Uno sguardo su società e politica

La storia del documentario in Croazia: le due guerre mondiali, gli anni ’90, i nostri giorni. Un’intervista a Hrvoje Turković, presidente dell’Unione dei film club croati e autore di diversi saggi su questo genere cinematografico

25/01/2010, Nicole Corritore -

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Quest’intervista è un estratto della ricerca "Indagine sul settore del documentario nel Mediterraneo" realizzata per la Direzione Marketing della RAI, che ringraziamo per la gentile concessione.

Può raccontarci i passaggi salienti nella storia del documentario in Croazia?

I primi film prodotti da noi erano proprio dei documentari. La prima produzione regolare di film è stata di natura documentaristica, perché spesso veniva finanziata dallo stato. Questo succedeva in tutta la Croazia, ma principalmente a Zagabria, dove erano concentrate le istituzioni principali. Tra le due guerre mondiali, ad esempio, qui c’era la Scuola di salute popolare (Škola narodnog zdravlja), parte della Fondazione di medicina sociale, che diffondeva l’educazione scientifica, ma anche una produzione molto ampia di film documentari. Altre imprese, che spesso lavoravano per le esigenze del governo, degli istituti o delle imprese turistiche, producevano diversi documentari etnografici. Si trattava di prodotti cinematografici di breve durata, e molti di questi sono stati dei flop dal punto di vista del mercato. Quindi, prima della Seconda guerra mondiale e del socialismo, non c’era continuità nella produzione del film documentario.

E con il socialismo?

La Jugoslavia socialista ha istituito una produzione cinematografica regolare, rispetto a quella più discontinua del passato. Questo non solo per quanto riguarda i film, ma anche per i documentari: tanti documentari erano molto più strutturati, di natura più generale, poi hanno cominciato ad apparire i film documentari artistici. Per cui la produzione documentaristica, sia per quantità che risultato finale, è sempre stata decisamente più consistente rispetto al film.

È ancora così in Croazia?

Dopo gli anni novanta, la produzione culturale in generale ha subito un declino. La produzione cinematografica indipendente dei film documentari è stata particolarmente colpita. Attorno al 1995-1996, il ministero della Cultura, che tradizionalmente finanziava e sosteneva il documentario e i cortometraggi, ha sospeso per un certo periodo il sovvenzionamento. È stato un duro colpo per la produzione documentaristica. Ma allora la televisione, che ha sempre dedicato dei programmi ai documentari, ha continuato a trasmetterli: non solo quelli televisivi, ma anche quelli che venivano presentati al festival nazionale del cortometraggio, che hanno vinto dei premi e hanno avuto successo. In qualche modo, quindi, la televisione ha assunto il ruolo di produttore. Parallelamente si sono sviluppati altri produttori indipendenti e anche la produzione amatoriale all’interno di alcuni circoli cinematografici, anche con sovvenzioni statali, che tuttavia non è stata particolarmente interessante.

Nel suo paese si predilige il documentario d’autore, di "creazione", o d’inchiesta?

La produzione documentaristica è piuttosto varia, non si tratta di uno stile unico. Se parliamo dei documentari che vengono presentati ai festival, il genere dominante è il documentario d’autore, strutturato su modelli e sensazioni di autori che scelgono liberamente il tema e e si basano su autentici racconti. Ovviamente esistono anche prodotti diversi, come i documentari fatti sul modello dei reportage televisivi, turistici o educativi, legati alla memoria culturale e artistica.

Qual è la sua definizione di "documentario"?

Bene, posso dire due cose. In primo luogo propongo una definizione minimale di documentario, come genere cinematografico che cerca di raccontare la realtà delle cose. In secondo luogo, considero il documentario come un genere di film, quindi uno strumento speciale di percezione del mondo. In base a questo, il documentario indaga da vicino i diversi modi di percepire la realtà. Di fatto, il film documentario analizza i diversi modi possibili con cui ci si rapporta alla realtà raccontata. In questo senso, esistono i documentari che vogliono essere una sorta di "diagnosi" del mondo, quindi devono essere rispettosi e veritieri: si può sempre valutare quanto sono stati rispettosi dal punto di vista intellettuale, quindi se presentano tutti gli aspetti degli eventi, se rimangono fedeli mostrando ciò che realmente accade. D’altro canto esistono anche i documentaristi, come nel caso di altri autori, che possono riflettere, sulla base dei modelli reali, su tutti i modi intellettuali di porsi nei confronti della realtà. Quindi io ritengo che il documentario legittimo sia quello in cui si gioca con ciò che accade: la realtà può quindi essere ricostruita, simulata, sempre con curiosità intellettuale e sensibilità. Gli autori possono interrogare la propria sensibilità e la propria capacità interpretativa al momento del confronto con ciò che accade, giocando con quello che riprendono. Io ritengo così che sia fondamentale anche questo approccio documentaristico, provando questi modelli epistemologici con cui si può accedere alla realtà.

Ci sono dei temi ricorrenti, dei "fantasmi" generazionali o nazionali che vi sono propri?

Esistono, sì. Ad esempio un tema ricorrente, anche nel panorama documentaristico mondiale, è la passione per gli ambienti arcaici, d’interesse etnografico. Inizialmente, tra le due guerre mondiali, vi era l’interesse per gli elementi folcloristici, per il mondo rurale, la vita di campagna. Poi, negli anni ’60-’70, è prevalso l’interesse per gli ambienti rurali, i villaggi isolati della Dalmazia, la periferia. Krelja ha girato diversi film sulla periferia di Zagabria, ma non solo, anche su cose che la gente scorda, come i rifugi abitati da minorenni delinquenti o fuggitivi. Esiste quindi una sensibilità tradizionale per le zone periferiche, per nel senso di "periferie sociali". Ed è una tendenza che esiste ancora oggi: ad esempio, è andato in onda in prima serata un film girato da carcerati che, in una rappresentazione teatrale fuori dalla prigione, si interrogano sul loro destino. Quindi oggi, tra gli altri temi che spesso cambiano, vengono sempre seguiti questi casi di abbandono culturale ed etnico-sociale. Oggi più che in passato si sono diffusi i documentari che amo definire "documentari ludici", che si rapportano alla realtà in modo satirico, divertente, con l’uso dello "humor nero".

Oggi, nel suo paese, c’è interesse per le tematiche mediterranee? Esiste un "carattere mediterraneo" dei documentari?

La Croazia è un paese continental-mediterraneo: la parte interna è continentale, mentre tutta la costa meridionale è mediterranea. Il problema è che si tratta di zone in cui non hanno lavorato case di produzione professionistiche. Per quanto riguarda le produzioni dei circoli amatoriali, ad esempio quello di Spalato è specificamente mediterraneo. Si tratta di film piuttosto filo-sperimentali, film d’impressione, con inquadrature lente, con un certo ritmo musicale, raffinati. Talvolta sono resi più dinamici, sempre con il loro stile d’osservazione, in buona parte si tratta di documentari per così dire "poetici". Questo da noi si definiva come film esplicitamente mediterraneo. Alcuni autori, ad esempio Lordan Zafranović, che ha iniziato proprio a Spalato, hanno preso alcuni elementi di questo stile mediterraneo.

Quando parla di "stile" mediterraneo, è legato ai rapporti che sono esistiti e che esistono oggi nella regione, tra i diversi autori?

Sì, si tratta di uno stile nato dall’incontro di diverse affinità che hanno lavorato spontaneamente in questo ambiente mediterraneo. Ad esempio, gli autori italiani sono sempre stati molto presenti nei cinema croati, almeno al tempo del socialismo, in particolare nel primo periodo, quando gli autori italiani venivano spesso a proiettare le loro opere nelle nostre città costiere. Io credo che questo spirito mediterraneo sia dovuto meno al contatto e più al movimento spontaneo di una cerchia culturale, che sulle nostre coste è molto simile a quello delle coste italiane.

Vi sono contenitori di informazione, reportage, programmi radio-televisivi basati sul mediterraneo nei palinsesti delle emittenti generaliste o private?

Ci sono nella TV pubblica, non in quella privata. Su HTV c’è una trasmissione, "Alpe Jadran", che informa sistematicamente su attività italiane, austriache, slovene e croate. È molto interessante e ben strutturata, tocca diverse problematiche e talvolta anche artistiche e cinematografiche. In qualche modo esiste un canale di interesse, di tradizione, una forma di realizzazione per questa cerchia mediterranea. Ma non è ancora un tema che potrebbe dominare o essere presente in modo sistematico.

Qual è, in generale, il ruolo sociale e culturale del documentario nel suo paese?

Dipende dal canale distributivo e dal pubblico che si raggiunge. La maggior parte degli autori presenta i propri lavori solo ai festival, e in questo caso l’unica discussione avviene sulle riviste specializzate, che non hanno una grande ricezione da parte del pubblico né l’interesse dei politici, che non partecipano ai festival e non leggono le riviste. I documentari che suscitano critiche e discussioni sono quelli che vengono mostrati in TV, quei reportage che a volte sottovalutiamo dal punto di vista artistico. Spesso il documentario viene creato per suscitare dibattiti, così i reportage televisivi, quanto meno quelli brevi, entrano nelle trasmissioni in cui si parla di problemi sociali e culturali oppure di crimine. Esistono quindi delle trasmissioni per cui si realizzano dei reportage, su cui poi si discute subito in studio, e questi hanno poi delle ripercussioni sull’opinione pubblica.

Un film che ha suscitato forti reazioni è quello di Božo Kovačević "Oluja nad Krajinom" (Tempesta sulla Krajina), che parla dei crimini commessi dall’esercito croato nei confronti dei cittadini serbi, residenti nelle Krajine croate, durante l’Operazione Tempesta del 1995. Inizialmente ha suscitato notevoli reazioni quando è stato proiettato alle giornate del cinema croato, poi è stato tolto dalla circolazione e proiettato nuovamente qualche anno dopo in TV, e ha provocato accesi dibattiti e interventi delle organizzazioni dei veterani di guerra. In questo senso, i film politici e sociali in particolare riscuotono successo, ma solo nella misura in cui fanno parte di un programma televisivo.

Quindi possiamo dire che i documentari si interessano ai temi tabù?

Certo. I documentari si concentrano sempre sugli aspetti problematici della vita che sfuggono allo sguardo comune. Anche al tempo del socialismo, in particolare a partire dagli anni sessanta, i documentari sceglievano temi sociali e politici sensibili.

Quali storie secondo lei sono poco esplorate nel suo paese e vorrebbe fossero raccontate?

Credo che siano ben poche; dipende comunque dallo stile e dall’inventiva del regista, non dalle aperte richieste del pubblico. Ci sono documentari che parlano dei traumi del passato recente, della guerra, della questione delle minoranze, delle femministe, degli omosessuali. Parlano della stratificazione sociale, delle ingiustizie dovute alle nuove circostanze createsi con la liberazione dal socialismo. Durante il socialismo si trattavano gli aspetti traumatici della politica socialista.

Qual è in generale il grado di libertà creativa per un documentarista?

Ci sono diversi livelli di libertà a seconda delle condizioni di produzione. Per quanto ne so, gli autori televisivi lavorano abbastanza liberamente, ma la televisione filtra i prodotti secondo le sensibilità dei gruppi politici dominanti. HTV, nonostante sia una rete pubblica, spesso è influenzata dal Parlamento, dalla politica. In generale, le case di produzione indipendenti sono abbastanza libere, ma anche qui si possono colpire i film al momento della messa in onda. Ad esempio Factum, che ha prodotto documentari molto controversi, talvolta su temi politici, non ha potuto proporsi nei programmi che mostrano i documentari.

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