Via dalla vista, via dal cuore: gli osseti che vivono in Georgia
Nella Georgia indipendente, da inizi anni ’90 in poi, le discriminazioni nei confronti delle minoranze locali hanno portato in molti ad andarsene. Ciononostante qualcuno resiste. La storia di alcuni anziani nei villaggi di Chvebari e Gadamshi
(Pubblicato originariamente da Chai Khana il 3 novembre 2022)
Foto di Basa Metreveli
Nascosto in una valle boscosa, alla fine di una strada sterrata costellata di buche, a 260 chilometri dalla capitale georgiana, si trova Chvebari, uno dei pochi villaggi osseti rimasti su territorio controllato dalla Georgia.
Trent’anni – e due guerre – fa, georgiani e osseti convivevano a Chvebari e in decine di altre comunità, intrecciandosi e condividendo tradizioni secolari. Oggi, tuttavia, a seguito dei conflitti sullo status della regione di Tskhinvali (nota anche come Ossezia del Sud o Samachablo), la maggior parte di loro si è trasferita nella vicina Russia o nella regione di Tskhinvali, legalmente parte della Georgia ma de-facto fuori dal controllo georgiano.
“Quando sono nato, nel 1940, c’erano tra le 80 e le 120 famiglie che vivevano qui a Chvebari”, ricorda Beso Gagishvili, 82 anni, osseto che risiede nel villaggio.
Le case di legno e diroccate del villaggio parlano di abbandono: Beso è uno dei pochi abitanti rimasti. Le sue sorelle, i suoi fratelli e due dei suoi figli vivono ora a Vladikavkaz, la capitale della regione russa dell’Ossezia del Nord. Beso è rimasto anche dopo la morte della moglie, due anni fa, perché crede che "si debba morire dove si è nati".
"Noi osseti siamo qui da oltre 300 anni". Oggi, tuttavia, ne rimangono appena una manciata, il resto è stato spinto a migrare in Russia e altrove dalla politica e dalla povertà.
Paata Zakareishvili, specialista nella risoluzione dei conflitti ed ex ministro della Georgia per la riconciliazione e l’uguaglianza civica, afferma che l’emigrazione di massa dell’etnia osseta dalla Georgia è il risultato di una politica governativa miope, che si concentra sul conflitto invece di ricostruire le relazioni.
"Gli osseti erano georgiani per identità: la loro lingua era georgiana, la loro letteratura era georgiana, frequentavano scuole georgiane, si consideravano georgiani ed erano orgogliosi di esserlo", afferma. "Anche se la maggior parte degli osseti è andata a Vladikavkaz, poi sono tornati tutti in Georgia, perché questa è la loro terra, qui sono cresciuti. Pertanto, vogliono essere sepolti qui".
Ma poco è stato fatto per aiutarli o incoraggiarli a rimanere in Georgia, sostiene Zakareishvili. Egli sottolinea che storicamente c’erano strette relazioni tra i due popoli. "Possiamo persino dire che nel resto della Georgia vivevano più osseti che nell’Oblast’ autonoma dell’Ossezia del Sud. Su circa 160.000 osseti, 60.000 vivevano in Ossezia del Sud e 100.000 in altre parti della Georgia: Kaspi, Gori, Dusheti… erano in molti posti", afferma.
"Nel 2008 abbiamo sradicato queste persone con le nostre mani e li abbiamo spinti ad andarsene".
L’attuale partito al governo, il Sogno Georgiano, ha pubblicato una strategia per ricostruire i legami con il popolo osseto dopo essere salito al potere nel 2012. A dieci anni di distanza, tuttavia, sono pochi i segni di come il piano del partito di relazionarsi direttamente con i "fratelli osseti" della Georgia sia stato messo in pratica.
"Dopo la guerra del 2008, non abbiamo avuto l’opportunità di parlare onestamente tra di noi, di pentirci e di superare questo conflitto insieme", spiega Eliko Bendeliani, membro dell’Istituto per lo studio dei nazionalismi e dei conflitti di Tbilisi.
"Non sappiamo nulla delle preoccupazioni e dei dolori dell’altro. Ancora peggio, la maggior parte dei giovani georgiani non sa nemmeno che gli osseti hanno dovuto emigrare anni fa".
Nel corso degli anni, il silenzio ha aumentato il risentimento degli osseti nei confronti dell’etnia georgiana, osserva Bendeliani.
"Penso che oggi dovremmo avere a cuore e garantire relazioni armoniose con gli osseti che vivono ancora nel territorio controllato dalla Georgia e mostrare loro che teniamo davvero a loro", afferma, aggiungendo che il governo dovrebbe garantire loro dignitose condizioni di vita.
A Chvebari, uno dei pochi villaggi osseti rimasti nella regione georgiana di Racha, le prove che il governo stia agendo in base a questo suggerimento sono scarse. Racha è un’aspra regione montuosa lontana dalla capitale Tbilisi, confina con la Russia e con l’Ossezia del Sud, controllata dai separatisti.
Bichiko e Tsiala, due coniugi di etnia osseta provenienti da un villaggio vicino, Gadamshi, se ne sono andati durante l’ondata migratoria iniziata dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Zviad Gamsakhurdia, il primo presidente della Georgia indipendente, ha avviato una politica della "Georgia per i georgiani" che ha portato a una campagna contro le minoranze etniche del paese.
Questa politica ha diviso le comunità georgiana e osseta.
"Ho tre sorelle sposate con dei georgiani. Ho nipoti georgiani. Abbiamo molti amici. Non c’è famiglia qui che non abbia un genero o una nuora georgiani. Siamo molto legati", dice Bichiko, aggiungendo però che i legami non sono abbastanza forti da evitare conflitti.
Tsiala ricorda che in quel periodo alcuni osseti avevano persino paura di ammettere la propria etnia; i georgiani che vivevano nella zona li insultavano spesso e dicevano loro di andarsene. "Ma io sono osseta e perché dovrei nasconderlo?", dice. "Siamo nati qui. Siamo cresciuti con costumi e tradizioni di questo luogo. Siamo cristiani. Tutto ciò che ho proviene da questo luogo".
Bichiko racconta che in quel periodo gli osseti non venivano serviti nei ristoranti e non potevano usare i mezzi pubblici a Oni, capoluogo della regione di Racha.
"Gli araformalebi (soldati armati in abiti da strada che giravano per il paese negli anni ’90) venivano a portare via i nostri beni e dicevano che avremmo dovuto lasciare il posto perché questa non era la nostra terra", racconta Bichiko. "Cosa avreste fatto? La gente ha iniziato ad andarsene… Cosa abbiamo fatto di male per meritarci questo?".
La famiglia si è trasferita a Vladikavkaz, ma ha faticato ad ambientarsi. "Abbiamo venduto tutto prima di partire, ma Tsiala non riusciva a stare lì. “L’aria non è salubre", aggiunge lei. “E nemmeno io volevo vivere lì", racconta Bichiko.
Dopo anni di visite a Gadamshi, la coppia è infine tornata nel 2014, nella casa vuota e nel villaggio vuoto.
Gadamshi si trova sulle rive del fiume Sontarula. Alla fine del villaggio, vicino a un mulino ad acqua inutilizzato, si trovano la loro casa di legno, un fienile, un piccolo cortile pieno di galline, un cane meticcio e molte arnie.
Purtroppo non dispongono della maggior parte dei servizi essenziali, tra cui elettricità e riscaldamento stabili.
Il sindaco del comune di Oni, Sergo Khidesheli, responsabile di entrambi i villaggi, afferma che il suo governo può fare ben poco per ciò che è accaduto alle comunità in passato. "Purtroppo non posso parlare di questo problema perché è iniziato 20 anni fa e all’epoca non ero sindaco. Tuttavia, posso dire che il popolo georgiano e quello osseto sono stati legati per anni e oggi il filo spinato che ci separa danneggia queste relazioni", afferma, riferendosi alla politica dei separatisti di segnare con il filo spinato il "confine" tra il territorio da loro controllato e la Georgia vera e propria.
Khidasheli fa notare che sono in corso diverse iniziative per fornire servizi di base a Chvebari e Gadamshi. "Il comune di Oni sta realizzando progetti infrastrutturali per prevenire l’emigrazione da questi luoghi", afferma. "Con l’aiuto di un’organizzazione non governativa, abbiamo installato pannelli solari per entrambe le famiglie, che quindi ricevono l’elettricità necessaria attraverso questi pannelli".
L’inverno scorso, però, i pannelli non sono stati sufficienti a riscaldare la casa di Bichiko e Tsiala. Sono rimasti a Gadamshi, ma è stata dura. Hanno riscaldato e cucinato con la legna.
"A volte mi chiedono: la gente tornerà a Gadamshi? Ed io rispondo che quando mi vedranno, verranno di corsa", racconta Bichiko ridendo. "Perché dovrebbero tornare? Chi si trasferisce in questa foresta? Se il governo vuole che la gente torni, dovrebbe iniziare creando buone condizioni di vita per le persone come me".