Viaggio tra i Serbi del Kosovo: “the cage”, la gabbia
Il Kosovo a pochi mesi dalle violenze del 17 marzo contro la comunità serba e le altre minoranze. Reportage
Questo servizio è stato realizzato in collaborazione tra Osservatorio Balcani e Caucaso e il settimanale "D – la Repubblica". Immagini: Gughi Fassino
Nel nome del palazzo c’era anche il suo destino: "Ju program". Costruito in piena epoca Milosevic per i Serbi che avevano abbandonato il Kosovo, era stato inaugurato a Pristina alla fine di aprile del 1997. Oggi, il riferimento alla Jugoslavia rimanda a un mondo ormai perduto nella storia del ‘900. Dopo i violenti incidenti del marzo scorso, la gente ha sostituito a quella particella ormai impronunciabile, "Ju", un nome più diretto, nella lingua degli internazionali, i nuovi amministratori del Kosovo. Non è difficile trovarlo, a pochi minuti dal centro città. E’ un condominio di sole quattro scale. Ci vivono gli ultimi Serbi rimasti a Pristina. Si chiama "the cage", la gabbia.
Prima della guerra del 1999, i Serbi di Pristina erano oltre 40.000 persone su una popolazione totale di 125.000. Dopo l’intervento della Nato, e il ritiro delle forze di Belgrado, quasi tutti si sono rifugiati in Serbia o in enclave protette all’interno del Kosovo. Poco meno di 300 persone sono rimaste a vivere in città, la maggioranza dei quali (176) nello "Ju program", palazzo dalle entrate circoscritte e facilmente difendibile. Il 17 marzo scorso, il Kosovo è stato percorso da tre giorni di violenza diretta contro la comunità serba e le altre minoranze. 19 morti, un migliaio di feriti, centinaia di case e appartamenti bruciati, almeno 36 chiese, monasteri e altri luoghi di culto distrutti. A Pristina, i dimostranti si sono diretti verso "the cage", l’unico luogo dove ancora esisteva una presenza di Serbi. Dopo ore di assedio, le famiglie del palazzo sono state evacuate dalle forze internazionali. Sei mesi dopo, sono ritornati solo in cinquanta. Sono loro, oggi, la comunità serba di Pristina. Gli altri restano in baracche e centri collettivi.
Gracanica
Gracanica è a pochi minuti da Pristina, sulla strada per Gnjilane (Gjilan). Una grande enclave nella quale vivono Serbi, Rom e Gorani (Slavi di religione musulmana), intorno all’antico monastero ortodosso. Oltre ai profughi del 1999, dopo il 17 marzo a Gracanica hanno trovato rifugio anche molti dei nuovi sfollati. Anche vivere qui, tuttavia, presenta dei rischi. Il 5 giugno, dai finestrini di una macchina che attraversava l’enclave, sono spuntate delle armi. Dimitrije Popovic, un ragazzo di 16 anni che passeggiava vicino al Monastero, è rimasto ucciso. La gente di Gracanica ha appeso uno striscione di fronte al locale ufficio dell’Unmik, la missione delle Nazioni Unite in Kosovo. Accanto alla foto di Dimitrije, una domanda a lettere cubitali rivolta agli internazionali: "Cosa racconterete ai vostri figli?"
Il tassista albanese ci accompagna a Gracanica senza esitazioni. "Solo – dice – se potete preparare la moneta, così posso fare inversione immediatamente appena vi lascio giù." Al check point che segna l’ingresso dell’enclave non c’è nessuno. Ai lati della strada, però, ci sono delle muraglie mobili preparate dall’Unmik, pronte a bloccare la strada in caso di problemi. Assomigliano al muro in costruzione in Cisgiordania.
Incontriamo Dragan, Nenad e Vladimir. Fino al 1999 vivevano a Pristina, ora sopportano a fatica la loro nuova vita, circoscritta ad un villaggio di campagna. "Siamo come dei pesci rossi in una boccia d’acqua – dice Dragan. Vivere in una enclave è la prima violazione dei diritti umani." "Nessuno va a Pristina, se non per motivi indispensabili. In ogni caso cerchiamo sempre di avere una scorta delle Nazioni Unite, dice Nenad. In caso di emergenza conviene far finta di essere un internazionale, e parlare inglese. Se non sai parlare inglese sei finito."
Alcuni di loro lavorano per una organizzazione non governativa locale. Gli chiediamo se non si incontrino mai con i propri coetanei albanesi. Vladimir ci racconta con entusiasmo di essere stato in Italia l’anno scorso, insieme ad un gruppo di amici serbi e albanesi, per partecipare alla Scuola di Pace di Montesole, presso Reggio Emilia. Poi, c’è stato il 17 marzo. "Da allora – dice – di incontro non si parla più."
E’ sabato sera. I bar sono pieni. Si beve, si fuma, si gioca a biliardo. Nei Balcani, a volte le scritte sui muri sono più eloquenti di dati e statistiche. Nei giorni scorsi, sui muri dell’enclave ne è comparsa una nuova. Dice: "Qui chi non impazzisce non è normale."
La palestra
La palestra della scuola elementare di Gracanica è diventata un centro collettivo. Ci vivono alcuni dei Serbi sfollati da Pristina dopo il 17 marzo. Addossate alle mura della palestra, ci sono 16 brande. Scatoloni pieni di vestiti e oggetti domestici creano delle stanze improvvisate che separano i diversi nuclei familiari. Alcuni bambini sono ancora sotto le coperte. E’ appena iniziato l’autunno, ma in Kosovo fa già freddo. In un angolo, un forno a microonde con due piastre elettriche rappresenta la cucina della comunità. Seduta su un letto, una donna parla in continuazione, da sola.
"E’ impazzita, da quando c’è stata la guerra non smette mai di parlare, neanche di notte – ci racconta Gligorje S. Negli anni scorsi è stata picchiata più di una volta perché parlava nella sua lingua, il serbo, anche quando era fuori da una enclave. Viene da Kosovo Polje, ma dopo il 17 marzo è sfollata qui nella palestra insieme a noi dello ‘Ju program’. Non ci lascia dormire, ma cosa possiamo farci?"
Gligorje è un odontotecnico, lavorava al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Pristina. "Dopo il 1999, però, a Pristina non ha lavorato più nessuno di noi. Solo quelli che hanno trovato impiego presso le organizzazioni internazionali."
Qualche giorno fa, la improvvisata comunità della palestra si è allargata. Nel centro collettivo è nata Tamara D., figlia di Zorica. La vita continua, ma in un limbo. Chiedo a Gligorje cosa pensa delle elezioni che si terranno in Kosovo il 23 ottobre. Mi risponde a fatica. Non gli interessa Pristina, e nemmeno Belgrado. La conversazione è finita. Ci versa un altro goccio di acquavite, lo sguardo se ne va nel vuoto.
Nel container
Nel piazzale di cemento dietro gli uffici della comunità locale di Gracanica ci sono una decina di containers, gabbie di metallo di 12 metri quadrati l’una. Lì vivono trenta persone, altri sfollati del 17 marzo. "Per me è meglio stare qui che in palestra. Là ci sono i bambini che giocano, poi c’è quella che parla tutta la notte…", racconta Dimitar T., 73 anni, mentre ci accoglie nella sua scatola.
"Sì, sono di Pristina, abitavo con mia moglie di fronte alla chiesa di San Nikola. Siamo rimasti anche dopo il 1999, dormendo sempre con i vestiti addosso, per essere pronti a scappare. Ci dicevamo sempre ‘andrà meglio, vedrai’. Poi c’è stato il 18 marzo."
"Cioè il 17?"
"No, per noi è stato il giorno dopo, il 18 marzo. I manifestanti hanno attaccato la chiesa di San Nikola, e l’hanno messa a fuoco. Poi si sono diretti verso casa nostra. Sono entrati nel cortile, ma poi si sono fermati e sono tornati indietro. E’ arrivata la Kfor (la forza militare a guida Nato di stanza in Kosovo, ndr), hanno detto che dovevano evacuarci immediatamente. Non ci hanno lasciato prendere niente, nemmeno le scarpe. Ci hanno portato in una caserma. Sono rimasto così, seduto, per 7 giorni e 7 notti, senza dormire. La nostra casa è rimasta in piedi, ma ora ci vivono degli Albanesi. Come faccio a tornare? Persino in questo container sono più libero che a Pristina."
"The cage"
Di ritorno a Pristina, arriviamo allo "Ju program". Davanti al palazzo un mezzo della Kfor, svedese, in mezzo ad un recinto di filo spinato. Al piano terra, sacchetti di sabbia e una grossa antenna militare per le comunicazioni radio. I militari della Nato stanno sulla strada. Lo "Ju program" ha 4 entrate. Quattro ponti levatoi che conducono a altrettante scale. Ci facciamo riconoscere ed entriamo al numero 21.
Al quinto piano ci sono Miljenko B., la moglie Snjezena e la figlia Gordana. Dopo tre mesi nella palestra di Gracanica, hanno deciso di tornare a casa. Accanto al loro appartamento ce n’è un altro che ha di fronte all’ingresso una pesante porta di ferro, a sbarre. Sembra una cella.
"Non potremo mai dimenticare il 17 marzo, racconta Snjezena. Sono arrivati in più di un migliaio, a piedi, con i taxi, con i camioncini. Sparavano con i fucili da caccia, con le pistole, buttavano le molotov. Gli appartamenti al primo piano sono andati subito a fuoco. Sono saliti fino al quinto, erano anche sul tetto, hanno sfasciato tutto. Siamo scappati nell’appartamento qui a fianco, quello con le sbarre davanti alla porta."
"Con noi c’era anche un poliziotto dell’Unmik, un africano che viveva in questa scala. Anche lui è dovuto scappare nell’appartamento blindato -dice Gordana. Dopo sei ore di assedio, verso le due e mezza di notte, ci hanno avvertito tramite la sua radio. Avrebbero fatto un corridoio di protezione, ci davano due minuti di tempo per evacuare il palazzo. Siamo usciti in mezzo al fumo e ci siamo buttati dentro i blindati. Ci sparavano dalle finestre. Quelle scene le puoi vedere solo nei film, credimi."
Sul ballatoio Snjezena accarezza le sbarre in ferro dell’appartamento accanto: "Questa porta ci ha salvati."
Al numero 19 incontriamo Slavica, infermiera, madre di 4 figli. "Scrivi pure Slavica, non mi va di darti il mio vero nome. Non mi fido di voi giornalisti. Non ci fidiamo più di nessuno. Né della polizia, né della Kfor, né di nessuno. Sì, sono una Serba, di Pristina. Abbiamo sempre vissuto qui, io, mio marito e i 4 bambini. Siamo rimasti qui anche dopo il 1999, anche dopo il 17 marzo. Siamo scappati, ma adesso siamo ritornati. Viviamo così, non usciamo mai. Arriviamo solo fino alla panchina all’ingresso della scala. Quella panchina è il nostro luogo di ritrovo, il nostro cinema, il nostro teatro, tutto. Per le spese andiamo al negozio che c’è qui sull’angolo. Per tutto il resto, andiamo a Gracanica. Anche i bambini non vanno a scuola qui ma a Gracanica, con un pulmino."
Il pulmino è guidato da Saban, un albanese. Lavora per il Ministero dell’Educazione del Kosovo. I genitori serbi si fidano di lui, ma non di quello che potrebbe succedere fuori dallo "Ju program". "Abbiamo chiesto una scorta per il pulmino, ma hanno detto che non serve – ci dice Slavica. Ce l’hanno concessa solo fino a giugno, poi basta."
Il pulmino arriva davanti al palazzo alle 12 in punto. 6 bambini salgono in fretta. "Alla fine ho deciso che come scorta vado io – dice Slavica mentre prende posto accanto all’autista." Alle sei di sera, Saban torna a prendere i bambini, e li riaccompagna al "cage". Prima di andare a dormire, giocano un po’ a pallone. Non in cortile però. Non si sa mai. Restano sui ballatoi, nei piani interni del palazzo. Oppure si richiudono in casa, con il game boy.
Chiedo a Slavica di parlarci del suo rapporto con i vicini Albanesi. Mi racconta un episodio: "Ho lavorato per 20 anni all’ospedale di Pristina, come infermiera. Qui dall’altra parte del cortile abita una mia collega, albanese, stavamo insieme tutti i giorni. Ora non ci salutiamo più. Solo una volta, dopo la morte di mio padre, quando mi ha visto vestita di nero. Mi ha salutato e io le ho risposto."
Al piano di sopra vivono Mirko e Rada. Hanno tre bambine. Del 17 marzo, Mirko ci racconta una cosa sola: "Non siamo solo Serbi, in questa scala. Ci sono anche degli internazionali, e delle famiglie albanesi. Quando è arrivata la folla in cortile, tre Albanesi sono usciti e hanno cercato di fermarli. Li hanno subito spinti da parte, ma è una cosa che non dimenticherò."
Zivka, 47 anni, vive al 17. Ci fa vedere i fori delle pallottole nelle tende e sui muri del suo appartamento. Mentre ci offre il caffè, arriva un vicino. Albanese. Si siede con noi. "Qui non va bene né per noi né per loro. E gli internazionali non fanno niente. E’ il caos…"
Al Grand Hotel di Pristina incontriamo Shkelzen Maliqi, noto intellettuale albanese e direttore del Centro per gli Studi Umanistici "Gani Bobi". Parliamo del 17 marzo. "C’erano anche elementi organizzati, dice Maliqi, ma principalmente si è trattato di una rivolta spontanea, e al momento non vedo nessuna forma di continuazione di quanto è avvenuto. Si è trattato di un episodio estremamente negativo, ma ha coinvolto solo una minoranza di persone."
Il Kosovo, oggi, è una sorta di protettorato internazionale. Amministrato dalle Nazioni Unite, difeso dalla Nato, non è indipendente, e non è neppure sotto la sovranità di Belgrado. Secondo la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il Kosovo ha una "sostanziale autonomia" all’interno della Repubblica Federale di Jugoslavia (oggi Unione Serbia e Montenegro, ndr).
"Senza risolvere la questione dello status – sostiene Maliqi – senza una amministrazione, non ci potrà essere sicurezza per le minoranze del Kosovo, né per i Serbi che vivono in aree popolate da Albanesi né per gli Albanesi che vivono a Mitrovica nord o all’interno delle enclave serbe."
E’ sera, rientriamo allo "Ju program", alla gabbia. Ci è rimasta una persona da intervistare. Quella che abita dietro la porta blindata, che la notte del 17 marzo ha accolto nel suo appartamento i vicini terrorizzati. Si chiama Biserka I. Ha il suo punto di vista su come uscire da questa asfissia: "Non mi interessa se lo chiamano kiwi o banana. Il problema è che gli Albanesi credono che domani si sveglieranno in un Kosovo indipendente, e che sarà come la Svizzera. Il mio problema, invece, è che voglio che i miei diritti di cittadinanza siano rispettati, voglio avere un lavoro, acqua e luce per 24 ore al giorno, un sistema sanitario che funzioni. Il Kosovo sarà nell’Unione Europea, e io dovrò competere in questo nuovo mercato del lavoro perché ho delle capacità, non perché sono una Serba del Kosovo. Invece questo sistema ormai è marcio, e la gente normale comincia a rovistare nei cassonetti, perché non ha un salario che gli permetta di vivere una vita decente."
Biserka ha deciso di non aspettare: "Rifiuto di pensare me stessa rinchiusa in questo cubo. Sono sempre uscita per strada, e continuerò a farlo. Non credo che la libertà di movimento mi verrà data per decreto. Non sarete voi a venire dall’Italia, prendermi per mano e dirmi: "Biserka, da oggi sei libera di camminare." Ogni giorno esco di qui, cammino fino al mio ufficio e torno indietro a piedi. Sono sicura che tutto il quartiere sa che sono una Serba. Se qualcuno volesse attaccarmi, probabilmente mi potrebbe uccidere. Ma non voglio accettare il fatto di vivere e lavorare qui come una vittima. Questa è la mia filosofia di vita, non voglio isolarmi, voglio socializzare per quanto possibile, andare a pagare le bollette, andare al mercato se voglio o andare all’Ospedale se devo vedere un dottore. Purtroppo, per la maggior parte dei Serbi che vivono qui, fare queste cose è solo fantascienza."
Fantascienza, forse è questo il futuro del Kosovo. Il 23 si vota. Servono proposte incredibili, non solo da parte delle forze politiche locali, ma anche dalla comunità internazionale.