Via dai Balcani
Centinaia di migliaia di persone lasciano i Balcani, dove non vedono un futuro. Le cause oltre che economiche sono anche sociali e politiche
(Originariamente pubblicato da Kosovo 2.0 )
Ogni giorno, nelle prime ore del pomeriggio, gli autobus verso l’Unione Europea partono dalla stazione principale della città di Subotica, Serbia settentrionale.
Tra i passeggeri in attesa di partire per Vienna c’è una ventenne di Novi Kneževac che ha intenzione di continuare la sua formazione in Austria. Non è disposta a parlare della sua partenza, ma suo padre dice a K2.0 che la madre è andata in Austria cinque anni fa e ora lavora come addetta alle pulizie in un hotel, per uno stipendio mensile di circa 1.500 Euro. Per lo stesso lavoro, in Serbia, riceveva da 16.000 a 20.000 dinari (circa 160 Euro).
"Con quello stipendio non puoi nemmeno mantenerti, e che dire di tutto il resto?", dice il padre, che ha preferito rimanere anonimo, mentre saluta la figlia. Aggiunge che lui rimarrà in Serbia con il figlio minore, ma crede che qualcosa dovrà cambiare nel Paese "perché altrimenti tutti se ne andranno".
Scene simili nelle stazioni degli autobus e dei treni, così come negli aeroporti – decine di persone che dicono addio ai propri cari che partono a tempo indeterminato – sono all’ordine del giorno in tutti i Balcani. Secondo il recente Rapporto alternativo sulle esigenze della gioventù in Serbia, il 71% degli intervistati ha dichiarato di voler lasciare il luogo in cui vive. I paesi dell’Europa occidentale rappresentano di gran lunga le destinazioni più popolari (45%).
Il rapporto rileva che la situazione è simile in tutta la regione e afferma che, sfortunatamente, i paesi non hanno risposte adeguate, né politiche demografiche per prevenire esodi di massa dei cittadini.
"La ricerca demografica dimostra che i giovani dei paesi della regione se ne vanno non solo a causa delle condizioni economiche, o come si dice ‘trbuhom za kruhom‘ [per cercare fortuna], ma a causa dell’instabilità del sistema politico e del deterioramento dei valori", affermano le conclusioni del rapporto, basato su un sondaggio con 1200 intervistati.
Il numero esatto di coloro che lasciano la regione è praticamente impossibile da determinare con precisione a causa della mancanza di statistiche affidabili, ma la tendenza è comune a Serbia, Kosovo, Albania, Macedonia, Montenegro e Bosnia Erzegovina, nonché alla Croazia, l’unico paese della regione che è anche membro dell’UE.
Secondo i dati dell’Ufficio statistico tedesco, tra il 2013 e il 2017 quasi 240.000 persone si sono trasferite in Germania dalla sola Croazia: all’incirca la popolazione combinata di Spalato e Zara, le più grandi città della Dalmazia.
Circa 100.000 persone si sono trasferite nella direzione opposta, ma ciò lascia una migrazione netta dalla Croazia alla Germania di circa 140.000 persone in mezzo decennio. Secondo i dati ufficiali dalla Croazia, la maggior parte di chi lascia il paese ha fra i 20 e i 39 anni.
Nello stesso periodo 2013-2017, la migrazione netta dal Kosovo alla Germania è stata di circa 39.000 persone, dalla Serbia circa 29.000, dall’Albania circa 28.000, dalla Macedonia circa 24.000 e dal Montenegro oltre 3.000.
Diagnosi
Dalla Bosnia Erzegovina se ne sono andati oltre 2 milioni di abitanti dai primi anni ’90, collocando il paese al 16° posto globale in termini di tasso di emigrazione secondo la Banca Mondiale. Mentre gran parte di questa migrazione si è verificata durante gli anni della guerra 1992-95, il numero sembra di nuovo in aumento.
La migrazione netta dalla Bosnia Erzegovina verso la Germania negli ultimi cinque anni è stata ufficialmente di circa 40.000 persone, 14.000 solo nel 2017.
Nel frattempo, le stime fatte localmente dall’ONG di Sarajevo Unione per il Ritorno e l’Integrazione Sostenibile indicano che oltre 160.000 dei 3,5 milioni di cittadini della Bosnia Erzegovina hanno lasciato il paese negli ultimi cinque anni, in numero sempre crescente di anno in anno.
Secondo i loro calcoli, nel 2014 se ne sono andate circa 27.000 persone, 29.000 l’anno successivo e 34.000 nel 2016. Nel 2017 si parla di circa 35.000 persone, mentre il direttore della ONG Mirhunisa Komarica Zukić ha recentemente dichiarato ai media locali che, secondo le stime, nella prima metà del 2018 se ne sono già andate 18.000.
I demografi avvertono che le cifre disponibili per il pubblico sono incomplete e, in quanto tali, particolarmente allarmanti.
Secondo uno studio del 2017, la causa principale dell’emigrazione è la disoccupazione, ma fra i motivi ci sono anche l’ambiente socio-economico, un sistema sanitario debole e l’instabilità dello stato. In alcune città le scuole sono semivuote e così le facoltà universitarie.
In una tendenza comune a diverse parti della regione, il personale (para)medico sembra particolarmente incline a lasciare il paese. "Secondo alcune stime, ogni giorno 1-2 medici lasciano il paese", ha dichiarato ai media locali Kristina Bevanda, presidente del Sindacato dei medici e del personale sanitario del Cantone di Erzegovina-Neretva. "A livello statale parliamo di circa 360 medici l’anno: un intero ospedale".
Simili le storie dalla Macedonia, anche se, secondo le ricerche disponibili, la "fuga dei cervelli" nelle università non riguarda più esclusivamente il personale medico e tecnico, ma anche discipline come legge, politica ed economia. Allo stesso tempo, solo lo 0,2 per cento del PIL è destinato alla scienza.
Tornando a Subotica, anche la professione sanitaria è colpita dall’emigrazione. Žolt Sendi, presidente del Sindacato infermieri e tecnici del Centro sanitario locale, afferma che il numero di chi chiede un congedo temporaneo non retribuito o un’aspettativa è in aumento: oltre 1.000 di questi lavoratori lasciano la Serbia ogni anno, stima.
"Chi parte ha per lo più fra i 30 e i 40 anni, parliamo di operatori sanitari esperti con diversi anni di servizio", afferma Sendi. "Partono quando sono più produttivi e le ragioni sono il sovraccarico, lo stress e la situazione economica. La loro partenza indebolisce il sistema di assistenza sanitaria sia primario che secondario".
Nenad Ivanišević, direttore del Centro di gerontologia di Subotica, afferma che questa istituzione è di fronte ad un esodo di dipendenti.
Ivanišević dice che ha dovuto fare una richiesta di "mediazione interregionale" al Servizio nazionale per l’occupazione, che ha reindirizzato i candidati che avevano fatto domanda di lavoro nelle professioni mediche in altre città in Serbia. Senza questo tipo di rinforzo, dice, la capacità di fornire servizi sarebbe stata compromessa.
Il Sindacato infermieri e tecnici stima che il 2-5% dei dipendenti, per lo più infermieri e tecnici, emigra ogni anno. Fra loro c’è il tecnico Zlatko Prćić, che dice di essersi trasferito in Inghilterra per poter vivere con dignità, "sia personalmente che professionalmente".
"In Serbia ho perso l’integrità come persona e come professionista", dice Prćić. "È diventato irrilevante che tu faccia il tuo lavoro in modo responsabile o meno".
Dice che la vita in Inghilterra non è perfetta, ma che almeno ha uno stipendio che gli consente di mantenersi e di aiutare i suoi genitori in Serbia.
"Fuga organizzata"
Secondo Viktorija Aladžić, docente presso la Facoltà di ingegneria civile di Subotica, gli studenti nelle facoltà universitarie locali sono in diminuzione. Crede che la ragione principale non sia solo uno stato non funzionale, ma anche le dinamiche sociali.
"La qualità delle relazioni sociali e interpersonali all’interno della famiglia, con gli amici, con i colleghi e così via è tra i fattori più importanti per la felicità individuale e collettiva", dice Aladžić.
Secondo la docente, in una società in cui queste relazioni sono disfunzionali, dove è normale che i datori di lavoro abusino dei lavoratori o che i membri di una famiglia si maltrattino a vicenda, dove le persone si trattano con odio, disprezzo, sottovalutazione e mancanza di rispetto, è naturale per i cittadini – soprattutto i giovani – voler andare a vivere altrove.
Fra chi ha lasciato Subotica c’è Tamara Olman. Laureata in economia, ha lasciato la Serbia all’inizio dei trent’anni e da quattro vive a Vienna. "Ora vivo in un paese dove le regole sono rispettate, dove esiste l’ordine, dove lo Stato si prende cura dei suoi cittadini, dove ci sono molte opportunità e privilegi e dove il sistema sociale è regolato correttamente", dice.
Olman lavora come cameriera mentre impara la lingua locale e dice che, all’arrivo a Vienna, lo stato austriaco le ha dato l’opportunità di frequentare un corso di contabilità.
In Serbia, trovare lavoro con una laurea in economia è stato "impossibile", dice. "Ho bussato a mille porte, ma invano. Sono arrabbiata e delusa per non essere riuscita a trovare lavoro tramite la normale procedura, e questo è il motivo per cui ho lasciato il mio paese".
Storie come quelle di Olman sono comuni a Subotica.
Il sociologo Branislav Filipović ritiene che la ragione principale dell’esodo dei giovani dalla città sia la scarsa politica economica e demografica, mentre gli indicatori dagli altri paesi dei Balcani occidentali ritraggono una situazione simile in tutta la regione.
"I giovani di Subotica non se ne vanno semplicemente", dice. "È meglio parlare di fuga organizzata".
Secondo Filipović, le cause sono l’insicurezza, la corruzione, l’apparato statale disfunzionale, i bassi salari e tutto quanto caratterizza la vita di tutti i giorni.
"Con la partenza di professionisti e giovani istruiti, la città e lo stato stanno perdendo l’essenza sociale dei possibili cambiamenti", dice Filipović.
Anche Nevena Miljački Ristić ha lasciato Subotica negli ultimi anni, vedendo l’opportunità di una vita più confortevole lontano dal paese d’origine. Oggi vive negli Stati Uniti, in una "bellissima cittadina" chiamata Woodlands, ai margini di Houston, in Texas.
"Il motivo principale per cui siamo partiti è stato puramente economico: nonostante il lavoro di mio marito e i due che facevo io, non potevamo avere più dello stretto necessario, forse nemmeno quello", dice. "Con un bambino in arrivo, non avevamo altra scelta che andare da qualche parte dove saremmo stati pagati per il nostro lavoro".
Ristić punta il dito sul nepotismo e la conseguente limitazione delle opportunità disponibili attraverso il semplice duro lavoro. "La disponibilità e l’affiliazione a determinati partiti o gruppi sono molto più apprezzate rispetto all’esperienza o alla voglia di avanzare", dice, aggiungendo che altri suoi conoscenti che hanno lasciato la Serbia lo hanno fatto dopo aver già perso troppi anni "sperando che le cose sarebbero migliorate".
Partire per sempre
Molti degli stessi problemi che affliggono la Serbia sono presenti nel vicino Kosovo. Le code davanti alle ambasciate sono lunghe da molti anni e sono formate in particolare da giovani.
Ciò è dovuto in gran parte alla mancanza di un regime liberalizzato di visti con i paesi dell’Unione europea; dal 2010, i cittadini kosovari sono gli unici nella regione a dover ancora richiedere il visto per recarsi nell’area Schengen.
Inoltre, di fronte alle scarse prospettive economiche, alla corruzione politica endemica e ad uno stato di diritto a malapena funzionante, negli ultimi anni decine di migliaia di kosovari hanno tentato di lasciare il paese definitivamente.
Il più notevole è stato l’esodo di massa del 2014-15, quando centinaia di kosovari partivano ogni giorno, principalmente diretti a Belgrado in autobus prima di tentare di attraversare l’Ungheria e poi proseguire verso altri paesi dell’Unione europea. A febbraio 2015, 1.400 kosovari attraversavano ogni giorno il confine dalla Serbia verso l’Ungheria, mentre nei primi mesi di quell’anno 42.000 kosovari hanno presentato domanda di asilo nell’UE.
Sono state adottate diverse misure politiche per cercare di impedire ai kosovari di andarsene e incentivare il loro ritorno, ma poco è stato fatto per cambiare il fatto che un gran numero di kosovari non riesce a vedere un futuro nel paese d’origine.
Tra il 2012 e il 2016 122.657 persone sono emigrate dal Kosovo, legalmente o illegalmente, per la maggior parte dirette in Germania. Secondo l’Eurostat, i kosovari hanno acquisito permessi di soggiorno principalmente in Germania (47%), Italia (12%), Francia e Austria (circa 9%) e Slovenia (circa 7%). Nel 2016, oltre 21.000 kosovari avevano permessi di soggiorno validi nei paesi dell’UE.
Nel tepore autunnale di un giorno di ottobre, la fila è come sempre lunga di fronte all’ambasciata svizzera.
Fra coloro che restano in fila per ore, in attesa di presentare la domanda di visto, c’è Jetlir, 21 anni. Dice a K2.0 che è uno studente e vuole andarsene perché non vede un futuro in Kosovo. "Non vedo nulla", dice. "Anche quando prenderò la laurea, non riuscirò a trovare un lavoro".
Jetlir crede di avere poche possibilità di ottenere un visto, ma deve comunque provare. "Se approveranno la mia domanda di visto, andrò da mio zio in Svizzera, che ha promesso di aiutarmi a trovare lavoro in un cantiere edile", dice.
Nonostante la tanto attesa esenzione dal visto per i cittadini kosovari – quando e se arriverà – solo per i viaggi turistici di breve durata, Jetlir, come molti dei suoi compatrioti, equipara la liberalizzazione dei visti con l’opportunità di lasciare il paese a più lungo termine. "Spero che la liberalizzazione del regime dei visti accada presto, perché fare la fila sta diventando molto stancante", dice. "Allora partiremo da esseri umani".
Nella linea vicino a Jetlir c’è Enver, quasi il doppio della sua età. Anche lui vuole lasciare il Kosovo e non tornare indietro.
"Spero che mi diano un visto e spero di riuscire a trovare un lavoro, perché qui non c’è lavoro per me", dice. "Il tempo per la nostra generazione sta per scadere, ma almeno possiamo fare qualcosa perché i nostri figli abbiano ciò che ci è mancato negli ultimi 20 anni".
Alla ricerca di ispirazione
Oltre confine, in Montenegro, le prospettive economiche per i giovani sono equamente cupe. La disoccupazione giovanile nello stato meno popoloso della regione è oltre il 40% e gli studi dimostrano che oltre la metà dei giovani (tra i 16 e i 27 anni) vuole andarsene.
Molti lo hanno già fatto. Secondo il Forum locale delle ONG di istruzione informale, nell’ultimo decennio 10.000 giovani hanno lasciato il paese, che ha solo poco più di 620.000 abitanti.
Fra loro c’è Dušan, 30 anni, che ha lasciato il paese quasi 10 anni fa e non pensa ancora a tornare.
"Lo stato non ispira i giovani", dice riferendosi all’onnipresente problema regionale del nepotismo. "Lo stato ci dice che è OK usare qualsiasi tipo di legame per ottenere qualcosa nella vita".
Stufo della situazione nel suo paese d’origine, Boris, 30 anni, laureato in scienze politiche, ha deciso di fare le valigie e lasciare il Montenegro l’anno scorso. Si è diretto negli Stati Uniti, dove ha un lavoro, e dice che non ha intenzione di tornare nei Balcani.
Come Dušan, Boris indica nel nepotismo il fattore chiave che impedisce ai giovani di entrare nel mercato del lavoro, ma afferma anche che mancano efficaci politiche del lavoro.
"L’alto livello di influenza politica, come favorire un partito rispetto all’altro e la mancanza di armonizzazione dei profili di esperti e professionisti con le esigenze del mercato del lavoro, sono le ragioni principali per cui i giovani non trovano lavoro o realizzarsi come esperti o professionisti nel loro settore", dice.
Boris ritiene che le attuali politiche statali non dimostrino interesse a mantenere realmente i giovani nel paese. "Se consideriamo che il Montenegro, nonostante sia membro della NATO e candidato all’adesione all’UE, continua a mostrare enormi segni di debolezza nell’area dello stato di diritto e della discriminazione politica… non sorprende che, secondo la ricerca, più della metà della popolazione giovanile totale voglia lasciare il Paese", dice.
Alcuni passi sono stati fatti nel tentativo di migliorare le prospettive economiche dei giovani.
Sei anni fa, il ministero della Pubblica Istruzione ha avviato un programma di formazione professionale. Questo schema offre ai laureati la possibilità di avere uno stage di nove mesi in media, banche o altre società con uno stipendio mensile di 250 Euro fornito dallo stato.
Finora sono stati investiti in questo progetto più di 30 milioni di Euro, ma ci sono stati problemi con l’implementazione. Voci critiche nella società civile parlano di mancanza di informazioni sui datori di lavoro e su chi controlla il sistema di domande e stage. Ci sono anche interrogativi sull’efficacia formativa del programma.
Ulteriori sforzi per ridurre la disoccupazione giovanile sono stati compiuti due anni fa, quando il Montenegro ha introdotto la Legge sui giovani e adottato una Strategia per la gioventù 2017-21, che ha riconosciuto che "il mercato del lavoro in Montenegro ha un grave problema di assorbimento dei giovani che hanno completato la scuola".
Sempre nel 2016 è stata istituita una Direzione per la Gioventù presso il ministero dello Sport, incaricata di "promozione, sviluppo e miglioramento della politica giovanile a livello nazionale e locale".
Nenad Koprivica, direttore generale dell’ente, spiega a K2.0 che è della massima importanza che tutte le istituzioni coinvolte nella promozione dell’occupazione giovanile "coordinino le attività e sviluppino capacità istituzionali". Per ora, tale coordinamento sembra carente e i cittadini hanno visto pochi segni di miglioramento.
Nella sua ultima relazione sui progressi del Montenegro, la Commissione europea sottolinea che le donne, i giovani e i disoccupati di lungo periodo trovano più difficile trovare lavoro. Nel frattempo, secondo i dati dell’Agenzia per il lavoro del Montenegro, 5.779 laureati sono attualmente disoccupati, così come 243 persone con un master e 10 con un dottorato.
Nonostante le misure adottate sulla carta per aumentare le opportunità economiche, la mancanza di risultati concreti ha portato molti cittadini del Montenegro, così come le loro controparti in tutta la regione, a vedere il proprio futuro altrove.
Una scelta personale
L’impatto su coloro che hanno preso la decisione di lasciare la regione varia da persona a persona.
Alcuni, come Ervin Heđi, 26 anni, del villaggio di Palić vicino a Subotica, sono certi di aver preso la decisione giusta, e non guardano indietro.
Heđi ora lavora come operaio edile a Vienna per uno stipendio mensile compreso tra i 2.600 e 2.800 Euro. Dice di avere più conoscenze all’estero che in patria, e quando torna a casa non c’è quasi nessuno da visitare. "Ho vissuto all’estero per un anno e non ho intenzione di tornare a casa", dice.
Per altri, però, la decisione di allontanarsi suscita sentimenti contrastanti.
Marko Makivić è stato per 10 anni attore del Teatro Nazionale di Subotica, dove è apparso in oltre 25 rappresentazioni. Stanco del "degrado della società… in favore di una minoranza di nuovi ricchi arrampicatori sociali", ha lasciato la Serbia l’anno scorso e ha vissuto a Bangkok, in Thailandia, lavorando come insegnante di inglese.
"La maggior parte delle persone è acutamente insensibile e la loro passività si è metastatizzata", dice Makivić della situazione in patria. "Certo, c’è un piccolo numero di persone attive che stanno cercando, nelle proprie possibilità, di rinvigorire e svegliare le persone intorno a sé".
La decisione di andarsene è stata dura per Makivić e, come per molti altri che hanno lasciato la regione, rimane per lui un grosso peso.
"Sono triste per gli amici che non vedo da molto tempo, sono triste perché mi manca il mio pubblico… ci sono molte cose per cui sono triste", dice. "In qualche modo, tutto si riduce a due opzioni: essere felice, ma legato, o essere libero, ma a volte triste. Ognuno deve fare la propria scelta, me compreso".
Scritto da Natalija Jakovljević, Sanja Rašović, Nidžara Ahmetašević i Fitim Salihu.
Revisione/editing: Jack Butcher