Wahabiti bosniaci

L’Islam radicale in Bosnia. La guerra, il dopoguerra, il rapporto con la Comunità islamica ufficiale e con la maggioranza dei fedeli. Indagine sul fenomeno al centro dell’ultimo film di Jasmila Žbanić, Na Putu

17/05/2010, Eldina Pleho - Sarajevo

Wahabiti-bosniaci

(Foto Cristophotos, Flickr)

All’origine della diffusione del movimento wahabita in Bosnia Erzegovina c’è un’unità militare, la brigata El Mudžahid. Truppe di combattenti bene addestrati, di origine araba o asiatica, entrarono in Bosnia una prima volta nell’estate-autunno del 1992 e una seconda nel corso del 1994. La prima ondata riguardava il semplice trasferimento di volontari dall’Afghanistan e dal Pakistan, mentre la seconda aveva una dimensione più organizzata: insieme ai soldati arrivarono anche armi e munizioni. Secondo Esad Hećimović (Garibi, Mudžahedini u BiH 1992-1999, Fondacija SINA, Zenica, 2006), il trasporto delle truppe avveniva attraverso la Croazia con il tacito assenso delle autorità di quel Paese. La maggior parte delle persone sarebbe infatti giunta a Spalato, per poi essere trasferita nella Bosnia sotto occupazione dell’esercito serbo.

La brigata militare El Mudžahid, secondo alcune stime, avrebbe contato fino a 2.000 soldati. Il loro atteggiamento e la loro ideologia erano molto inconsueti per l’esercito bosniaco ufficiale (Armija BiH), che aveva al proprio interno anche soldati di nazionalità serba o croata.

L’unità militare formata dai mujaheddini fu costituita nel 1993 nella Bosnia centrale, nella città di Zenica. Questa, ancora oggi, è la regione in cui il movimento wahabita ha la sua base più consistente. Sembra fuori discussione il fatto che il loro arrivo nel Paese fosse pienamente a conoscenza del governo bosniaco, e del suo presidente Alija Izetbegović. I vertici dell’Armija BiH, tuttavia, hanno sempre sostenuto di non poter pienamente controllare la brigata El Mudžahid. I mujaheddini non rispettavano le leggi locali, ma solo la sharia.

Garibi, di Esad Hećimović

Garibi, di Esad Hećimović

I soldati di questa brigata, durante il conflitto, furono accusati di crimini di guerra e di crimini contro i civili. Il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja (TPI) ha condotto numerose inchieste su questi crimini, che comprendevano violenze di vario genere e decapitazioni di prigionieri. Il TPI condusse un’inchiesta contro lo stesso Alija Izetbegović, che fu però interrotta dalla morte del presidente nel 2003. Il capo di Stato Maggiore dell’esercito bosniaco, generale Rasim Delić, è stato invece condannato nel 2008 a tre anni di carcere per non aver saputo prevenire i crimini commessi dai mujaheddini, nonostante il TPI avesse riconosciuto che non esisteva una diretta linea di comando tra l’esercito bosniaco e la brigata. Delić è morto il 16 aprile scorso a Sarajevo, in attesa del giudizio di appello.

Dopoguerra

Una parte dei soldati della brigata El Mudžahid lasciò la Bosnia dopo la guerra. Il governo bosniaco, con la firma degli Accordi di Pace di Dayton, si era impegnato a che tutti i combattenti stranieri lasciassero il Paese.

Alcuni, tuttavia, rimasero e iniziarono una nuova vita in Bosnia sposando donne locali, appartenenti per lo più a famiglie povere e di campagna. Molti di questi si stabilirono in un villaggio della Bosnia centrale, Bočinja, che prima della guerra era abitato prevalentemente da serbi. Circa 200 troupe giornalistiche da tutto il mondo, dopo la guerra, visitarono questo fertile villaggio sulle rive della Bosna, documentando la vita della comunità wahabita a Bočinja.

In applicazione degli Accordi di Dayton, tuttavia, dopo alcuni anni i serbi di Bočinja rientrarono in possesso delle loro proprietà, e oggi quel villaggio appare completamente diverso. Accanto ad una dozzina circa di famiglie che seguono l’Islam secondo le regole wahabite, ci sono anche famiglie serbe e famiglie che seguono l’Islam tradizionale bosniaco. Secondo i resoconti della stampa, i residenti oggi hanno gli stessi problemi del resto della popolazione, assenza di infrastrutture e disoccupazione, e l’atmosfera nel villaggio è improntata ad una sostanziale tolleranza. I poliziotti locali tuttavia avvertono che non è sempre stato così, e che reagiscono prontamente ad ogni manifestazione di intolleranza.

In Bosnia, oggi, ci sono opinioni discordi sulla reale presenza dei wahabiti, e sul loro impatto sulla vita quotidiana dei cittadini. Nessuno infatti possiede dati su quanti siano i sostenitori di questo movimento, che non ha nessun tipo di organizzazione ufficiale o di leadership riconosciuta. Secondo un sondaggio condotto recentemente dall’Agenzia Prisma di Sarajevo, il 3% della popolazione bosniaca si dichiarerebbe “appartenente al movimento wahabita”. Altri sondaggi, condotti dalla stessa Agenzia, segnalano un generale atteggiamento “molto negativo” dei bosniaci nei confronti di questo movimento, a cui sarebbe “contrario” il 70% della popolazione.

Islam e Islam

Luna Mijović e Zrinka Cvitešić nel film Na Putu

Luna Mijović e Zrinka Cvitešić nel film Na Putu

Le differenze più rilevanti tra i wahabiti e i seguaci dell’Islam bosniaco “tradizionale” riguardano la pratica religiosa, e la questione della separazione tra la religione e lo Stato. Il problema principale, per i wahabiti, è quello del rispetto di leggi che non hanno nulla a che fare con la sharia. Gli aspetti più rilevanti, tuttavia, sono quelli esteriori. Gli appartenenti a questo movimento sono infatti molto riconoscibili in Bosnia: gli uomini hanno generalmente barbe lunghe e indossano pantaloni corti (non devono toccare il terreno), mentre le donne, in modo assolutamente insolito per la regione, indossano una lunga tunica nera (tipo burqa) che copre tutto il corpo tranne gli occhi. Le donne inoltre non escono mai sole, né parlano con altri uomini se non alla presenza del marito o di un familiare. Da qualche tempo si vedono anche ragazze molto giovani vestirsi in questo modo e, in alcuni casi, anche bambine.

Le famiglie dei wahabiti sono solitamente numerose, a volte con 5 o 6 figli, a differenza del resto della popolazione che in generale ha uno o due figli. Le donne devono occuparsi della famiglia, non lavorano, e la loro esclusione dalla società è molto criticata dalle associazioni per i diritti civili. Secondo i seguaci del movimento, in questo modo le donne non sono discriminate ma protette, e l’emancipazione non ha portato loro felicità.

Sui mezzi pubblici, nelle ore di punta, i mariti cercano di proteggere le mogli dal possibile contatto con i passeggeri. Questo atteggiamento irrita molto il resto della popolazione, specie nelle aree urbane, e non è raro assistere a insulti indirizzati ai wahabiti. Negli edifici religiosi, poi, i wahabiti si tengono solitamente in disparte, ed escono dalla moschea dopo aver fatto la cosiddetta parte obbligatoria della preghiera, farz, mentre gli altri fedeli restano in moschea e sono quindi disturbati dalla confusione che si viene a creare.

Il Reis

Ci sono molte controversie sul modo con cui la Comunità islamica ufficiale della Bosnia Erzegovina, guidata dal Reis ulema Mustafa Cerić, ha affrontato la presenza wahabita. Molte critiche si sono indirizzate verso la superficialità con cui questo fenomeno sarebbe stato considerato. La pratica religiosa dei wahabiti ha creato infatti molte discordie tra i fedeli, sia in campagna che in città, soprattutto nei casi in cui i primi hanno cercato di imporre ai secondi le proprie idee. Dopo alcuni incidenti avvenuti all’interno di edifici religiosi, ed alcune prese di posizioni di esponenti wahabiti che criticavano pubblicamente l’Islam tradizionale bosniaco e i suoi rappresentanti, la Comunità islamica ha reagito emanando una risoluzione nella quale richiama i musulmani “alla saggezza e alla stabilità”. La Comunità islamica ha dichiarato non accettabile il comportamento di coloro che cercano di imporre il wahabismo decidendo che cosa corrisponde alla “vera” fede. Molti, tuttavia, pensano che dovrebbe opporsi a questo movimento in maniera molto più determinata.

Nel settembre 2008 si è verificato a Sarajevo un primo serio incidente che ha coinvolto un gruppo di wahabiti. Alcune associazioni della società civile sarajevese avevano organizzato il Queer Festival, una manifestazione artistica su tematiche di genere. Alcune decine di wahabiti, insieme a un gruppo di hooligans, hanno attaccato fisicamente gli ospiti del festival e i giornalisti presenti alla serata inaugurale all’Accademia, nel centro della città. L’aggressione ha avuto una grande eco nel dibattito pubblico cittadino, anche per la reazione incerta delle forze dell’ordine, che non sono riuscite a evitare diversi feriti tra coloro che volevano partecipare alla mostra. Buona parte dell’opinione pubblica sarajevese, inoltre, è rimasta sconcertata per la mancata reazione della Comunità Islamica, che non ha condannato esplicitamente l’azione.

Nel luglio scorso, a Mostar, è avvenuto un secondo incidente. Alcuni giovani, che erano seduti al bar vicino a una moschea, sono entrati in contatto con un gruppo di wahabiti che tornavano dalla preghiera. Ne è seguita una rissa furibonda. 5 giovani sono rimasti feriti e un wahabita, Magdy Dizdarević, di 35 anni, che peraltro secondo i procuratori non aveva partecipato agli scontri, è stato ucciso. Diverse persone sono state arrestate, e le indagini non sono ancora concluse.

Alcuni osservatori locali ritengono che la minaccia rappresentata da questo movimento sia più seria di quanto appaia, sotto il profilo della potenziale imposizione di una diversa visione religiosa al resto dei musulmani bosniaci. L’ideologia wahabita è radicale, aggressiva, e questo può costituire un problema in una società in cui le relazioni tra i tre principali gruppi nazionali sono ancora delicate. I problemi economici legati alla transizione, inoltre, e la nuova ricerca di spiritualità, sono fattori che giocano a favore dei wahabiti.

Intelligence

Secondo le testimonianze riportate da alcuni aderenti al movimento, ci sarebbero premi in denaro per chi sceglie di unirsi ai wahabiti, il cui sostegno maggiore, in termini ideologici e finanziari, proverrebbe da persone o organizzazioni legate all’Arabia Saudita (ma non dalle autorità ufficiali di quel Paese). Utilizzare i simboli esteriori del movimento, in particolare l’abbigliamento delle donne, potrebbe fruttare tra i 200 e i 500 euro mensili. Queste illazioni, emerse a più riprese nel dibattito pubblico, non hanno però mai ricevuto una conferma ufficiale. E’ molto raro infatti che oggi, in Bosnia Erzegovina, qualcuno ammetta pubblicamente di essere un rappresentante del movimento wahabita, o anche solo di farne parte. La reticenza potrebbe essere funzione dell’attenzione dimostrata recentemente nei confronti dei gruppi islamici radicali da parte dei servizi di intelligence locali e internazionali.

Alla fine del 2005 la polizia bosniaca, in un’azione coordinata con la polizia danese, ha arrestato un gruppo di persone sospettate di pianificare attentati a Sarajevo contro alcune Ambasciate di Paesi dell’Europa occidentale. I 4 arrestati, Mirsad Bektašević, Abdulkadir Cesur, Bajro Ikanović e Senad Hasanović sono stati condannati da un tribunale bosniaco, nel gennaio 2007, rispettivamente a 15 anni e 4 mesi (Bektašević), 13 anni e 4 mesi (Cesur), 8 anni (Ikanović) e 2 anni e 6 mesi (Hasanović). L’obiettivo del gruppo sarebbe stato quello di spingere con azioni terroristiche la comunità internazionale e la Bosnia Erzegovina a ritirare i propri soldati da Iraq e Afghanistan.

Il secondo caso per fatti di terrorismo giudicato da una Corte bosniaca è ancora in corso, e riguarda Rijad Rustempašić. Nato nel 1975 a Travnik, residente a Sarajevo, Rustempašić è accusato di aver pianificato, insieme con altri, attacchi terroristici che avrebbero dovuto avvenire nel dicembre 2009. L’atto di accusa, firmato dal procuratore internazionale Drew G. Engel, afferma tra l’altro che “nel periodo tra novembre 2007 e marzo 2008 il gruppo si è incontrato […] per definire potenziali obiettivi di attacchi che comprendevano “luoghi croati” durante il Natale cattolico, attacchi contro “Vlachi” [non musulmani che vivono in Bosnia, generalmente serbi, ndr] durante il Natale ortodosso, attacchi contro unità dell’EUFOR nell’area di Bugojno, dove i soldati europei sono alloggiati in case e quindi facile bersaglio, attacchi a soldati delle Forze Armate bosniache in attesa di essere trasferiti in Iraq, a Rajlovac, azioni contro la diga di Kijevo, perché la diga è ‘in territorio serbo’ mentre gli impianti sono ‘in territorio musulmano’, in modo da riaccendere il conflitto tra serbi e musulmani”. Le perquisizioni della polizia, durante le indagini, hanno permesso di recuperare una grande quantità di armi e esplosivo.

Il caso più importante nelle inchieste su presunte attività di terrorismo, tuttavia, è stato un buco nell’acqua, fortemente criticato dalle organizzazioni per i diritti umani, ed ha riguardato i cosiddetti “6 algerini”. All’inizio del 2002 sei cittadini bosniaci di origine algerina, indagati per fatti di terrorismo, processati e giudicati innocenti dalla giustizia bosniaca, sono stati sequestrati dalle forze armate statunitensi e condotti a Guantanamo. La loro odissea si è (parzialmente) conclusa il 21 ottobre 2008, con la pronuncia di un tribunale statunitense (giudice Richard J. Leon) che ha ordinato il rilascio di 5 di loro per assenza di prove a carico. Tre sono rientrati in Bosnia, mentre due sono in una sorta di limbo: la Bosnia non li vuole e loro temono per le proprie vite se dovessero rientrare in Algeria.

A casa

Anche in Bosnia Erzegovina, da alcuni anni, si cerca di affrontare il problema dei rimpatri. Le autorità bosniache, infatti, hanno avviato nel 2006 un processo di revisione delle cittadinanze concesse a individui provenienti da Paesi afro-asiatici. A molti di loro, al termine degli accertamenti, è stata revocata la cittadinanza. Alcuni sono stati deportati dal Paese, mentre altri sono trattenuti in Centri per Immigrati, in attesa della decisione finale sul loro caso. In totale, a dicembre 2009, sono state 680 le cittadinanze revocate a cittadini naturalizzati bosniaci. Secondo i membri della Commissione che si occupa degli accertamenti, saranno oltre 12.000 le cittadinanze da rivedere. In Bosnia Erzegovina c’è un Centro per Immigrati e il numero medio dei suoi ospiti è di 14 persone, per una capienza massima di 22. Alcuni vi sono trattenuti anche per un anno, nonostante si tratti di una pratica contro la legge, che prevede un massimo di due settimane di permanenza. Tutti attendono l’esito del processo di Appello.

In Europa

In Bosnia Erzegovina, oggi, si discute molto di visti e libertà di movimento. La recente apertura della Commissione Europea nei confronti di alcuni Paesi della regione ha escluso la Bosnia, in ritardo nel percorso di integrazione europea. Il ministro degli Esteri italiano Frattini si è recentemente espresso, insieme al collega francese Kouchner, per una correzione di rotta che permetta anche ai bosniaci di viaggiare liberamente in Europa. Si tratta di una misura fortemente auspicabile. Una delle modalità più efficaci per contrastare la diffusione del radicalismo, infatti, è l’apertura dell’Unione Europea ai Balcani. La chiusura delle frontiere, un duro regime di visti, possono avere un effetto controproducente. La chiusura alimenta un’atmosfera di ghetto, che può determinare solo il rafforzamento a lungo termine di wahabiti o altri gruppi radicali. L’esperienza del genocidio, e le incertezze europee nel corso della guerra, hanno contribuito a creare una distanza tra i musulmani bosniaci e l’Europa. Questa distanza deve essere colmata. L’ingresso nell’Unione Europea, per i bosniaci, è una priorità. Dovrebbe esserlo anche per l’Unione.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta