni delle prose di Pavlović.
Negli anni Settanta, nel tentativo di sfuggire a pressioni a cui fu sottoposto in Serbia, Pavlović girò la maggior parte dei suoi film in Slovenia. Tra questi spiccano Crveno klasje [Spighe rosse, 1970], Let mrtve ptice [Il volo dell’uccello morto, 1973] e Doviđenja do sledećeg rata [Arrivederci alla prossima guerra, 1980] in cui il regista, nell’anno della morte di Tito profeticamente preannunciò il tragico scioglimento dei nodi ideologici ed etnici jugoslavi. Non rimase indifferente nemmeno di fronte al sanguinoso dramma serbo-croato e nel 1992 realizzò il film Dezerter [Disertore].
Non visse abbastanza a lungo per assistere alla première del suo ultimo film Država mrtvih [Il paese dei morti] che, in un groviglio delle circostanze più improbabili, fu portato a termine da un suo ex studente, il regista Dinko Tucaković, il quale, parlando di questa incredibile impresa, affermò modestamente: “Ho cercato di fare in modo che il mio lavoro rimanesse impercettibile”. La prima del film, il cui protagonista è interpretato da un insuperabile Radko Polič, si tenne al Sava Centar di Belgrado il 29 novembre del 2002, quindi esattamente quattro anni dopo la morte di Živojin Pavlović. [4]
L’idea degli organizzatori di presentare il film anche a Zagabria, Sarajevo e Lubiana, in contemporanea con la proiezione a Belgrado, andò in fumo. La sola reminiscenza del 29 novembre, la Festa della Repubblica all’epoca jugoslava, sembrava troppo imbarazzante? O forse a suscitare un imbarazzo ancora maggiore era il fatto che il film fu tratto dal dramma Janez di Siniša Kovačević, il cui protagonista, un ufficiale sloveno, nel 1991 si rifiuta di rimanere in Slovenia poiché ha giurato fedeltà alla Jugoslavia? (Država mrtvih si trova facilmente su YouTube, è un ottimo film, particolarmente “piacevole” da guardare nelle lunghe notti insonni.)
Credo che Država mrtvih sia una metafora vivente della transizione così come la percepiva Pavlović. Pur essendo la morte un motivo ricorrente nella sua cinematografia, i film di Pavlović sono nati in quella “età di Pericle”, in quel Paese dei vivi a cui il regista, nonostante tutto, ha legato la sua intera esistenza, diventandone però consapevole solo dopo la scomparsa di quel paese, in quel vuoto che preannunciava l’arrivo di un Paese dei morti. Un paese dove gli idealisti e i ribelli saranno sempre meno, mentre i profittatori e i relativisti continueranno a moltiplicarsi.
“Dalle acque torbide del 1968 sono emersi vari mostri. Da quelli che non hanno capito nulla ai fanatici senza una chiara posizione, passando per i pervertiti, i tornacontisti e i futuri bravi collaboratori del regime e dei servizi segreti. Molti di loro sono diventati alti funzionari del regime, collaboratori ben addestrati dei servizi segreti, abili tornacontisti sempre zitti e condiscendenti, agitatori e provocatori con un tariffario, esposto in modo ben visibile, dei servizi offerti a chi ne ha bisogno…”, scriveva Pavlović in Uno sputo pieno di sangue.
Se sostituissimo le acque torbide del ‘68 con quelle della transizione, forse avremmo una percezione più chiara di tutti gli elementi tangibili della vita sociale, (sotto)culturale e politica non solo della Serbia, ma dell’intera est Europa?
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[1] Si tratta di una raccolta di testi dedicati a Pavlović, pubblicata dal Centro culturale di Leskovac nell’ambito del Festival internazionale di regia cinematografica di Leskovac (LIFFE). Tra gli autori ci sono gli ex studenti di Pavlović (Darko Bajić, Slobodan Šijan, Milena Marković), i suoi colleghi e collaboratori (Puriša Đorđević, Miša Radivojević, Rajko Grlić, Nebojša Pajkić, Goran Milašinović, Stole Popov), nonché alcuni attori (Rade Šerbedžija, Svetozar Cvetković, Dragan Nikolić). [2] “Susciterò l’ira del pubblico dicendo la verità. Nonostante tutte le reazioni censorie e ideologiche, nonostante l’ostilità e le follie del totalitarismo, [l’epoca jugoslava] è stata l’età di Pericle della nostra cultura, il periodo di massimo splendore culturale della storia di questa nazione […] In quel periodo la nostra poesia ha raggiunto il suo acme, come anche la pittura moderna, il cinema, e abbiamo assistito anche ad una vera e propria eruzione della prosa, mai vista prima. Discorso simile vale per la musica: è stato il momento di massimo splendore della musica creata da Ljubica Marić, Dušan Radić e altri autori. Lo stesso non si può però dire per l’architettura poiché è stata assoggettata agli interessi ideologici. E cos’è successo a teatro? Un miracolo. Ecco, tutto ciò è accaduto in quel periodo, a prescindere da come lo si guardi e interpreti – per quanto riguarda l’arte e la cultura, parliamo di fatti inconfutabili”. (Tratto dall’intervista con Živojin Pavlović, pubblicata sul settimanale NIN nel gennaio del 1993) [3] La prima edizione fu subito messa al bando, non solo per via della feroce critica espressa dell’autore, ma anche perché riportava fedelmente una lettera inviata agli studenti belgradesi da Nikola Čučković, ex internato del campo di Goli Otok, il quale aveva citato i nomi di molti funzionari del partito che erano a conoscenza dell’esistenza del lager. Nel 1984, quindi dopo la morte di Tito, uscì una seconda edizione, ma anch’essa fu subito vietata. Una terza ristampa vide la luce solo dopo la dissoluzione della Jugoslavia. In un suo eccellente saggio , Nicole Janigro parla anche di questa opera sui generis di Živojin Pavlović. [4] Istituito nel 2008, il Festival internazionale di regia cinematografica di Leskovac è ispirato alla figura e all’opera di Živojin Pavlović, promuovendo la cinematografia serba e di altri paesi della regione. Nel corso degli anni il festival ha dato spazio alle migliori opere cinematografiche dello spazio postjugoslavo, registrando circa 90mila spettatori che hanno potuto vedere oltre 300 film, e ospitando numerosi attori e registi di generazioni diverse. Tra i vincitori del premio intitolato a Živojin Žika Pavlović spiccano i nomi di Goran Marković, Slobodan Šijan, Emir Kusturica, Rade Šerbedžija, Miki Manojlović, Lazar Ristovski, Dragan Nikolić, Velimir Bata Živojinović, Slavko Štimac, Bogdan Diklić, Goran Paskaljević.
Censura
“Nel periodo compreso tra il 1963 e il 1989 l’apparato repressivo del regime comunista di quel tempo intervenne per ben quattordici volte per censurare e bandire in altri modi i libri e i film di Pavlović, ma anche lui stesso come persona. Così un suo film fu vietato da un tribunale (in Jugoslavia solo un altro film fu formalmente vietato), anche il suo diario sul 1968 venne messo al bando da un tribunale. Inoltre, fu espulso dall’Accademia del cinema dove insegnava, i suoi film venivano messi nel bunker e tolti dalla circolazione, molti passaggi dei suoi libri, considerati scomodi, venivano censurati e cancellati dagli editori, gli venivano sottratti progetti già approvati. Alla fine, non potendo più girare a Belgrado, andò a lavorare in Slovenia…”, scriveva Dragoljub Todorović in un articolo che rende omaggio al grande regista, intitolato “Allora chi era Žika Pavlović?”, pubblicato sul quotidiano belgradese Danas, l’11 agosto 2014.