Zecovi, alla ricerca di giustizia
Il 25 luglio 1992 nel villaggio di Zecovi, situato a pochi chilometri da Prijedor e abitato da bosgnacchi, vengono uccisi 150 civili. Tra di loro 29 familiari di Fikret Bačić, tornato in Bosnia a fine guerra per cercarne i corpi e portare i responsabili a processo. Nel giorno della commemorazione dell’eccidio, abbiamo raccolto la sua testimonianza
"Quando arrivate a Prijedor invece che andare verso il centro proseguite in direzione Sanski Most. A poco meno di 5 km troverete una stradina prima asfaltata e poi sterrata che vi porta fino a noi". È Fikret Bačić che al telefono ci dà indicazioni su come raggiungerlo. È il 25 luglio e nella frazione Gradina del villaggio di Zecovi si sta svolgendo la commemorazione dell’eccidio di 150 civili di Zecovi uccisi nel 1992, tra cui 29 familiari di Fikret.
Mentre di fronte alla sua casa donne e uomini distribuiti sul prato cominciano a seguire il “namaz” (preghiera) in memoria delle vittime, Fikret ci accompagna lungo il sentiero che costeggia il recinto del giardino e si ferma di fronte a una lapide a forma di libro.
"Lavoravo in Germania da prima che scoppiasse la guerra, mentre mia moglie e i bambini erano rimasti a vivere qui accanto alle case di tutti i nostri parenti, i miei genitori, i miei fratelli e nipoti, miei nonni, zii e cugini". Inizia così il suo racconto al gruppo di trentini venuti in Bosnia su organizzazione del "Gruppo Bosnia Mori ", attivo sul territorio di Prijedor da anni.
"In totale massacrarono 29 dei miei parenti, tra i quali mia moglie, mia figlia Nermina di sei anni, mio figlio Nermin di 12 e, tra gli altri, anche il figlio di mio fratello che aveva solo due anni". Lo dice indicando una gettata di cemento al centro del prato. "La casa era lì, accanto a quella di mio padre. Quando sono tornato era tutto raso al suolo e ho dovuto costruirne una nuova accanto alle macerie". Poi si gira di 180 gradi e indica il bosco sul fianco del sentiero: "Ora vedete solo bosco. Dovete sapere che qui era pieno di case, le cui macerie sono state totalmente coperte in 27 anni di abbandono". Aggiunge che attorno alle case, lungo la collina, era coperto da campi coltivati e all’orizzonte, a un chilometro in linea d’aria, si vedevano le case dei vicini serbo-bosniaci: "Se oggi non ci fosse il bosco potreste vederle anche ora, le case di chi ha partecipato al massacro".
Il 23 luglio le forze militari serbo-bosniache assediarono il villaggio e deportarono tutti i maschi adulti, in maggioranza uccisi durante la deportazione o nei lager – Keraterm, Trnopolje e Omarska – in cui vennero rinchiusi, lasciando nel villaggio donne e bambini.
"A donne e bimbi della mia famiglia ordinarono di stare tutti dentro un capannone-deposito che usavamo per gli attrezzi agricoli e un gruppo di soldati rimase a controllarli. Due giorni dopo, il 25 luglio, arrivò un altro gruppo di militari e assieme al gruppo che era qui si avviarono al villaggio di cui là potete vedere il campanile della chiesa, Briševo. Donne e bambini decisero di uscire dal capannone per risalire in casa; dalle finestre del primo piano cominciarono a sentire i colpi d’arma da fuoco che arrivavano da quel villaggio, distante 2,5 km in linea d’aria [a Briševo, abitato da croato-bosniaci, quel giorno avvenne il massacro di 68 persone tra donne, anziani e bambini, ndr]".
Ciò che avvenne viene raccontato da Fikret grazie alla testimonianza di suo nipote Zijad. "Qui, dove adesso c’è questa lapide con i nomi dei miei familiari uccisi, c’era un tavolo. Nel tardo pomeriggio i soldati tornarono e si sedettero a bere un caffè, poi si avviarono alla caserma dopo aver ripetuto alle donne di restare ‘al sicuro’ e non allontanarsi per evitare di rimanere ferite visto gli scontri in corso…".
Al calar della sera cominciò a bruciare la casa di un vicino e sentirono degli spari. Da lì a poco si presentò alla porta un soldato che ordinò loro di uscire: "Le donne presero per mano i bambini e vennero portati accanto a quel muretto, sotto al frutteto. Zijad, che aveva 14 anni, si era attardato per mettersi le scarpe ed era rimasto ultimo. Mentre usciva dalla casa riconobbe nel primo soldato il nostro vicino serbo-bosniaco, Ilija Zorić. Alle prime raffiche di mitra si mise al riparo dietro al muretto e riuscì ad allontanarsi di qualche metro. Da qui, riconobbe tra gli uomini che sparavano un altro vicino, Željko Grbić. Assistette all’uccisione di tutti, compresi sua madre, due fratelli e una sorella… anche il momento in cui un soldato passò tra i corpi per dare il colpo di grazia". Lo stesso scenario si ripeterà poco dopo davanti alla casa della zia, con figli e nipoti; tra questi solo due bambini sopravviveranno alle ferite.
I soldati se ne andarono, sicuri di aver fatto “piazza pulita”. Al calar del buio Zijad decise di andare a chiedere aiuto ad un vicino, suo amico e compagno di classe, serbo-bosniaco, che abitava a 1 km di distanza. Non trovando nessuno si arrampicò al balcone del primo piano per passare la notte al sicuro. Il giorno dopo tornò verso le case dei suoi parenti sperando di trovare qualcuno vivo, ma alla vista dei corpi sul prato non resse e tornò indietro. Fikret prosegue sottolineando l’importanza dell’aiuto che venne offerto al nipote: "Trovò il suo compagno di classe S. e i due genitori, che lo nascosero per otto giorni. Ma dato che l’unità militare responsabile dell’eccidio aveva saputo che era l’unico superstite testimone e lo cercava, non era più al sicuro. Il padre di S. grazie alle sue conoscenze di alto livello da prima della guerra, riuscì a fare arrivare Zijad a Prijedor da dove con un altro zio sfollò a Travnik".
Da Travnik riuscì ad arrivare a Zagabria, in Croazia, dove lo aspettava suo zio Fikret per portarlo con sé in Germania. Appena è stato possibile, dopo la guerra, sono tornati a vivere in Bosnia, nel 1998. Una decisione, racconta Fikret, presa con due obiettivi: "Il primo era trovare i responsabili dell’eccidio e portarli a processo. Il secondo era trovare i corpi dei miei familiari".
Ad oggi i corpi non sono stati ancora trovati: come avvenuto in molti altri casi, dopo le uccisioni sommarie le vittime venivano occultate in fosse comuni. Di recente, i resti di alcuni dei 150 civili uccisi nella municipalità di Zecovi sono stati trovati nella più grande fossa comune finora scoperta, Tomašica – un’enorme area in cui vennero trovati in primi corpi nel 2004 ma soprattutto a decine dal 2013 – ad oggi sono stati esumati i resti di 430 persone.
Fikret e suo nipote Zijad, tornati in Bosnia hanno cominciato a cercare altri testimoni e prove affinché venisse emesso l’ordine di arresto degli indagati e l’avvio di un processo per crimini di guerra. Nel dicembre del 2014 sono stati arrestati 15 ex membri dell’esercito, della polizia e del Centro di crisi serbo-bosniaci di Prijedor: oltre ai due vicini di casa riconosciuti allora da Zijad, anche Dušan Milunić, Radomir Stojnić, Radovan Četić, Duško Zorić, Zoran Stojnić, Zoran Milunić, Boško Grujičić, Ljubiša Četić, Rade e Uroš Grujicić, Rajko Grbić, Zdravko Antonić e Rajko Gnjatović. Il processo a loro carico, iniziato nel giugno del 2015, è in corso presso la Corte di Sarajevo e prevede la comparizione di quasi 100 testimoni. Tra questi, oltre a Fikret e suo nipote Zijad, anche la madre del suo compagno di scuola. L’amico di Zijad e il padre, che gli salvarono la vita, vennero uccisi pochi mesi dopo mentre la madre, rimasta in vita, ha deciso di partecipare alle indagini e oggi è testimone di giustizia sotto protezione.
In attesa di ottenere giustizia, presenziando ad ogni dibattito processuale – il prossimo sarà il 13 di settembre – Fikret Bačić partecipa alla ricerca degli scomparsi anche in qualità di membro del direttivo dell’Istituto per la ricerca delle persone scomparse di Bosnia Erzegovina (IOM – Institut za nestale osobe Bosne i Hercegovine ): "Mancano all’appello ancora 7.200 persone e non è per nulla facile ottenere informazioni da chi ha occultato i corpi o ha anche ‘solo’ visto; ogni tanto ne riceviamo ancora ma il tempo che passa ci è nemico. Eppure continuo a sperare, grazie a qualche pentito, di trovare finalmente anche la mia famiglia".
Un’ora di racconto, durante il quale le 15 persone arrivate dal Trentino sono ammutolite. Viene fatta, prima del solidale saluto a Fikret, solo una timida domanda: "Come riesci a raccontare, ogni volta, e a reggere?". Fikret, tenendo sguardo e voce ferma, ha risposto: "Ogni volta che racconto a persone come voi che hanno voglia di sapere, in realtà trasferisco un pezzo di me che voi vi portate via. Così facendo, mi alleggerite di una parte del peso che porto dentro".
Lasciamo dietro di noi la lapide voluta da Fikret per ricordare, a chi passa da quel sentiero e soprattutto ai giovani, ciò che è riassunto nell’inscrizione in testa ai nomi: “Non dite, per quelli che hanno perso la vita lungo la strada di Allah, che ‘sono morti’. No, loro sono vivi, ma voi questo non lo sapete. 25.07.1992”.