#UneBesoj: la festa del calcio albanese
#UneBesoj, Io ci credo. La settimana scorsa l’Albania ha ottenuto la qualificazione ai prossimi Europei di calcio. Nonostante la circondasse, alla vigilia delle qualificazioni, grande scetticismo
Per la prima volta nella sua storia, l’Albania accede alle fasi finali degli Europei. Non è un sogno, è la realtà. Il verde del campo si è imposto sulla carta delle facili previsioni, lo sport, come spesso accade, ha corso più veloce della politica. Dopo due cocenti sconfitte casalinghe rimediate nei minuti di recupero, i ragazzi di De Biasi non potevano più sbagliare. Sono volati a Yerevan, in Armenia, a fare tre goal.
Tre punti per nulla scontati
Nonostante l’ottimo gioco espresso, nelle ultime due gare con Portogallo (7 settembre) e Serbia (8 ottobre) i rosso-neri erano usciti dal campo senza punti in tasca, rischiando di compromettere un torneo che fino ad allora li aveva visti imbattuti. La tendenza a buttare via il risultato all’ultimo secondo è sempre stata uno dei difetti cronici della nazionale albanese: il calcio d’angolo di Miguel Veloso (92°) e la doppia beffa firmata da Kolarov e Ljajić (al 91° e al 94 ) hanno rischiato di resuscitare l’antico spettro di un’Albania volonterosa e perdente, che vorrebbe ma no, alla fine proprio non se la sente.
#UneBesoj , «Io ci credo»,
è l’ashtag che ha impazzato su twitter
Eppure, quest’autunno, anche nella sconfitta tirava un’aria nuova: mentre capitan Cana radunava i compagni delusi nel cerchio di centrocampo – per parlare, discutere, cercare di individuare gli []i – nei bar di Tirana anche i più pessimisti non potevano fare a meno di notare che "una volta questo non sarebbe successo". "Una volta" in albanese significa "prima di De Biasi". Approdato in Albania nel dicembre 2011, l’ex allenatore di Torino e Udinese – cui il primo ministro Edi Rama ha dedicato una splendida commozione in formato bilingue – aveva già fatto sognare durante le qualificazioni ai mondiali del Brasile, ma allora il risveglio era stato brusco. Due anni dopo, il timore, ancora una volta, era quello di illudersi. In fondo non è mai accaduto prima, perché dovrebbe succedere ora?
Il girone
Al posto di sogni e rimpianti, quest’anno però ci sono stati i numeri. Salita a quota 14 grazie ai tre punti conquistati in Armenia, con quattro vittorie, due pareggi e due sole sconfitte l’Albania si è qualificata meritatamente come seconda squadra del gruppo I: a – 7 sette dal Portogallo capolista e a +2 dalla Danimarca, a cui tra l’altro per passare sarebbe bastato un ex aequo.
Per quanto fosse l’unico a cinque squadre, il girone albanese era tutt’altro che semplice. Se il Portogallo di Cristiano Ronaldo (battuto, tra parentesi, solamente dai kuq e zi, e per giunta in casa loro!) è oggi la quarta squadra del ranking FIFA, anche la selezione danese era senza dubbio una testa di serie, tanto per organico quanto per tradizione storica – giusto per fare un esempio, nel 1992, mentre in Albania si tenevano le prime elezioni libere, la Danimarca si aggiudicava gli europei di Svezia, eliminando l’Olanda di Van Basten e la Germania di Klinsmann.
Infine, a contendere all’Albania il virtuale terzo posto, c’erano due clienti non facili: la giovane Armenia che per tutto il torneo non ha mai rinunciato a correre – rifiutandosi con onore di giocare la parte di squadra materasso – e la Serbia, la cui sola presenza nel girone ha messo a dura prova la maturità caratteriale dalla nazionale albanese. Con l’Armenia bisognava vincere e si è vinto. Con la Serbia bisognava invece rimanere calmi. Per lo meno al ritorno così è stato.
Quando un anno sembra un secolo
Nei 14 preziosi punti che condurranno gli aquilotti a Parigi ci sono anche i 3 a tavolino concessi dal Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna cui la federazione albanese aveva presentato ricorso a seguito dei fatti di Belgrado. Nove mesi dopo, la sentenza del TAS ha ribaltato la decisione Uefa, constatando che la federazione serba non aveva garantito le condizioni di sicurezza necessarie a disputare l’incontro.
Sebbene nella memoria dei media sia rimasta soltanto l’immagine del drone provocatore, questo piovve sul campo quando il gioco era già fermo per il ripetuto lancio di oggetti: indipendentemente dal parapiglia nato dalla bandiera, se anche lo avesse voluto la squadra albanese non sarebbe potuta rientrare in campo avendo la certezza dell’incolumità. Per fortuna, rivangare i fatti di un anno fa è oggi completamente inutile. Non solo perché la giustizia (statale e sportiva) non si discute, non solo perché la nazionale albanese ha dimostrato sul prato di saper giocare a pallone, ma perché il temuto ritorno all’Elbasan Arena è stata una normalissima partita di calcio. Sentita, tesa, giocata fino alla fine, fonte di gioia e disperazione: un bella serata di sport. Certo sarebbe stato meglio se, sulla via dell’aeroporto, nessun deficiente avesse lanciato una pietra contro il pullman serbo; così come non ha torto chi ha osservato che fischiare l’inno degli ospiti è sbagliato, anche se all’andata ti era stato riservato lo stesso trattamento. Ma lasciando da parte le due o tre classiche demenze antisportive del tifo – cui, purtroppo, gli amanti del calcio sono costretti ad assistere – i giocatori, il pubblico e soprattutto lo stato albanese si sono dimostrati all’altezza della situazione. Quando, al 37° minuto, un giocatore è rimasto a terra, i rossi hanno calciato fuori il pallone e i bianchi l’hanno restituito, tra gli applausi scroscianti di tutto lo stadio. Un anno sembra un secolo: alla faccia di chi sosteneva che due paesi candidati all’Europa non potessero giocare insieme.
Addio Germania
Il calcio albanese meritava da tempo una vetrina di livello europeo, all’altezza del seguito, della tradizione, della «piazza» (guardare per credere). I risultati della nazionale, ma anche i successi europei dello Skënderbeu – la squadra di Korça che giusto quest’estate ha sfiorato la Champions League – sono segnali positivi per un sistema calcio che nonostante il gap economico e infrastrutturale sta lentamente costruendo la propria competitività internazionale.
Una novità importante e per nulla scontata, visto che a fronte di un nazionalismo strillato, ostentato e – diciamolo pure – a volte anche un pochino kitsch, il tifo albanese è storicamente dominato dal pessimismo e dalla rassegnazione. Non che il singolo supporter abbia il potere di incidere sulla realtà (è chi lo crede che in genere diventa un soggetto pericoloso) ma milioni di appassionati in costante tele-empatia con successi stranieri (Barca-Juve Bayern) certo non contribuiscono alla (tanto sbandierata) causa nazionale.
Pazzo di gioia per quella che ha definito "la più grande soddisfazione della sua carriera" al termine della partita De Biasi ha voluto ricordare il clima di disincanto che lo aveva accolto nel 2011: "Tre anni e mezzo fa c’erano pochissime persone con noi, al debutto in Georgia. Ho detto che se mi avessero seguito e se ci avessero creduto avremmo avuto grandi possibilità. Qualcuno ha sorriso, oggi anche chi ha sorriso si aggrega, ma va bene così. Abbiamo fatto felice un popolo". Il problema, evidentemente, più che nei piedi era nella testa: nell’errata e quantomai datata convinzione che il mondo sia là fuori e che dalla provincia albanese si possa solamente starlo a guardare.
Domenica sera, in Armenia, capitan Cana e compagni ci hanno ricordato che il muro è caduto da un quarto di secolo: la Storia non si beve nei bar, la si fa correndo. Un messaggio vitale per le nuove generazioni, nate e cresciute in un’Albania aperta, diversa, che da oggi crede un po’ di più in se stessa. Poco più di un anno fa la Germania vinse i mondiali e Tirana si travestì da Berlino. Domenica sera, finalmente, Tirana era Tirana. La vera grande notizia è che l’estate prossima le bandiere tedesche rimarranno nel cassetto. #UneBesoj