Un viaggio tra le memorie divise

Un viaggio attraverso i confini vecchi e nuovi e le numerose memorie divise del ‘900. Questa la tematica che ha accompagnato 12 insegnanti coinvolti in un progetto di aggiornamento promosso da alcune associazioni italiane. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

04/11/2011, Simone Malavolti -

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Foto di Simone Malavolti

Un viaggio attraverso i confini vecchi e nuovi e le numerose memorie divise del ‘900. Questa la tematica che ha accompagnato i 12 insegnanti coinvolti nel progetto “Memorie divise del ‘900” nato dalla collaborazione tra l’Associazione culturale pAssaggi di Storia di Firenze e l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea della Provincia di Pistoia.

Grazie ai fondi ottenuti dalla Regione Toscana, le due associazioni hanno potuto realizzare, con un largo partenariato nazionale (Liceo Scientifico Statale "Amedeo di Savoia Duca d’Aosta", Osservatorio dei Balcani e del Caucaso, Narodna in študijska knjižnica v Trstu / Biblioteca Nazionale Slovena e degli Studi di Trieste, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia (IRSML) e internazionale (ADL Prijedor, IDC Sarajevo, JUSP Donja Gradina, National Park Kozara) quattro incontri di preparazione teorica tra marzo e giugno 2011, quindi il viaggio di approfondimento e conoscenza e un momento di restituzione alla cittadinanza da realizzarsi grazie anche al supporto della Provincia di Pistoia.

Il percorso proposto si pone come obbiettivo quello di offrire alcuni strumenti di conoscenza e di riflessione sulla tematica delle memorie divise e delle diverse narrazioni storiche che impediscono la comprensione reciproca tra i popoli e quindi un solido sviluppo di relazioni pacifiche.

Gli esempi potrebbero essere migliaia e non solo uscendo dai nostri confini. Questo progetto ha scelto di concentrarsi sulle memorie divise del Confine Orientale/Occidentale, sulle memorie divise tra serbi e croati sulla Seconda guerra mondiale così come sulle memorie divise dei popoli ex-jugoslavi degli anni ’90.

Ogni argomento è stato quindi trattato cercando di mettere a fuoco la complessità di queste vicende senza censure nei confronti dei diversi racconti e delle diverse memorie, ma al contempo senza dimenticare che dobbiamo affrontare queste differenze con il dialogo e una conoscenza più ampia delle vicende e la responsabilità, come storici e insegnanti, di riproporle adeguatamente.

Tutte queste vicende e memorie, dal Confine Orientale alle guerre degli ani ’90, si legano ad un’unica storia complessa e dolorosa, dove ogni parte ha saputo spesso coltivare soltanto la propria memoria ed è stata incapace di riconoscere stessa dignità a quella degli altri. In modo tragicamente più evidente, le vicende degli anni ’90 in Jugoslavia hanno dimostrato quanti danni possa fare la strumentalizzazione di un passato mai affrontato nei suoi nodi problematici. Questo e molto altro ci hanno raccontato i luoghi che abbiamo visitato e attraversato grazie a questo progetto.

Gonars

Il gruppo di insegnanti sul Monte Kozara - foto di Simone Malavolti

Finalmente si parte, pieni di entusiasmo e curiosità, ma anche di aspettative e pregiudizi!

Prima tappa del viaggio è Gonars, sito del campo di concentramento italiano per jugoslavi, dove ci accompagna la storica Alessandra Kersever. Visitiamo il Sacrario Memoriale costruito dall’architetto Miodrag Zivkovic di Belgrado dall’allora SFRJ, come ci spiega la Kersevar, “nell’ambito degli accordi tra governo jugoslavo e italiano che sarebbero sfociati nel 1975 nell’accordo di Osimo. Al margine di quegli accordi c’era anche la richiesta da parte della Jugoslavia di poter costruire dei sacrari per i cittadini morti sul territorio italiano. Ne vennero costruiti 4, Gonars (UD), San Sepolcro (AR), Roma e Bari”.

Se in quegli anni vi era un tentativo di riconoscere le vittime altrui e rispettarne anche il ricordo, i nuovi cartelli informativi ci riportano alla questione delle memorie divise in un modo che non ci saremmo aspettati. “Prima c’era un solo cartello – continua la Kersevan – che parlava di internati jugoslavi. Dopo la divisione della Jugoslavia hanno voluto dividere anche i morti che, tra l’altro, non vengono ricordati neppure tutti perché ci sono stati anche alcuni serbi e rom”. I nuovi cartelli post-jugoslavi, infatti, ricordano separatamente gli internati croati e sloveni e le altre vittime della Seconda guerra mondiale, ponendoci di fronte al primo caso di memoria divisa. Ma il monumento di Gonars, come ci ricorda ancora la Kersevar, è un luogo simbolo anche di una memoria negata e cancellata da parte degli italiani e che, col suo progetto Gonars the Italian lost memory, la studiosa sta cercando di riportare alla nostra attenzione al fine di riconoscere le nostre colpe e le loro sofferenze.

Basovizza

Il viaggio prosegue per Basovizza (TS) dove incontriamo nuovamente un caso interessante di sovrapposizione e divisione di memorie. Grazie allo storico Sandi Volk di Trieste, partecipiamo alla commemorazione di 4 giovani antifascisti sloveni condannati a morte il 5 settembre 1930 dai fascisti da un Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato “che inscenò a Trieste – come ricorda il volantino – un processo il cui regista occulto fu lo stesso Duce”. Il foglio informativo è scritto in lingua italiana e slovena, ma la presenza alla commemorazione è inequivocabilmente a maggioranza slovena. In realtà ci spiega Sandi Volk “questi quattro [antifascisti] diventano fin da subito degli eroi della Resistenza non solo dell’antifascismo sloveno ma anche dell’antifascismo italiano.[…] Dall’indipendenza slovena le celebrazioni hanno assunto caratteristiche diverse. È cresciuta l’importanza di queste celebrazioni e da alcuni anni sono presenti anche i ministri della Repubblica slovena. L’antifascismo è comunque presente: ci sono due [cori di] oratori uno italiano e uno sloveno. Si cerca questo contatto, anche se non è mai stata riconosciuta a livello istituzionale e il monumento è gestito da privati”.

Interessante vedere come Basovizza, luogo simbolo della tragedia delle foibe, sia anche il luogo di una memoria diversa. A poche centinaia di metri troviamo infatti il monumento alle foibe, inaugurato nel 2007 e gestito dalla Lega Nazionale di Trieste. Qui si accende tra di noi una breve ma significativa discussione sulla scritta del monumento che recita: “Onore e cristiana pietà a coloro che qui sono caduti. Il loro sacrificio ricordi agli uomini le vie della giustizia e dell’amore sulle quali fiorisce la vera pace”. Eccoci nuovamente di fronte ad un profondo clivage sulla memoria, stavolta tutto italiano. La discussione verte sulla scelta lessicale della frase, per alcuni inadeguata perché tendente ad una retorica considerata ideologicamente di destra, per altri adatta proprio a salvaguardare la memoria del luogo e delle sue vittime. Le discussioni e i confronti, data la vivacità intellettuale del gruppo, non mancheranno di accompagnarci durante l’intero percorso.

Monte Kozara

Il secondo giorno prevede la visita al monte Kozara, nei pressi di Prijedor in Bosnia Erzegovina, luogo commemorativo dell’epopea partigiana che dagli anni ’90 in poi ha subito un processo di risemantizzazione in senso nazionalista. Il museo è purtroppo chiuso quando arriviamo, ma dalle piccole fessure della struttura anni ’70 in cemento armato, si intravede bene la presenza della mostra “temporanea” che dal ’99 viene ospitata nei suoi locali e che rappresenta un ottimo esempio di rivisitazione in senso nazionalista delle tragedie delle guerre. Fin dal titolo “Il genocidio dei serbi nel XX sec. 1914-1918, 1941-1945, 1991 – ?” è possibile capire come i nazionalismi degli anni ’90 abbiano strumentalizzato una parte della memoria e della storia al fine di giustificare i nuovi orrori della guerra. Grazie al finanziamento del Ministero della Republika Srpska, la cosiddetta rivitalizzazione della mostra precedente è stata finalmente affidata al direttore del Museo di Bijeljina, Mirko Babic. La mostra permanente ciò nonostante rimane saldamente al suo posto, mostrandoci l’estrema difficoltà che le autorità politiche e del Parco Nazionale del Kozara registrano nella sua rimozione, frenati dal timore di suscitare le proteste di politici nazionalisti ancora in grado di strumentalizzare queste vicende.

Nel raccontare la storia di Prijedor del ‘900, a partire dall’apertura della miniera nel 1917 fino all’apertura del campo di Omarska proprio in uno dei maggiori siti della miniera attraverso le stragi e le deportazioni della Seconda guerra mondiale, i partecipanti colgono quasi in maniera tangibile la complessità della tematica storica e delle memorie divise del ‘900, così come la sua profonda attualità.

Jajce

Il terzo giorno è dedicato esclusivamente al lungo viaggio che ci porta da Prijedor fino a Sarajevo, ma che si rileva comunque occasione per attraversare altri luoghi simbolo delle memorie divise e della loro risemantizzazione. In particolare il passaggio da Jajce: mentre dal pullman lo storico Stefano Bartolini dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia ci racconta l’importanza simbolica che questo luogo ricopre per le vicende della Resistenza partigiana jugoslava e per le importanti decisioni prese qui dall’AVNOJ nel novembre del ’43 sulla formazione di uno stato jugoslavo federale, le bandiere croate e gli striscioni che sventolano dall’antica fortezza ricordano un’altra liberazione, quella del 13 settembre del ’95 quando le forze croato-bosniache liberarono la città dall’esercito serbo-bosniaco. Il nostro passaggio proprio il 13 settembre è puramente casuale, ma ci offre l’opportunità di cogliere nuovamente questo divario tra uno dei simboli di unità e fratellanza (della II g.m.) e uno dei simboli delle divisioni che ancora oggi regolano le memorie e le commemorazioni locali.

Sarajevo

Il soggiorno a Sarajevo prevede due importanti visite: un incontro al Centro di Ricerca e Documentazione e una visita al Museo Storico della Bosnia Erzegovina.

Il primo incontro ci permette di introdurre e suggerire, dopo i numerosi esempi di memorie divise e narrazioni diverse, una sorta di via d’uscita da questo vortice di strumentalizzazioni e scontri di memorie, grazie alla presentazione del lavoro pluriennale del centro di ricerca. Dopo aver realizzato un vero e proprio archivio con i dati e le storie di tutte le vittime della guerra di Bosnia Erzegovina dal ’92 al ’95, il centro sta realizzando un nuovo progetto di divulgazione e conoscenza per la società civile: un atlante multimediale online dei crimini di guerra.

Come ci spiega Senada Gugic, il tentativo è quello di creare uno strumento che sia disponibile a chiunque direttamente da internet e così sostenere un processo di diffusione e condivisione del materiale raccolto. L’atlante è naturalmente soltanto l’ultimo progetto che vede impegnata questa organizzazione nella ricerca di una verità fattuale e statistica che possa costituire la base per evitare le strumentalizzazioni e fornire agli storici e agli studiosi dati certi e documentati su cui costruire le future narrazioni storiche. Si tratta di un argomento che ci tornerà utile quando visiteremo due giorni dopo i due siti memoriali di Jasenovac e Donja Gradina, emblema della strumentalizzazione del numero delle vittime del campo di concentramento omonimo.

La seconda visita, prima di lasciare il tempo per girovagare nella Baščaršija e nel centro storico per scoprire liberamente il fascino della città, è dedicata al Museo Storico della Bosnia Erzegovina, ex Museo della Rivoluzione. Al suo interno incontriamo la curatrice Elma Hasimbegovic che ci illustra le mostre permanenti e temporanee, oltre a spiegarci le difficoltà economiche in cui versa il museo. Le scelte operate da questo museo storico rilevano ancora una volta come gli ultimi anni abbiano profondamente cambiato le prospettive storiche di questo paese. L’esposizione principale presenta la storia della Bosnia Erzegovina dal medioevo ad oggi, con una parte altrettanto esclusivamente dedicata all’assedio di Sarajevo. La curatrice ci indica quest’ultima come la parte più interessante ed importante del museo, ma ci spiega velocemente anche la storia del museo. Prima della guerra i locali ospitavano una mostra permanente esclusivamente dedicata alla II guerra mondiale alla Resistenza partigiana. “La sua missione era quella di conservare e promuovere la memoria della II g. m. e all’epoca era molto famoso”. Questa parte è stata completamente rimossa quando è iniziata la guerra, e oggi significativamente sostituita con i nuovi miti fondativi, dalla storia medievale all’assedio, momento probabilmente tra i più simbolici e significativi per l’identità cittadina. Fuori dal Museo, d’altronde, proprio il bar inserito nello stabile si chiama Caffè Tito e ogni anno, come si capisce dai manifesti ancora appesi su cui è scritto “Siamo tutti con Tito”, si festeggia ancora il 25 maggio, compleanno di Tito e giorno della gioventù della defunta Jugoslavia. Il locale sembra aver sostituito il museo vista la quantità di cimeli originali del periodo jugoslavo riguardanti la figura di Tito. Questa immagine ci dice molto sui sentimenti che ancora la gente prova per quel periodo e sulla diversa linea ufficiale del museo.

Donja Gradina e Jasenovac

L’ultima tappa del viaggio si svolge nel luogo cardine e simbolo delle memorie divise, ovvero al sito memoriale di Donja Gradina, in Bosnia Erzegovina e al sito memoriale e al museo di Jasenovac, in Croazia. Entrambi gli enti conservano la memoria del campo di concentramento ustascia di Jasenovac esistito dal 1941 al 1945. La sola esistenza di due enti a così poca distanza ci indica quanto forte sia ancora il divario tra le due narrazioni e le due memorie della stessa vicenda. A Donja Gradina lo storico Dean Motl ci accompagna lungo la suggestiva passeggiata immersa tra gli alberi nei luoghi destinati ai massacri dei prigionieri e alla creazione di fosse comuni (ne sono state rinvenute oltre 100, tra cui 5 esclusivamente di bambini).

Il numero di vittime del campo rappresenta il terreno di scontro che fin dal dopoguerra vede dividersi in maniera sempre più aggressiva le storiografie nazionali. Lo si comprende bene quando arriviamo nel luogo simbolo di Donja Gradina rappresentato da grandi cartelloni su cui appaiono le cifre delle vittime: 700.000 vittime del campo di concentramento di Jasenovac, di cui 500.000 serbi, 40.000 rom, 33.000 ebrei, 20.000 bambini e 127.000 antifascisti. Tale cifra, ci spiega Motl, è il risultato di una Commissione degli anni ’60. Su queste cifre però non è stata fatta alcuna ulteriore indagine e l’ente museale di Donja Gradina non sembra volerne avviare alcuna per il momento. L’impressione che ne traiamo è che invece si preferisca conservare e amplificare esclusivamente il valore evocativo e simbolico di questa cifra.

Tale contabilità d’altronde cozza in maniera violenta con le cifre che ci vengono fornite dal Museo di Jasenovac dall’altra parte della riva del fiume Sava in territorio croato. L’approccio del Museo di Jasenovac è infatti profondamente diverso. Chiediamo al nostro accompagnatore, lo storico Ivo Pejakovic, oltre alle notizie riguardanti il monumento e la storia del campo, di entrare nel merito della questione numerica. Il museo di Jasenovac, ci spiega Pejakovic, è anche un centro di ricerca che sta faticosamente cercando di restituire ad ogni vittima la propria identità, come dimostrano i pannelli con i nomi di ogni vittima appesi al soffitto. Una ricerca attualmente ancora in itinere che rimane sempre aperta. La cifra delle vittime documentate è giunta fino ad oggi a circa 83.000. La domanda posta da uno dei partecipanti è quindi se oltre al numero documentato, il centro non cerchi di fare una stima delle vittime, visto che sarà difficile ad così ampia distanza poter identificare tutte le vittime singolarmente. Pejakovic concorda naturalmente sulla necessità di conciliare la documentazione sulle singole vittime anche con le stime statistiche, ma qualcuno fa notare che ciò nonostante non ne esiste traccia all’interno del museo.

Sia Motl che Pejakovic ci ricordano che non sapremo mai qual è il numero esatto delle vittime. Il sospetto è che dietro a questa affermazione si nascondano ancora e troppo spesso le due parti, permettendo loro di continuare a fronteggiarsi in una vera e propria guerra, cinica e drammatica, di numeri. Se queste rimangono quindi a tutt’oggi le cifre di riferimento ufficiali (83.000 e 700.000) su cui si vorrebbe costruire un dialogo e un confronto, si capisce bene come la questione delle memorie divise rimanga più che mai aperta e drammaticamente lontana dall’essere seriamente affrontata.

Ciò nonostante, seppur stretti, esistono margini di speranza. Nonostante che i due enti non abbiano alcun tipo di collaborazione ufficiale, sia da una parte che dall’altra ci confermano I due ricercatori, esistono i rapporti informali soprattutto tra i singoli storici e studiosi più aperti. Ci svelano addirittura di un progetto di ricerca elaborato e portato avanti a titolo privato da due ricercatori dei due enti. Un progetto sui giorni delle liberazione del campo, avvenuta grazie ad una sollevazione interna e non grazie all’arrivo dei partigiani. Uno dei due si spinge fino a dichiarare: “è assurdo che esistano due enti museali separati. Sarebbe bello se vi fossero le condizioni per realizzare un unico museo congiunto e poter finalmente lavorare insieme”. Purtroppo la realtà attuale non sembra potergli dare grandi speranze.

 

*Simone Malavolti è presidente di pAssaggi di Storia

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