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Vita migliore
Una sorta de “I ragazzi della via Pal”, ma senza l’innocenza del romanzo di Ferenc Molnar, questo “Vita migliore”, edito da Bompiani, del serbo Nikola P. Savić, vincitore di Masterpiece, il primo talent show per scrittori trasmesso su RaiTre il passato inverno
Ambientato a Belgrado negli anni dei conflitti che avrebbero portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia, ha rimandi anche al periodo di Tito, con una fotografia, non priva di ironia, dei funerali del Maresciallo.
Mentre in alcuni capitoli, di forte impatto, sono presenti situazioni che colgono la Serbia nei giorni stessi della guerra con la violenza e la corruzione, strettamente connesse, che la fanno da padrone. Una violenza che, appunto, non può non influenzare e togliere innocenza ai ragazzi che si fronteggiano nelle strade di Belgrado, quartiere contro quartiere, in mezzo ai quali scorre la Sava che fa da spartiacque tra la nuova Belgrado, quella costruita a suo tempo anche con il lavoro forzato degli internati di Tito, riconoscibili per il numero e la posizione, 62° Nord, 62° sud e così via, con incursioni in quella vecchia.
La storia, con sospetti elementi autobiografici, è raccontata in prima persona – tranne alcuni capitoli, distinti anche nel carattere tipografico – da Deki, uno della “banda” del 62° Nord, gli altri sono Uros il Piccolo, Scabbia, Mihailo, Z e le ragazze, Ivana su tutte, più grande di età di Deki, che ne è innamorato pur essendo trattato da fratellino minore, e le coetanee Milica, Zorica, Snezana, tutti colti in due momenti che rappresentano la prima e la seconda parte del romanzo. La prima, fino a quando Deki – come lo stesso autore – ha 12 anni e segue il padre ingegnere trasferito per lavoro a Venezia (anzi a Mira) e la seconda, tre anni dopo, a un suo ritorno a Belgrado.
La prima parte è centrata sui turbamenti adolescenziali, con prove tecniche di sesso che rivelano una generazione di scafati, per l’età che hanno, soprattutto le femminucce, adolescenti cresciuti all’insegna del rock, che già nella ex Jugoslavia aveva una forte presenza influenzando, eccome!, la musica folk tradizionale (basti pensare alle tre band più famose a quel tempo in Jugoslavia, gli Azra, i Bijelo Dugme e i Riblja Čorba) e, attraverso di essa, gli stili di vita.
Momenti ludici e di disincanto, come il bagno nella Sava, si alternano in pagine di buona capacità evocativa. Pavić lo fa attraverso una lingua essenziale, nata dalla straordinarietà di essere altra da quella di origine, diventata propria, vivendo ora egli in Italia, e capace di trarre il succo necessario a restituire atmosfere, caratteri, ambienti. Ci sono pagine a riguardo, soprattutto quelle in cui Deki lascia chiaramente intuire i tradimenti coniugali del padre, che ricordano uno tra i più bei film di Emir Kusturica “Papà è in viaggio d’affari”, che si mescolano alle tipiche sensazioni e crucci adolescenziali.
Nella seconda parte ritroviamo un Deki che ritorna in una Belgrado che troverà diversa, per poi riambientarsi a contatto con i vecchi amici, anche se la situazione è cambiata. La guerra, vissuta attraverso altri, oggettivata, con tutto il suo portato di violenza e corruzione insidia la vita quotidiana.
L’episodio del confronto tra Deki, uno tra l’altro che pratica la lotta, e un certo Goran per Zaza, una ragazza, è significativo. Deki, di fronte alle provocazioni di Goran, picchia più forte, umiliandolo. La risposta arriva il giorno stesso, con gli amici di Goran che arrivano con le pistole sotto le maglie – pur nella stagione estiva – pronti a una resa dei conti. Da qui la fuga strategica attraverso i nuovi quartieri, campo di battaglia di una gioventù che ha nelle istituzioni – Milošević imperante – esempi di prevaricazione e distorsione dei compiti, come ad esempio quello della pattuglia di poliziotti che sta sempre dietro a Goran, figlio viziato di uno dei capi della polizia ed ex capo della sicurezza di Milošević, a prevenire gli eventuali eccessi che ritiene legittimati dalla sua collocazione sociale.
“Vita migliore” è un romanzo dotato di una sua autonoma forza che deriva certamente dallo spaccato di anni che racconta e in cui la durezza del vivere imponeva anche agli adolescenti di crescere in fretta (anche sul piano sessuale), ma anche dalla scrittura, direttamente in italiano, reinventata sulla base di categorie semantiche le cui radici sono nel passionale carattere espressivo slavo.