Un’occasione nel pozzo

Una manipolazione storica ed un’occasione mancata. E’ così che Franco Juri, giornalista istriano, descrive la fiction "Il cuore nel pozzo". Un articolo che affronta le sfaccettature di una storia e di una geografia complessa e intricata qual’è quella istriana e giuliana, italiana, slovena, croata

22/02/2005, Franco Juri -

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Entroterra istriano

Con la messa in onda del film »Il cuore nel pozzo« la Rai, che negli ultimi tempi si distingue per una ricca e spesso anche valida produzione di fiction tv, è stata coinvolta in un’operazione mediatico-propagandistica dagli stridenti connotati politici , forse degna piu’ dei sistemi autoritari, lasciati dietro al muro di Berlino, che di una cultura democratica europea.

Chi l’operazione l’ha suggerita – probabilmente i padrini politici che si sono pavoneggiati alla prima del film, sigillandolo con il marchio di uno spot governativo – hanno in verità bruciato una grande occasione; quella di offrire una credibile riduzione cinematografica di quel complesso contesto storico che il 10 febbraio, da quest’ anno, si ricorda anche ufficialmente.

Ma andiamo per ordine. Un film per la tv che nasce imbastito di tanto roccoccò politico firmato An, come omaggio alla memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo, tradisce in partenza il suo goffo tentativo manipolatorio. Tanto più che per alleggerire la proporia responsabilità artistica il regista Alberto Negrin aveva spiegato a più riprese che la storia narrata è un’invenzione, ovvero solo un pretesto per dare forma e vita a figure cinematografiche piene di pathos e sentimento, in un contesto presumibilmente storico e credibile. Praticamente un western made in Italy, con buoni e cattivi ben definiti e senza sfumature fuorvianti. Una fiction d’ impatto sentimentale il cui target è un pubblico televisivo di cultura cinematografica e di cognizione storica mediobassa.

Pensando un pò che da anni ormai gli indiani d’America non sono più i cattivi selvaggi di Ombre rosse, è lecito chiedersi se il telespettatore medio italiano nel 2005 sia disposto a recepire e fare propria una morale in bianco e nero senza porsi un minimo di dubbio. Ebbene la mia speranza, guardando »Il cuore nel pozzo«, è che i telespettatori italiani siano meno sprovveduti e ignoranti di quanto sperato dagli ispiratori della fiction in questione.

Personalmente l’ho guardata fino alla fine con una certa difficoltà proprio da un punto di vista dell’attendibilità – se vogliamo anche solo cinematografica – dell’operazione, tanto essa pecca di superficialità, luoghi comuni, pregiudizi, falsità, a-geografia , manipolazione di sentimenti primari e persino di una manciata di razzismo. Insomma un kitsch. Persino le fisionomie scelte ( i bei volti mediterranei delle vittime e degli eroi italiani e i rudi tratti slavi e balcanici dei Titini, eccezion fatta per la dolcezza slovacca tutta treccine bionde e occhi azzurri della protagonista femminile innamorata di un italiano vero), per non parlare delle scenografie montenegrine, tolgono sin dalle prime immagini qualsiasi credibilità al tentativo di riproporre un ambiente istriano alla fine del conflitto bellico.

Un secondo punto debole è la madornale esagerazione nella ricostruzione di fatti e comportamenti che contraddistinsero la vittoria dei partigiani in Istria ed il travaglio della popolazione italiana nelle penisola. Nessuna storia ormai , nemmeno quella slovena o croata, nega la repressione, le violenze, le foibe (per altro »scoperte« ed usate non solo e per primi dai partigiani, ma precedentemente anche dai fascisti) e le altre cause dell’esodo di alcune (due?tre?) centinaia di migliaia di Istriani e Dalmati a guerra conclusa. Prova ne sia la famosa relazione redatta, su proposta dei governi italiano e sloveno, da una commissione mista e plurale di storici, che ha lavorato per ben 7 anni, relazione che il governo e grossa parte della classe politica italiana ora insistono ad ignorare se non persino ad occultare. Già perchè un contesto violento come quello enfatizzato televisivamente nella fiction non può certo essere spiegato solo con una battuta sfuggita ad uno dei protagonisti all’inizio del racconto: »Dopo quello che hanno subito non faranno distinzioni….«. Al pubblico televisivo italiano non è mai stato raccontato e spiegato che cosa gli altri, gli slavi….«avevano subito«. La storia parte un’altra volta da dove inizia il film e nel confrontro tra i rassicuranti volti civili e da brava gente degli italiani e quelli barbari e assetati di sangue degli slavi il messaggio che trafigge il cuore del consumatore televisivo è inequivocabile; comunque abbiamo sempre avuto ragione noi, perchè portatori di civiltà. Noi Istriani sappiamo bene che proprio così non era. Ma dove sono, ad esempio, gli italiani antifascisti che hanno combattuto a fianco dei Titini? Ad esempio quelli della divisione »Pino Budicin« o della »Fratelli Fontanot«? Dove sono i tricolori con la stella rossa, che sventolavano in Istria nell’immediato dopoguerra? Com’è possibile che il bilinguismo abbia resistito nell’ Istria annessa dalla Jugoslavia, se i titini – secondo il film di Negrin – arrivavano come Attila o come Novak il cattivo e distruggevano tutto, ammassando la popolazione italiana come nelle più drammatiche scene della Shoah, separando figli da genitori, pestando, ammazzando.

Quelle che avrebbero potuto essere situazioni e reazioni estreme (comunque non documentate), nel film diventano regola. In verità le ultime scene da shoah in Istria si erano viste nel 1944. Come ad esempio nel paese istriano-croato di Lipa, presso Fiume, dove il 30 aprile di quell’anno 287 civili, donne, bambini e anziani, furono trucidati da reparti misti delle SS e dei residui repubblichini. La popolazione del paese che conosco benissimo perchè vicino a quello di mia madre, venne ammassata nell’edificio della scuola ed arsa viva. I superstiti vennero passati per le baionette. L’eccidio di Lipa rimane lì, testimonianza muta e certo non unica di una realtà che in Italia continua ad essere ignorata, occultata. Come i gas tossici di Badoglio e Graziani in Etiopia. Come i massacri di Roatta in Montenegro. Come i campi di concentramento di Arbe e Gonars. Come gli eccidi dell’esercito fascista nella provincia di Lubiana.

Peccato, la fiction di Negrin è soprattutto un’occasione perduta. La Rai ne avrebbe potuto produrre bene una più consona alla memoria, basandola su un contesto affidabile e magari su uno dei tantissimi fatti veri, avvenuti nelle terre in questione nel difficile periodo della guerra e del dopoguerra. Ciò avrebbe reso maggior dignità ai protagonisti veri di quel dramma. Si sarebbe potuta prendere in prestito la narrazione ben documentata di un Fulvio Tomizza; Materada o La miglior vita, si sarebbe potuto potuto contestualizzare, in un’operazione intellettualmente e storicamente oltre che esteticamente più onesta, la violenza delle foibe e dell’esodo cercando -come la buona letteratura e la buona cinematografia sanno fare – di capire e trasmettere le sfaccettature di una storia e di una geografia complessa e intricata qual’è quella istriana e giuliana, italiana, slovena, croata.

L’ Istria con la sua variegata realtà etnica e culturale offre al cinema infinite possibilità. Ma per tradurle in buon cinema è necessario un minimo di approfondimento geografico, storico, culturale. Nel »Cuore nel pozzo« l’approfondimento non c’è, nemmeno minimamente. Il film si sarebbe potuto fare senza avallare, come è stato fatto, una nuova rimozione della memoria, fatta questa volta di sentimenti accesi quanto superficiali, rivolti in negativo all’altro con l’unico scopo strumentale di approfondire l’odio, la diffidenza e di uccidere la ragione. Paolo Rumiz avverte, giustamente, che la rimozione è una fuga dalle proprie responsabilità e dalle proprie sconfitte. Lubiana ha deciso saggiamente di mettere in onda il film il 14 febbraio sulla TV di stato slovena, trasmettendo pure uno scioccante documentario della Bbc sui crimini petpetrati in Africa e nei Balcani dall’esercito di Mussolini. Dopo il film la TV slovena ha trasmesso un pacato e plurale dibattito, invitandovi pure una storica italiana ed un famoso esule triestino, Sardos Albertini. E’ stata la migliore delle risposte possibili, un esempio di confronto aperto e democratico, specie se paragonato con il Porta a porta di Bruno Vespa dedicato allo stesso tema e al film in questione. Il pubblico sloveno ha avuto occasione di riflettere autonomamente sull’operazione propagandistica di Maurizio Gasparri e su quali manipolazioni affettive, su quale »abuso di minori« è capace chi strumentalizza la storia, riducendo anche la verità a mero contorno della sua falsificazione.

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