Un problema europeo

Rotta balcanica, sospensione di Schengen, emergenza rifugiati: riflessione sui confini d’Europa e su domande mal poste. Un occasional paper

23/05/2016, Francesco Palermo -

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Un punto di confine tra Italia e Slovenia, Fabrizio Giraldi

(Quest’occasional paper è stato pubblicato in una sua versione ridotta da La rivista il Mulino il 18 maggio 2016)

L’Europa muore o rinasce… o vivacchia? Il paradosso di Jean Monnet

“L’Europa muore o rinasce a Sarajevo” è il titolo di uno degli ultimi scritti di Alexander Langer, condensato in un documento firmato da molti intellettuali europei e consegnato ai capi di stato e di governo riuniti a Cannes. Era il 26 giugno del 1995 e una settimana dopo Langer si toglieva la vita sulle colline di Firenze. Aveva trovato la sua risposta al dilemma: l’Europa sarebbe morta a Sarajevo. Sarebbe morta non offrendo alla Bosnia la possibilità di aderire all’Unione europea. A distanza di 21 anni il paese non è ancora neppure candidato all’adesione.

L’Europa non è morta, o almeno non è morta allora. Nel decennio immediatamente successivo alla sua mancanza di coraggio di fronte alla crisi balcanica è anzi sembrata animata da una vitalità mai raggiunta in precedenza: il numero di paesi membri è più che raddoppiato, l’area Schengen si è allargata e intensificata, sono arrivati la moneta unica, la Carta dei diritti, il progetto di costituzione, le nuove competenze, la nuova struttura istituzionale. Poi di nuovo il riflusso, la crisi dell’eurozona, cui pure è seguita una nuova (per quanto questionabile) governance economica. Ora la crisi dei migranti, il crescente scetticismo politico, la lenta ma costante erosione delle spinte e delle forze politiche che hanno costruito il progetto europeo. Prime risposte arrivano dalla Commissione, sia rispetto alle richieste di proroga delle misure eccezionali ai confini richieste da sei stati, sia per una revisione del “sistema di Dublino”. La nuova sfida è peraltro già alle porte: il voto britannico sull’uscita dall’Unione.

L’inadeguatezza “dell’Europa”, la complessa architettura istituzionale dell’Unione, l’impossibilità di un duraturo compromesso tra singoli interessi nazionali e interessi europei sono diventati quasi degli slogan. Non per questo sono meno veri, anzi lo diventano ancor di più ogni qual volta vengono ripetuti. Meno ricordata ma non meno problematica è l’innata tensione tra il progetto tecnocratico e la spinta politica alla base del progetto europeo, che potremmo chiamare il paradosso di Jean Monnet: solo focalizzando sui profili tecnici (specie giuridici ed economici, e sul peso della burocrazia) è stato (ed è tuttora) possibile superare gli ostacoli politici al processo di integrazione, ma nel contempo senza uno slancio politico tale processo non può che rimanere esposto a tempeste di ogni tipo e reagire, nella migliore delle ipotesi, in modo troppo lento rispetto a quanto le sfide contemporanee richiedono.

Insomma, più che rinascere o morire di fronte alle crisi, l’Europa tende a vivacchiare, al più elaborando soluzioni parziali e tardive. Ciò accade non tanto per un’altra vulgata pericolosamente banale – quella secondo cui i leader del passato erano bravi e quelli di oggi sono scarsi – quanto per l’inevitabile struttura istituzionale di un’Unione così costruita e per il suo altrettanto inevitabile processo decisionale connaturato a tale struttura. L’impossibilità di funzionare diversamente da come funziona attira comprensibilmente all’Unione europea continue critiche, oltre a stimolare varie proposte per un nuovo slancio politico – ed è interessante che queste ultime (v. tra tante da ultimo https://www.socialeurope.eu/2016/05/need-reinvent-europe/) vengano soprattutto da ex leader politici, che forse rimpiangono l’epoca in cui avrebbero voluto ma non hanno potuto essere più incisivi, o forse più sottilmente si divertono ad alimentare lo stereotipo nostalgico, sperando di essere ricordati in futuro come quelli bravi a confronto degli scarsi di domani.

In definitiva, occorre chiedersi se le aspettative nei confronti “dell’Europa” e delle “soluzioni europee” non siano irrealisticamente elevate, frutto anch’esse del paradosso di Monnet. E non si faccia un migliore servizio all’efficacia delle soluzioni accontentandosi del bene piuttosto che del meglio. Se non altro per non alimentare facili e pericolose illusioni che tutto possa avere una “soluzione”.

Europa chi?

La crisi dei migranti e le dissonanti risposte che arrivano dalle diverse capitali oltre che (un po’ mestamente, com’è appunto inevitabile) da Bruxelles, sono un esempio di queste contraddizioni. Sostenere che “l’Europa” non ha fatto nulla sarebbe non solo ingeneroso ma profondamente sbagliato. Solo che ha fatto cose spesso contraddittorie, com’è nella sua natura e nella sua struttura: missioni di salvataggio e tentativi di ridistribuzione, incentivi e sanzioni, Frontex e accordo con la Turchia. Il tutto oscillando tra emergenza nelle risposte legislative e diritti umani (un po’ tutelandoli, un po’ delegandone la violazione).

Lo stesso hanno fatto, mutatis mutandis, gli stati. Perché l’Europa è anche i suoi stati, tanto più in materie non completamente comunitarizzate (per quanto lo sia largamente la politica di asilo e di visti, le sue fondamenta restano statali: integrazione, politiche sociali, cittadinanza). Lo è ancor più negli accordi bilaterali. Tra i primi c’è stata la Spagna, che ha fermato gli sbarchi di migranti africani alle Canarie con accordi con i paesi costieri, e l’ingresso nelle enclaves di Ceuta e Melillia con misure alquanto brutali. L’Italia ci provò con la Libia di Gheddafi. Le “ex primavere” arabe hanno spostato il baricentro a est, la rotta balcanica è diventata un fiume nel 2015, ed è stata interrotta con un sistema quasi idraulico di dighe ai confini, che hanno creato un invaso in Grecia che ora si cerca di svuotare in parte attraverso la Turchia. Ora pare certa una ripresa della rotta da sud, e il baricentro si sposta tra gli hotspot meridionali e il Brennero, nonostante al momento la situazione al confine alpino sia assai più tranquilla di qualche tempo fa.

Tutto questo è facilitato dell’assenza di un’opinione pubblica europea e di un dibattito europeo, a loro volta facili da invocare ma difficili da costruire. Perché l’importante è spostare il “problema” o almeno illudersi di farlo. Se il “problema” è a Spielfeld, per l’Austria è risolto nel momento in cui si sposta a Idomeni, e per la Grecia e l’Unione europea lo sarà se e quando sarà spostato in Turchia. In Spagna del tema non si parla quasi più. In Alto Adige non importa nulla di quanto accade a Pozzallo e quando diventa “caldo” il Brennero la domanda politica che lentamente si insinua al centro del dibattito non è sulla chiusura del confine, ma se ci si trovi dalla parte sbagliata dello stesso. E finché il “problema” (reale o percepito) è al Brennero, è contenta la Valle d’Aosta, al momento apparentemente fuori rotta. E via a catena.

Questo perché, com’è noto, le ricadute politiche sono nazionali o locali, non europee. Vengono puniti sia i “buoni” (sono già arrivate le prima avvisaglie con le elezioni in alcuni Länder tedeschi, e ne arriveranno altre fino alle elezioni federali del 2017 che potrebbero cambiare la storia d’Europa), sia i “cattivi” (i partiti di governo in Austria, alla rincorsa degli estremisti). Alimentando il paradosso della contestuale impossibilità e inevitabilità di “soluzioni europee”: le soluzioni non possono che essere europee e per questo non possono che essere compromissorie, ma i cicli politici negli stati, e talvolta nelle loro singole regioni, sono impossibili da coordinare. Con il risultato di alzare muri giuridici e ora anche fisici per fermare fenomeni non arginabili, anziché provare a governarli, e così al più spostandoli. Dando paradossalmente ragione a coloro i quali non si pongono i problemi dei confini ma solo della parte da cui stare, fingendo di dimenticare con quale rapidità questi nuovi muri salgono e scendono.


L’Austria è insomma la “cattiva” del momento per l’Italia, come lo è stata nei mesi scorsi per la Slovenia. Ma è parecchio utile alla Germania e, a cascata, ai Paesi che con la Germania confinano, direttamente o meno, specie verso nord e verso est. L’Ungheria è cattiva per la Serbia, la Romania e l’Ucraina (che non è sulla rotta migratoria ma ha motivi non meno pressanti per lamentare l’accresciuta durezza ai confini). Il gioco è ad incastro, con Spagna e Portogallo quasi nascosti sperando di non essere visti. Ma l’incastro è come un caleidoscopio, i vetrini si scompongono e ricompongono in continuazione.

Domande prima delle risposte: la sfida dell’integrazione delle società

Ecco allora che la risposta è il punto da cui siamo partiti: è un problema europeo. Certo, come negarlo? Ma dire che è un problema europeo è come non aver detto nulla. Rischia di essere irritante quasi quanto la risposta di coloro che sostengono che è un problema degli “altri”, e che non servirebbero controlli al Brennero se l’Italia e la Grecia non avessero coste, o murassero il mare o (e qui una parte di verità c’è) facessero meglio il lavoro di identificazione, che tuttavia aumenterebbe il loro “carico” di migranti.

Avanti chi ha soluzioni pronte e bacchette magiche. Gli attori sono tantissimi, gli interessi contraddittori, le pressioni infinite. Quindi non c’è soluzione che non passi da una mediazione, e che dunque non sia destinata ad essere insoddisfacente. Nella migliore delle ipotesi, insoddisfacente per tutti – altrimenti si avrebbe un’imposizione, non una mediazione. E mediare è tremendamente difficile e comporta frustrazioni. Forse allora iniziare a parlare di compromessi anziché di soluzioni può aiutare almeno ad evitare di creare aspettative irrealizzabili, che aumentano rabbia e incomunicabilità. Più che gli slogan, servono proposte sui metodi decisionali, su chi può e deve decidere cosa e come. Suonerà come una risposta tecnocratica e poco adatta a suscitare un pur necessario stimolo politico (di nuovo il paradosso di Monnet), ma la composizione di interessi dipende dalla loro rappresentanza e dal peso decisionale di ciascuno di questi.

Infine, siccome le domande dovrebbero venire prima delle risposte, vi è un ultimo e ancor più profondo problema su cui iniziare a interrogarsi. Quello di capire cosa attendersi da (con, verso) le persone che, in un modo o in un altro, riescono ad immigrare in Europa – e sono già moltissime, anche se domani il flusso dovesse miracolosamente interrompersi. Come per la “gestione” degli ingressi, così per la “gestione” dell’integrazione la risposta è stata finora sempre emergenziale. Le risposte emergenziali sono tipicamente risposte date prima della domanda (vedi il Brennero) o date a domande mal poste.

La domanda su cosa fare con le politiche dell’integrazione (chiamiamole così, nonostante legittimi dubbi sul termine e sul concetto) richiede infatti un minimo di analisi rispetto al contesto in cui dovrà muoversi il nuovo strumentario, ossia se a seguito dei fenomeni migratori in corso le società di accoglienza dovranno continuare a ipotizzarsi omogenee o se dovranno accrescere il proprio grado di diversità, e, in tale secondo caso, di quanto e con quali strumenti.

La sola Germania ha accolto nel 2015 un milione di nuove persone. Le stime del ministero federale dell’interno calcolano che a seguito dei ricongiungimenti familiari il numero aumenterà fino a un minimo di cinque e un massimo di otto milioni: una percentuale tra l’8 e il 10% di nuova popolazione immessa in un solo anno in un Paese già fortemente diversificato. Non pochi altri Stati si trovano in situazioni analoghe – non modificate nella sostanza ma anzi confermate dall’introduzione di soglie al numero di migranti, come alcuni Paesi, a partire dall’Austria, hanno fatto.

A fronte di un fenomeno di questa portata, la domanda sul che fare dopo l’emergenza risulta mal posta. Le società, i governi, perfino la dottrina guardano all’integrazione delle persone nella società. Così facendo si commettono però due errori concettuali molto seri. Da un lato si coltiva l’equivoco per cui le persone in questione costituiscano un unicum omogeneo, quando si tratta invece di persone e gruppi profondamente diversi, con storie, culture, educazione, aspettative assai diverse a seconda dei casi. Accomunati solo dalla “recente” presenza sul territorio europeo. Può bastare per creare categorie e ragionare per contrapposizioni? La differenza tra individui e gruppi non è meno profonda tra i “recenti immigrati” che tra gli “autoctoni” (si pensi alla differenza tra le diverse minoranze nazionali in termini di consistenza, insediamento, forza politica ed economica, rivendicazioni): può bastare allora la “recente” presenza sul territorio per identificare come omogenee categorie così distinte? Lo stesso criterio temporale che dovrebbe costituire l’elemento accomunante delle comunità “di recente immigrazione” è assai scivoloso: quando si parla di immigrati di terza generazione, che hanno la cittadinanza del Paese in cui vivono, siamo davvero di fronte ad una “recente immigrazione”? E quanto indietro occorre risalire per il “background migratorio”? Sbagliando la diagnosi non si rischia di sbagliare la terapia?

Il secondo errore concettuale, forse ancora più problematico, è quello che porta a pensare – attraverso la contrapposizione con “i nuovi arrivati” – che le società di accoglienza siano qualcosa di omogeneo. Così portando all’equivoco dell’integrazione, che consiste nel ritenere la società di accoglienza come un blocco unico e omogeneo, che può essere in grado di accogliere (integrare? assorbire?) un certo numero di persone, anch’esse ritenute omogenee tra loro. Come un grande stomaco che può digerire una certa quantità di cibo. Senza invece considerare che la gestione delle differenze è un fenomeno che non può che riguardare tutte le componenti della società, quindi anche le maggioranze (presunte omogenee).

In questo modo il rischio è la reiterazione dei diversi modelli che già si sono sperimentati, con esiti fallimentari, a fronte della prima ondata migratoria in Europa, come il modello Gastarbeiter (venire per lavorare, e in seguito assimilarsi o andarsene) o quello prevalentemente assimilazionista francese. L’errore concettuale, già dimostrato con questi approcci, è quello di ritenere possibile un’integrazione nella società, come se questa non cambiasse proprio a fronte dell’innesto di nuove diversità, anziché guardare a una più complessa integrazione della società, che richiede di accettare un cambiamento anche della società di accoglienza attraverso il confronto con (nuove, ma anche vecchie) diversità.

Se la società non è strutturata in modo da accogliere le diversità come un fattore strutturale e non eccezionale, non si ha integrazione ma solo il bivio tra assimilazione (destinata inevitabilmente a fallire) o espulsione dei “corpi estranei” (anch’essa fallimentare, perché l’espulsione avviene senza che questi gruppi abbandonino il territorio, ma attraverso la loro progressiva segregazione), con l’unica conseguenza di alimentare sacche di emarginazione pericolose per l’intera società. E così i nuovi muri avranno come maggiore effetto non quello di chiudere fuori il pericolo, ma di chiudersi in casa con lui.

 

Francesco Palermo è professore di diritto pubblico comparato nell’Università di Verona, direttore dell’Istituto per lo Studio del Federalismo e del Regionalismo dell’Eurac di Bolzano e senatore indipendente per il collegio Bolzano-Bassa Atesina.

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