Una “parata” di inciviltà

Un gruppo di attivisti omosessuali nella Belgrado di oggi che tenta di organizzare il gay pride. Sono i protagonisti del film Parada del regista Srdjan Dragojević proiettato pochi giorni fa a Bihać in Bosnia Erzegovina. Una tragicommedia sociale che sta portando in tutti i Balcani il suo messaggio di tolleranza e difesa dei diritti umani, ma che a Bihać è stato accolto da un pubblico incivile

22/02/2012, Silvia Maraone -

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Locandina di Parada, film di Srdjan Dragojevic

Ieri sera a Bihać (ndr: 9 febbraio), nel cinema della città (mi consola sapere che in posti ben più grandi come Mostar per motivi diversi tra i quali quelli politici non ce ne sia – per ora – nemmeno uno) hanno proiettato il film serbo Parada, del regista Srdjan Dragojević, già autore di Lepa sela, lepo gore (come bruciano bene i bei villaggi) e Rane (ferite).

Il film, girato nel 2010, racconta la volontà e la lotta di un piccolo gruppo di attivisti omosessuali nella Belgrado di oggi che intende organizzare la parata per il Gay-pride nella capitale serba, nonostante le difficoltà che ci sono all’interno della società ad accettare una manifestazione di questo tipo. Tra tutti, i più contrari sono i violentissimi gruppi neo-nazisti e nazional-fanatici, pronti a pestare a sangue i “diversi”, con il benestare della polizia e il silenzio (assenso?) della popolazione.

Per raggiungere il proprio scopo e grazie alla fortunata coincidenza del salvataggio del cane di un corpulento omaccione che dopo aver fatto le guerre balcaniche oggi di mestiere si occupa di sicurezza e ha una scuola di judo (dall’evocativo nome Karadjordević), il gruppuscolo – guidato in primis da una coppia formata da Radmilo, un veterinario e Mirko, un organizzatore di matrimoni kitsch – riesce a trovare una scorta che garantisca la sicurezza per i partecipanti.

Infatti la polizia, interpellata a proposito, non solo si rifiuta di offrire garanzie ai "pederi" (i "culattoni"), ma umilia con parole pesantissime i tre esponenti del gruppo che si rivolgono all’istituzione, concludendo il discorso offrendo la rieducazione della ragazza lesbica andata a perorare la propria causa (con metodi che possiamo immaginarci).
Sarà dunque Limun (l’ex soldato proprietario del cane, con la casa piena di piena di pistole, icone, trofei di guerra, bandiere e palchi di corna di cervi) insieme al veterinario Radmilo a mettere insieme la compagnia che difenderà i gay nel loro giorno dell’orgoglio.

A bordo di una Mini rosa (omaggio al pullman Priscilla?) che viene regolarmente sfregiata con le peggiori scritte omofobe, i due uomini partono per un percorso che li avvicina uno all’altro e che li porta ad attraversare la Croazia, la Bosnia e il Kosovo per terminare a Belgrado. Lungo la strada si uniscono al gruppo Roko, un ex militare croato, Halil, un piccolo criminale bosgnacco e Azel, un albanese del Kosovo che fa soldi vendendo droga alle forze della Nato, tutte persone con cui Limun aveva combattuto, ma che aveva al tempo stesso aiutato, durante la guerra.

Le scene di cameratismo tra questi uomini vengono associate alle immagini del film preferito di Limun: Ben Hur. Quando Radmilo ridendo gli dice che il suo film preferito è un’icona dei film gay, Limun prende coscienza che in fondo gli uomini sono tutti uguali, che siano questi serbi, croati, o pederi…! In un ultimo tentativo disperato cerca di convincere prima i neo-nazi (di cui fa parte suo figlio) a non attaccare la Parata e non ottenendo risultati tenta di convincere la polizia a offrire supporto alla manifestazione, finendo poi in ospedale tutto pesto dalle botte ricevute.

Ma anche da ferito, con la flebo nel braccio, non permette che il gruppo di persone che oramai vivono tutte insieme in casa sua, gay e machissimi veterani che cantano e ballano e dormono insieme, si abbatta e con il suo modo un po’ grezzo incita Radmilo e Mirko a non mollare e andare avanti nella loro lotta: Sutra češ da se prošetaš gradom kao čovek! Kao pravi peder! (Domani tu camminerai per la città come un uomo, come un bravo frocio!).

Il film, come gli altri lavori di Dragojević, è un’unione di intuizioni, di battute a denti stretti, di dettagli e simboli a non finire, che riporta la storia di Belgrado e della Serbia di oggi indietro nel tempo con dei flash ben riusciti sulle guerre balcaniche, ma stavolta, al contrario che in “Rane”, in cui non esisteva nessuna speranza di salvezza per il Paese e per la sua gente, le guerre sono oramai lontane e si racconta la storia di chi, vent’anni dopo, si ritrova e in qualche modo si riconosce e si rispetta, per aver condiviso, seppure da parti opposte, qualcosa.

I nemici di un tempo diventano amici e oggi i nemici non sono più gli altri popoli, ma i nemici interni, gli altri, i diversi. Nel caso di Parada, i nemici sono i gay.

Nel finale uno sparuto gruppo di attivisti si prepara a farsi massacrare dall’orda di estremisti di destra sotto la difesa dei quattro omaccioni ex combattenti, con le parole di Mirko che incita i suoi spaventati compagni a manifestare per i loro diritti e per dimostrare che esiste anche un’altra Serbia, nonostante sia evidente che “prenderemo più botte oggi, che in tutta la nostra vita”.

Dragojević riesce di nuovo a raccontare una tragedia, facendo anche ridere – a volte molto amaramente – con alcune battute sagaci, specie nei dialoghi tra gli ex combattenti (Limun rivolgendosi ad Azel: ‘Hei, sai cosa sono le minoranze sessuali?’ Risposta: ‘Sì, siete voi, i serbi!’; Halil, vedendo insieme Limun e Niko: ‘Ah ah ah, ma guarda qua, un cetnico! Un ustascia! Vi manca solo un frocio!!!’, e Limun e Niko si girano verso Radmilo che fa ciao ciao con la manina).

Insomma, Parada, una tragicommedia sociale come l’ha definita Dragojević stesso, sta girando con buon successo per i vari territori della ex Jugoslavia, portando avanti il suo discorso di tolleranza e di difesa dei diritti umani, perché al di là di tutto è questo ciò di cui parla il film. Diritti umani, diritto alla libertà, diritto all’esistenza, in una regione, quella balcanica, ancora così indietro rispetto a questi temi, tuttora oggi protagonista di scontri violentissimi contro i manifestanti ai gay pride che ostinatamente ogni anno si cercano di organizzare in questi giovani Stati.

Purtroppo il percorso da fare è lungo.

Bihac ieri ha dimostrato la sua inciviltà, il suo primitivismo, l’ignoranza specialmente delle persone più giovani, quei ventenni che dovrebbero essere il futuro di questo Paese, al cinema. Risate, battute volgari e violente, schiamazzi… E’ stato difficile non alzarsi in sala e mandare tutti quanti a quel paese.

Non so se chi ha visto questo film ieri sera abbia scelto cosa andare a vedere, con consapevolezza. Ma mi atterrisce ancor di più pensare che queste persone, questi barbari, siano andate apposta al cinema per farsi due risate guardando i froci. E quello che hanno visto probabilmente non li ha soddisfatti, perché qui – con la massima bravura e intelligenza di Dragojević – le poche scene di contatto fisico sono di una delicatezza assoluta.

E dunque questi uomini con la clava (e non a caso parlo di uomini, perché ovviamente i più idioti in questo caso si sono rivelati i maschietti) insoddisfatti che la figura di frocio che veniva fuori da questo film non fosse quella che si aspettavano loro, in paillettes e piume di struzzo, si sono comunque accaniti in modo sguaiato con qualunque cosa che secondo la loro intelligenza da microcefali potesse far ridere a riguardo.

Peccato, perché questi ragazzi non hanno avuto il coraggio di uscire dal personaggio che questa società bosniaca gli impone – non hanno fatto come Limun che da super macho diventa finalmente un Uomo – e non hanno saputo ascoltare.

In fondo quello che questo film chiede, è solo di ascoltare. Ascoltare le parole degli altri, il diritto alla libertà, rispettare la bellezza della differenza.

E forse, se questi primati scesi con le liane nel centro di Bihać avessero saputo ascoltare, invece che urlare e sghignazzare, si sarebbero resi conto che anche la loro vita può essere diversa e più semplice. Vestire i panni di qualcuno che non si è, alla fine è faticoso, si spendono più energie a tener su la maschera, che a provare a mettere in discussione i dogmi imposti dalla società o – ancor più drammaticamente – a volte auto-imposti.

L’articolo è uscito originariamente sul blog Nellaterradeičevapi

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