Un’azzurra notte nella Bologna rumena
Allo stadio a Bologna martedì sera, c’erano due pubblici di casa: quelli che tifavano Italia e la comunità rumena locale, a sostegno della Romania. Una festa dello sport, una festa della convivenza
Quell’impazienza fanciullesca che s’impossessa dell’Uomo nelle ore precedenti lo stadio mi ha colto a dieci ore dal fischio d’inizio di Italia-Romania. Sull’onda delle emozioni dispensate dalle apocalittiche profezie dei giornali locali – dalla preconizzata «invasione» dei tifosi ospiti alla «Bologna blindata» per un allarme t[]ismo a scala mondiale – mi ero apparecchiato a vivere un pre-partita anomalo e teso.
Con mia sorpresa, però, né l’hotel Savoia – che, discreto e silenzioso, ospitava la nazionale rumena – né Piazza Maggiore si mostravano diversi dal solito: avvolta nell’uggiosa nebbiolina stagionale, la «Bologna azzurra» sembrava vivere placida un suo normale martedì di novembre. In preparazione dell’evento, nella sede storica del comune erano state esposte le quattro coppe del
mondo vinte dalla nazionale italiana (parentesi antipatica ma dovuta: trattasi di copie, perché il trofeo che dal 1974 viene innalzato al cielo è un pezzo unico di proprietà della FIFA); mentre a partire da domenica, altre iniziative previste dal consolidato format della Federazione italiana avevano cercato di arricchire la non troppo palpabile attesa cittadina. Bologna, va detto, non è mai stata molto calda nei confronti della nazionale: non è forse un caso che se si esclude l’incontro amichevole disputato tra Italia e San Marino nell’estate 2013, per ritrovare gli azzurri sotto le due torri bisogna risalire al 1999.
Rumeni d’Italia
A scaldare il Dall’Ara ci hanno pensato loro: i rumeni di Bologna. O meglio, i rumeni d’Italia, visto che il giallo traboccante dalla curva ospiti e da buona metà dei distinti laterali gioiva e imprecava in tutti i dialetti della penisola. Chi conosce i numeri non si sorprenderà: secondo gli ultimi dati ISTAT i cittadini rumeni residenti in Italia ammontano a 1 milione e 131 mila, una cifra che peraltro non tiene conto delle crescenti naturalizzazioni. Si tratta della prima comunità straniera del nostro paese: e di gran lunga, visto che gli albanesi, secondi, sono meno della metà (490 mila).
Ma la realtà è più solida dei numeri, e fuori e dentro lo stadio è stato interessante toccarla con mano. In fila ai tornelli – con buona pace del TG1 per nulla «blindati» sembrava una normale domenica di campionato – ho incontrato rumeni bolognesi, alcuni addirittura sciarpati rossoblù (degli 83.000 residenti in Emilia, 23.000 abitano nell’hinterland del capoluogo), ma anche rumeni veneti, lombardi e piemontesi. C’erano famiglie miste, con bambini italo-rumeni al seguito, e coppie «diversamente miste»: un gruppo di rumeni germanofoni, non ho capito se tedeschi o austriaci, avevano colto la partita come occasione per rendere visita a parenti italiani.
Ho incontrato Adrian, di Casalecchio, che ha comprato il biglietto "perché la Romania mi è venuta a trovare", e Manuel, di Milano, che per vedere Gabriel Torje sarebbe andato anche fino a Roma. Con Marcu, reduce da un doppio turno di lavoro alla fiera del Cioccoshow, ho chiacchierato a lungo, fino a quando non mi ha confessato le reticenze di sua moglie: "Ha paura degli attentati, voleva rimanere a casa. In una serata così! Ma ti rendi conto?". Per fortuna, alla fine, ogni timore è stato vinto: "Sono riuscito a convincerla e siamo usciti tutti insieme: il ritrovo con gli amici, come sempre, al bar di via del Timavo".
Un gruppetto di rumeni di Cremona è disponibile a farsi fotografare. Gli chiedo per quale squadra tifino: in maggioranza è Milan, ma uno di loro, mi confessa, segue dal vivo la Cremonese. Sulla serata che li attende il pronostico è unanime – "2-1 per la Romania" – ma sugli Europei di Francia la banda si divide: "Secondo me usciamo con un punto", boffonchia il tifoso grigio-rosso, con un realismo che solo chi conosce la Lega Pro può vantare. Eccesso di modestia? Probabile. Perché, ad oggi, la nazionale rumena occupa il quattordicesimo posto del ranking Fifa (subito dietro l’Italia) e si è qualificata come seconda del gruppo F (alle spalle all’Irlanda del Nord, davanti a Ungheria, Finlandia, Isole Faroe e Grecia) con due sole reti subite e nessuna sconfitta. Proprio come accaduto sul prato di Bologna.
Come si fa a dire che non funziona?
A essere onesti, il 2 a 2 finale non sta troppo stretto all’Italia: più giocosa ma sprecona, disattenta in fase difensiva, a segno prima su rigore (Marchisio) e poi in probabile offside (Gabbiadini). Un pareggio che per converso ha il sapore del trionfo per la Romania del ct Anghel Iordanescu, come sempre cinica e compatta, uscita imbattuta tra gli applausi dei suoi tifosi.
Ma a Bologna la vera posta in palio era sul piano simbolico. Nelle stesse ore in cui tutto Wembley intonava la Marsigliese, nella stessa sera in cui il match di Hannover tra Germania e Olanda veniva cancellato da un allarme bomba, era importante dimostrare che da qualche parte il cuore del quotidiano batte regolare. Se così è stato, quest’incoraggiante pagina sportiva è da ascrivere non soltanto alla sicurezza infusa dalle forze dell’ordine, ma alla festa spontanea dei tifosi rumeni: la metà colorata, chiassosa e – oserei dire – spensierata dei 22.500 spettatori presenti. Ribadirlo da queste pagine può suonare scontato, ma il giallo stadio di Bologna – alla pari del Ferraris di Genova di un anno fa, rosso albanese – racchiude in se stesso, sintetizzate nel calcio, l’Italia e l’Europa di cui essere fermamente fieri: l’antidoto per uscire dalla tragedia. Se, a poche ore dalla partita, Piazza Maggiore era vuota, se, sugli spalti, l’inno di Mameli è stato coperto di applausi dalla metà rumena dello stadio, è perché martedì non c’erano «tifosi ospiti», ma due pubblici di casa.
Vale la pena rallegrarsene in queste tristi ore, perché nei giorni che seguono lo scempio di Parigi si odono strane voci. Tra bar, talk-shows e social networks, si è infatti tornati a parlare di «crisi del modello multiculturale», come se la convivenza e il tentativo di «stare insieme» fossero il problema e non la soluzione.
Per telefono accenno al tema con Padre Giovanni, parroco della Chiesa di San Rocco di via del Pratello, uno dei locali che la diocesi di Bologna ha concesso alla comunità rumeno-ortodossa. Come sanno bene i giovani studenti che contribuiscono a perpetuarne lo spirito, via del Pratello è uno dei pochi rioni cittadini rimasto sinceramente «rosso-ragù»: una sorta di «via del Campo gucciniana», più Bologna che Bologna non si può. Eppure, è là che Padre Giovanni ospita e accoglie la sua nutrita comunità di fedeli rumeni: una realtà di cui, prima che si giocasse Italia-Romania, io, bolognese, non sospettavo nemmeno l’esistenza. "Cosa vuoi che ti dica – mi dice Padre Giovanni con un sottile accento straniero – dopo una vita spesa a metà tra due paesi nemmeno io so cosa sono. Un sacerdote ortodosso rumeno nella più rossa via di una città che è stata comunista. A essere sinceri, stasera non so nemmeno per chi tifare. Lo vedi? Come si fa a dire che stare insieme non funziona?".