Montenegro, Serbia | | Elezioni, Politica
Via dalla Serbia. Ma verso dove?
E’ un’ulteriore frammentazione, stanco epilogo di un processo iniziato negli anni ’90. E nel quale si è confuso drammaticamente il diritto all’autogoverno con il diritto all’autodeterminazione. Un commento
La vecchia Jugoslavia è finita da tempo ma quel che accade in queste ore a Podgorica è una sorta di tempo supplementare. Come se la storia, per procedere, avesse bisogno di una liturgia già drammaticamente conosciuta, per far piazza pulita dei fantasmi che sopravvivono malgrado tutto, un po’ come per quella scatola di sardine "made in Jugoslavia" di cui ci ha raccontato Rada Ivekovic, trovata nel 1996 in un piccolo villaggio del Guatemala e che recava sull’etichetta la scritta "Rok trajanja neograničen", durata illimitata, che sopravviveva dunque al suo paese d’origine.
Nessuna "jugo-nostalgia", ma semplicemente l’epilogo di una storia ormai conclusa, accartocciatasi nel suo autismo, che vede un ultimo (?) frammento prendere il largo.
Ma verso dove? Qui sta il punto.
Perché sul piano politico l’indipendenza del Montenegro non va certo nella direzione di rafforzare il processo di costruzione dell’Unione Europea. Che non verrebbe aiutata certo dall’effetto domino che l’"ultima secessione" potrebbe innescare nella regione. E poi, perché mai un paese che ottiene l’indipendenza dopo quasi novant’anni dovrebbe cedere parti importanti della propria tanto agognata sovranità?
Sul piano culturale, l’idea di autosufficienza non porta mai da nessuna parte, tanto è vero che se c’è oggi un paese nato dalla disgregazione della vecchia Jugoslavia a soffrire dell’angustia dei propri confini è niente di meno che l’europea Slovenia.
Mentre sul piano economico la secessione non fa altro che fotografare quel che già era la realtà, l’ennesimo stato offshore nel cuore dell’Europa. Il leit motiv – questo – della proliferazione di stati nei quali domina la deregolazione più spinta, che porta le leadership di questi paesi – contrariamente alle suggestioni europeiste talvolta evocate – a vedere come una iattura l’ingresso nelle regole dell’Unione. In altre parole, quel che il presidente ceco Václav Klaus indicava recentemente come la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa, contrapposta al progetto di unificazione politica dell’Europa.
Non che la vittoria degli "unionisti" avrebbe rappresentato uno scenario in fondo poi tanto diverso. Così come non sono in discussione le istanze di autogoverno della comunità montenegrina, peraltro nel referendum di domenica pericolosamente spaccata a metà, dove il "Da" supera il 55% per meno di duemila voti. E’ che la storia sembra ripetersi senza mai insegnare nulla. Perché i concetti di autogoverno e di autodeterminazione continuano mefiticamente a sovrapporsi, senza accorgersi che quel che nel post colonialismo rappresentava un’idea di liberazione oggi è diventato sinonimo di esclusione, mura a difesa del sangue e del suolo, chiusura e nazionalismo. Ma soprattutto controllo mafioso del territorio. Del resto, la postmodernità dei Balcani sta tutta qui.
Poi sarà la volta del Kossovo e di nuove ferite: quel che accade nel mettere mano maldestramente ad equilibri già precari e nell’incapacità di scartare dai cliché conosciuti, per imboccare strade nuove verso il superamento dei confini e quell’idea dell’Europa federata di cui si parlava nel manifesto di Ventotene. Dove l’appartenenza statuale diventava identità culturale aperta e arricchente di una più ampia cittadinanza europea.
Quell’idea di Europa che invece sembra procedere a ritroso, sotto i colpi delle paure e degli egoismi sociali, ma anche di un’Europa che oggi appare nettamente spaccata fra una prospettiva euroatlantica, sensibile allo "scontro di civiltà" e subalterna alla chiamata alle armi dell’amministrazione Bush, e quella euromediterranea, capace di includere e di considerare al plurale le proprie radici culturali, di proporsi come presidio di civiltà sociale e giuridica, nonché di dialogo verso il vicino oriente.
Speriamo che almeno, togliendo di mezzo i fantasmi, i nodi vengano al pettine per quello che sono.