Venezia in rassegna

Grecia protagonista ma poi molto altro cinema dell’est Europa alla 75° Mostra del cinema di Venezia

02/10/2018, Nicola Falcinella -

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Un'immagine tratta da “La favorita” di Yorgos Lanthimos

Con due premi importanti a “La favorita” di Yorgos Lanthimos, il Leone d’argento – Gran premio della giuria e la Coppia Volpi all’attrice Olivia Colman, la Grecia ha chiuso da protagonista la 75° Mostra del cinema di Venezia. Lanthimos, capofila della nuova generazione del cinema ellenico, è ormai proiettato, dopo “The Lobster” e “Il sacrificio del cervo sacro”, nel mondo delle produzioni internazionali. Regista spesso premiato nei festival, quanto divisivo, ha portato al Lido il suo lavoro migliore, un riuscito dramma in costume nell’Inghilterra di inizio ‘700.

La giovane Abigail (Emma Stone), nobile decaduta, arriva a corte a chiedere un lavoro alla cugina Sarah (Rachel Weisz), sposata con Lord Marlborough, comandante dell’esercito del regno, e consigliera della regina Anna (Olivia Colman). Dopo le iniziali umiliazioni, la giovane saprà entrare nelle grazie della sovrana, malata di gotta, sola e instabile. La corte è un covo di vipere, tra ricatti e tradimenti, e le due si contendono l’amore della regnante. Sullo sfondo la guerra in Francia, la necessità di nuove truppe e soldi per finanziarle, da ottenere aumentando le tasse che provocano la reazione dei proprietari terrieri. È il più equilibrato e meno programmaticamente irritante dei film di Lanthimos (“Kynodontas”), che racconta una rivalsa, una rivalità e i retroscena del potere in maniera molto efficace, con ottime interpretazioni, nonché domande sulla guerra e sui costi dei conflitti.

Nel cuore di un golpe

Bella conferma per il turco Mahmut Fazil Coskun con “Anons – L’annuncio”, che ha ottenuto il Premio speciale della giuria Orizzonti. Un riconoscimento che non ha magari grande risonanza, ma di particolare valore per il regista che si era fatto apprezzare con “Wrong Rosary – Uzak ihtimal” del 2009. Un bel dramma notturno, con un tocco assurdo e uno sguardo distaccato e preciso sui fatti. Un episodio inventato, ambientato nel maggio 1963, che potrebbe benissimo essere realistico, accaduto durante uno dei colpi di stato tentati o portati a termine in Turchia.

Un gruppo di militari sta cercando di ribaltare il governo ad Ankara e quattro loro alleati (il tenente Sinasi, i maggiori Kemal e Rifat e il colonnello Reha), dopo aver combinato vari pasticci, seminato indizi e ucciso un collega che li aveva scoperti, cerca di raggiungere Radio Istanbul per poter diffondere anche nella città sul Bosforo l’annuncio del cambio di potere. È notte, negli studi non c’è quasi nessuno e bisogna trovare qualcuno in grado di mettere in onda il messaggio. Sarà molto complicato perché nulla va secondo i piani e il mondo dei civili è diverso da quello militare e sembra, senza volerlo, mettersi di traverso. E come si annuncia un colpo di stato? Coskun ferocemente, ma in una scena con sicuro effetto comico, elenca le modalità dei precedenti annunci, giacché c’era stato un golpe l’anno, in quel periodo. Il regista inserisce la lunga notte in una cornice narrativa che contribuisce a tenere la tensione, descrive l’incapacità del gruppo, il loro isolamento e anche limiti organizzativi. Non mancano elementi per definire i personaggi e che dicono di loro molto più di quanto parrebbe: c’è chi vorrebbe emigrare in Germania ma non supera la visita medica perché manca di un dente, chi vuole lanciarsi nel commercio di una novità come i frigoriferi e chi porta avanti il panificio di famiglia. E l’atteggiamento verso una preziosa bottiglia di Martini, spunto anche per un paio di battute efficaci, rivela lo sguardo dei protagonisti verso il mondo esterno.

Herceg Novi

Debutto molto interessante quello del montenegrino Ivan Salatić con “You Have The Night – Ti imas noc”, in lizza tra i sette della Settimana della critica. Un film di mare e di giardino, che ricorda molto le atmosfere del suo precedente corto “Backyard”, sempre a Venezia nel 2015. Cambiamenti sociali e storici e vicissitudini esistenziali a Herceg Novi, senza usare musiche, se non alcune canzoni ascoltate dai personaggi.

Sanja è una giovane donna che lavora su una nave con Alice, una coetanea asiatica. Dopo aver lasciato l’impiego ed essere sbarcata in una Genova straniante e di marginalità, decide di tornare a casa, in Montenegro. Là la quotidianità è fatta di pescatori ed ex operai, di profughi recuperati in mare. La radio trasmette notizie della chiusura del cantiere navale di Bijela, l’orgoglio operaio del padre dialoga con le immagini d’archivio (tratte dal documentario “Brodogralište Bijela”) del cantiere e di un’inaugurazione. Tutto è pervaso da un sentimento doloroso di perdita, di spiaggiamento. La fabbrica è ridotta a relitto, Sanja è scesa dalla nave, imbarcazioni non se ne fanno più, il giovane Luka cerca un soluzione nel bosco.

L’esordio di Salatić è promettente nel saper cogliere le atmosfere, i sentimenti, i non detti, cogliere anche lo spirito dei luoghi che non hanno più la stessa funzione e importanza di un tempo. Il padre, che ha memoria di quel che è stato ed è finito e non c’è più, si rivolge al figlio di notte davanti al fuoco: “Io non ho niente e tu hai la notte” gli dice, mentre l’ultima nave esce dal porto. Le navi, e il film stesso, sono anche metafora di un grande sogno svanito e forse della stessa idea jugoslava, della quale Bijela era uno dei vanti.

Occasioni perse

È una mezza occasione persa “El Pepe, una vida suprema”, documentario di Emir Kusturica su José Pepe Mujica, ex presidente dell’Uruguay. Il regista di “Underground” di accontenta di fare un compitino, bere mate, fumare il sigaro, parlare con il politico senza mai contraddirlo o stimolarlo a fondo. Sono molte più le curiosità che restano aperte di quelle che trovano una risposta, nel racconto di episodi di vita politica e privata. La moglie Lucia sarebbe un bel personaggio, molto importante per Mujica, ma resta un po’ di contorno. I due amici, ed ex ministri, sono più macchiette che servono da sponda a Kusturica per un immancabile tirata pro-Putin riguardo all’Ucraina.

L’uomo che ha fatto del vivere con poco e dell’essenzialità un messaggio resta in superficie. Certo ci sono il muoversi con il vecchio maggiolone azzurro o il lavoro in campagna, oppure il sentirsi cambiato come persona come conseguenza dalla solitudine vissuta in carcere. Mujica ricorda il periodo con il gruppo dei Tupamaros e alcuni episodi ma senza approfondire troppo. Il protagonista regala qualche osservazione interessante: “La burocrazia è peggio della borghesia”; “Bisogna scegliere persone con il cuore grande e il portafoglio piccolo; “Vivo come la maggioranza, non come la minoranza ricca”; “La cultura è più importante di economia”; “Si deve aver perso per apprezzare il tango”. E, dal punto personale, confessa che l’unico rimpianto è non aver avuto figli.

Ne esce però un ritratto un po’ ovvio, dal quale si poteva tirare fuori molto di più, magari dando meno rilievo alle proposte deliranti che fanno capolino (dal forestare il deserto cileno di Atacama, al popolare la Patagonia o portare l’acqua dalla Siberia al deserto del Gobi) quando si prova ad andare su un terreno più pratico. Alternati all’intervista, Kusturica impiega vari spezzoni del film “L’amerikano – État de siège” (1972) di Costa-Gavras, nel quale, nell’Uruguay del 1970 l’organizzazione politica Tupamaros rapisce un agente segreto americano.

Il processo

È un film che gli storici, gli studiosi delle congiure staliniane ma anche chi si interessa dell’utilizzo della propaganda e soprattutto dell’uso della giustizia a fini propagandistici, non possono perdersi, “The Trial – Il processo” dell’ucraino Sergei Loznitsa. Uno dei più grandi registi europei contemporanei, capace di cimentarsi con la finzione e il documentario a livelli di vertice, uno dei maggiori indagatori della storia sovietica del ‘900, ma anche narratore partecipe dell’Ucraina di oggi.

Utilizzando soltanto documentazione filmata all’epoca, Loznica ricostruisce il processo a otto alti funzionari accusati di appartenere al Partito industriale ritenuto intenzionato a ribaltare il potere sovietico e far fallire il piano quinquennale a fine anni ’20, boicottando soprattutto gli impianti e la rete elettrica, con il sostegno di fuoriusciti e soprattutto della Francia. Buona parte degli accusati erano componenti del Gosplan, la Commissione statale per la pianificazione, oltre che alti membri delle organizzazioni degli ingegneri. Il dibattimento si svolse dal 25 novembre al 7 dicembre 1930, nella sala udienze della Corte suprema, piena di persone attente e silenziose, che esultano solo quando l’accusatore chiede la pena di morte per tutti e al momento della lettura della sentenza. La sera, nelle strade fuori dal palazzo, si tenevano affollate manifestazioni per chiedere condanne a morte immediate per tutti. Più si va avanti e il procedimento entra nel vivo, e più gli accusati si sentono e dichiarano colpevoli. La corte condannò tutti e a seguire ebbe un ruolo rilevante l’organizzazione segreta staliniana Ogpu.

Loznitsa utilizza immagini di cineoperatori del tempo, montando anche le lunghe introduzioni e le ripetizioni nelle presentazioni, che sulle prime sembrerebbero superflue. Nell’economia complessiva di “The Trial” tutto ha invece importanza cruciale e serve a preparare ciò che accadrà. Un film illuminante sulle supposte attività antirivoluzionarie anni ‘20 e sulle congiure staliniane. Un’opera sulla propaganda, il giustizialismo, la mobilitazione delle masse, l’orientamento del pensiero, la creazione di sospetti e capri espiatori, ma anche sulla colpa, su come ci si possa sentire in colpa. Il lavoro di Loznitsa (tra i suoi più recenti “Austerlitz” e “Donbass”, che rappresenterà l’Ucraina agli Oscar) difficilmente avrà una distribuzione italiana, se non molto occasionale, ma oltre che un documento importante è quasi un saggio fondamentale.

Documentari

Il russo Victor Kossakovsky ha portato, sempre fuori concorso, il suo potente documentario “Aquarela”, sull’acqua nei suoi diversi stati, tra episodi curiosi e immagini di grande impatto. Affermatosi con “Tishe” (2002), nel quale filmava la strada di San Pietroburgo sotto la sua finestra, e “Vivan las antipodas” (2011), su quattro punti del mondo agli antipodi tra loro, il regista si è cimentato con un’altra opera con pochi termini di paragone. Un documentario senza parole, con la musica che irrompe a tratti e mostra le distese siberiane dove le auto restano imprigionate dal ghiaccio o sorprese dal suo scioglimento, gli iceberg che si spaccano e si scontrano.

Soprattutto il cineasta ha lanciato un appello per il collega ucraino Oleg Sentsov, arrestato nella primavera 2014 e condannato da un tribunale russo a 20 anni di reclusione con l’accusa di aver tentato di “organizzare atti terroristici” in Crimea. Sentsov, noto soprattutto per il film “Gamer”, è nato nella penisola annessa da Mosca contro l’accordo dell’Ucraina e delle organizzazioni internazionali. Dal 14 maggio è in sciopero della fame nell’infermeria del carcere di Labytnangi, nel nord della Russia, dove è detenuto nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni e i problemi cardiaci e renali. “Anche se questo è un luogo dove si parla di film, dobbiamo far sapere a Oleg che ci ricordiamo di lui. Non dimenticatelo!” ha affermato Kossakovsky.

Ancora dall’area ex sovietica, il premio Orizzonti per la miglior regia al kazako “Ozen – The River” di Emir Baigazin (già premiato a Berlino con l’esordio “Harmony Lessons”) e per la migliore interpretazione femminile a Natalya Kudryashova per il russo-estone “Tchelovek kotorij udivil vseh – The Man Who Surprised” di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov.

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