Violenza domestica in Kosovo

La violenza domestica, di cui sono vittime soprattutto le donne, continua ad essere un problema molto diffuso in Kosovo. Alla base della questione, soprattutto cause di natura economica e sociale. Un approfondimento

11/08/2014, Violeta Hyseni Kelmendi - Pristina

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La violenza domestica continua ad essere un problema diffuso in Kosovo, in particolare nelle aree rurali. Secondo le organizzazioni che si occupano del fenomeno, i casi denunciati crescono di anno in anno. Le ultime statistiche ufficiali del ministero della Giustizia risalgono al 2012, ed indicano 1.021 casi di violenza domestica, di cui 822 hanno visto come vittime donne. Inoltre, secondo i dati, le donne che hanno trovato rifugio in centri protetti sono 302. In 206 casi gli uomini violenti sono stati arrestati, mentre sono stati avviati 902 procedimenti giudiziari. Ai numeri ufficiali vanno aggiunte le violenze che non vengono denunciate.

I fattori tipicamente associati alla violenza di genere sono di natura economica e sociale. In particolare, la mancanza di indipendenza economica delle donne, la povertà, la diffusione delle famiglie numerose sono considerate le cause maggiori della violenza domestica. 

La doppia marginalizzazione delle minoranze

Il fenomeno è ancora più presente tra le comunità minoritarie. Secondo l’European Centre for Minority Issues (ECMI) le donne appartenenti alle comunità minoritarie subiscono una marginalizzazione doppia, in primo luogo perché donne, e poi come appartenenti a gruppi minoritari. Come spiega Lara Pollozhani, project manager del progetto “Empowering Minority Communities in Kosovo against Gender-Based Violence”,  “in quanto appartenenti a minoranze le donne subiscono una doppia marginalizzazione: per loro l’accesso alle istituzioni è limitato per ragioni di natura culturale, linguistica ed economica, e questo rende difficile determinare la dimensione esatta della violenza. Molti casi non vengono denunciati, sia a causa dell’assenza di fiducia nelle istituzioni, sia a causa di barriere tradizionali per cui la violenza domestica viene accettata all’interno della famiglia e mai portata all’esterno e condivisa con gli altri”.

Secondo le ricerche condotte in quattro municipalità kosovare, a Fushë Kosovë/Kosovo Polje l’85% degli intervistati è d’accordo con l’affermazione che qualche volta al marito è permesso maltrattare la moglie, mentre nelle zone di Ferizaj, Gračanica e Mitrovica-Nord, ad essere d’accordo con tale affermazione è una percentuale minore di persone intervistate. Nita Luci, ricercatrice di Antropologia presso l’Università di Pristina, sostiene che “secondo la ricerca che abbiamo condotto, le donne appartenenti alle comunità minoritarie sono spesso non consapevoli dei propri diritti. Complessivamente, lo studio mostra che le donne identificano la violenza domestica o la “violenza basata sul genere” (gender-based violence) con la violenza fisica. Una gran parte delle donne intervistate ritiene inoltre che il lavoro è un importante strumento di emancipazione contro la violenza, e molte considerano che il sostegno delle famiglie, e soprattutto degli uomini, la crescita di consapevolezza, e una migliore risposta delle istituzioni possono essere dei buoni rimedi contro il fenomeno”.

Il contributo italiano alla reintegrazione delle vittime

Dal 1999 una ONG italiana, “Reggio Terzo Mondo” (RTM) è impegnata ad aiutare la società kosovara a combattere la violenza domestica. Con il progetto europeo REVIVE (Reintegration of Victims of Domestic Violence), RTM ha supportato la creazione di reti tra associazioni italiane e kosovare impegnate a contrastare la violenza contro le donne, per creare nuove modalità per affrontare, attraverso lo scambio di metodologie di lavoro, un fenomeno comune ad entrambe le sponde dell’Adriatico.
“La violenza domestica è un grande problema in Kosovo perché non è riconosciuto dalla società. La società in genere pensa che si tratti di un problema familiare; al contrario, le persone dovrebbero iniziare a pensare che la violenza è un problema della società. Il fenomeno della violenza esiste anche se non è vissuto personalmente, e chiama tutti ad agire. Se il nostro vicino di casa è vittima di violenza, noi siamo tutti chiamati ad agire”, spiega l’esperta italiana Danila Zizi.

Nell’ambito del progetto REVIVE, esperti italiani lavorano con la Kosovo Shelter Coalition per l’emancipazione delle donne ospitate nei centri anti-violenza e sviluppano collaborazioni con le autorità locali e i servizi pubblici. Qualche giorno fa è stato inoltre pubblicato il manuale “Dalla violenza all’empowerment” destinato agli operatori dei centri anti-violenza e ai servizi sociali.

I centri anti-violenza in Kosovo sono nati nel dopoguerra dalla necessità di sostenere le donne che avevano attraversato dolorose esperienze durante il conflitto in cui migliaia di donne sono state violentate, mentre il numero dei bambini nati dallo stupro e abbandonati in strada o negli ospedali è sconosciuto. Con il passare del tempo, anche grazie al sostegno di partner internazionali, i centri anti-violenza hanno iniziato ad evolversi, a farsi carico di bisogni diversi e ad offrire rifugi temporanei e servizi di sostegno in caso di violenza, non solo violenza di guerra come lo stupro, ma anche violenza di genere. Attualmente sono otto i centri anti-violenza in Kosovo: uno di questi offre ospitalità alle donne vittime di tratta, un altro è specializzato nella protezione dei minori.

A causa di una cultura patriarcale, e di alcune tradizioni, ci sono casi di vittime abbandonate non solo dal marito, ma dall’intera famiglia. Spesso queste donne prendono con sé i bambini, e l’unica porta aperta è quella dei centri anti-violenza. In genere le donne che vivono in queste strutture esitano a condividere la propria storia dolorosa con gli altri. Preferiscono vivere isolate, ma al sicuro.

Una nuova vita

Gli operatori dei centri anti-violenza spiegano che il loro primo obiettivo è costruire una relazione di fiducia con le donne, per incoraggiarle ad aprirsi, forse per la prima volta, senza paura. Le donne vittime di violenza hanno bisogno di sentirsi al sicuro e protette, per poi iniziare il processo che le porta a lasciare la violenza alle spalle. Nelle strutture protette, le donne vengono sostenute nella ricerca di un impiego, a guadagnare l’indipendenza economica e guidate a conoscere i vari attori sociali, pubblici e privati, entro cui muoversi nella loro nuova vita autonoma.

Secondo Naime Sherifi, direttrice della Kosovo Shelter Coalition, "la fase di riabilitazione nelle case sicure dura tipicamente sei mesi, anche se la sfida più grande è la reintegrazione in società, un processo, questo, lungo e complesso. Anche se una donna ritorna dal marito e ricuce la relazione con lui, il processo di reintegrazione dovrebbe continuare perché la donna ha anche altri bisogni. Oltre alla riconciliazione e al ritorno in famiglia, ha bisogno di avere un lavoro, di costruire le proprie capacità professionali e l’indipendenza economica. La reintegrazione in società riguarda proprio queste questioni, che sono molto importanti per la vittima”.

La Kosovo Shelter Coalition lavora anche con organismi governativi, incluso il ministero della Giustizia, il ministero dell’Educazione e le amministrazioni locali nel tentativo di contrastare le violenza domestica. Dal risultato di queste collaborazioni è nata la legge sulla protezione contro la violenza domestica nel 2010, seguita, nel 2013 dalla Strategia nazionale contro la violenza domestica e il relativo Piano d’azione, contenente misure concrete per combattere la violenza domestica, dalla prevenzione alla riabilitazione alla reintegrazione in società.

Tuttavia, secondo l’Ufficio dell’UE in Kosovo c’è ancora molto da fare, soprattutto in termini di implementazione delle norme, prevenzione della violenza, empowerment economico delle vittime, reintegrazione e capacity building nei rifugi e nelle case protette. “La reintegrazione delle vittime della violenza domestica è un processo lungo che richiede un approccio serio e disciplinato. E’ una questione di responsabilità sociale che chiama tutti ad accettare la responsabilità del proprio ruolo: i donatori, il governo, la società civile, i centri anti-violenza, le scuole, i cittadini, i vicini, gli amici, la famiglia…”, afferma Gaby Hagmüller, team leader del Dipartimento per i servizi sociali dell’Ufficio UE in Kosovo.

Anche Leonora Selamni, dell’Agenzia per l’eguaglianza di genere della Presidenza del Consiglio riconosce che il problema più grande della violenza di genere è la reintegrazione delle vittime in società: “Troveremo il modo per reintegrare queste donne”, afferma la Selamni.

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