Un luogo dell’anima

Lo scrittore-viaggiatore Paolo Rumiz, con il suo libro "La cotogna di Istanbul" torna in Bosnia. Un racconto da ascoltare attorno al fuoco per lasciarsi rapire dalla sevdah dell’amore tra la bellissima Maša Dizdarević e l’ingegnere austriaco Maximilian von Altenberg. Una storia che si intreccia con la vita dell’autore. Nostra intervista

15/09/2010, Nicole Corritore -

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Paolo Rumiz, foto di Francesco Fossa

“La cotogna di Istanbul”, appena uscito nelle librerie per Feltrinelli, presenta una novità rispetto agli altri suoi libri: ha usato versi endecasillabi. Come mai?

In realtà non è scritto in puri versi endecasillabi. Non sono ancora in grado di farlo in maniera piena e compiuta… Direi che è scritto più in "corta riga o in riga breve". Ultimamente ho avuto modo di collaudare questo modo di narrare, arrivando alla conclusione che è infinitamente superiore alla scrittura.

In che senso ritiene il racconto orale migliore rispetto a quello scritto?

Oggi, nel mondo moderno, gli italiani in particolare hanno perso il gusto di raccontare e di ascoltare. Abbiamo bambini senza più nonni che danno loro la prima visione del mondo. Abbiamo perduto completamente il senso del bene prezioso che il racconto orale costituisce: un nutrimento per l’anima unico. L’uomo che cammina, l’uomo che lavora, canta, inventa una sua metrica che gli consente di vivere meglio. Il racconto orale rappresenta secondo me un grande fattore terapeutico, taumaturgico. Ho cominciato ad entrare in questa dimensione, seppur tardi, ed oggi la considero di grande importanza.

Cosa l’ha spinta a usare questo tipo di narrazione proprio per “La cotogna di Istanbul”?

Il protagonista del racconto è chiaramente una finzione letteraria ma il nucleo della storia ruota attorno a qualcosa che mi è accaduto davvero e che ho raccontato tantissime volte a delle persone care. Vedendo accendersi una grande commozione nei loro occhi mentre mi ascoltavano narrare, mi sono detto che il giorno che avessi deciso di scrivere questa storia dovevo trovare il modo che si avvicinasse il più possibile al racconto orale, che ritengo decisamente superiore alla scrittura.

Questo le ha facilitato la realizzazione del libro?

Decisamente. Mi ha stregato. Nel momento in cui ho deciso di usare i versi, pure approssimativi, di metter la storia personale in terza persona attraverso un personaggio nuovo, di usare il passato anziché il presente storico che uso quasi sempre nel mio lavoro di giornalista, il racconto ha iniziato a scorrere come un fiume. Non solo. Durante la fase della scrittura, gran parte delle cose che mi accadevano entravano a far parte del racconto stesso.

Ci può spiegare come?

Durante questi mesi di scrittura, indimenticabili, forti come un innamoramento, qualsiasi incontro facevo, qualsiasi cosa vedevo la tiravo su con una rete a strascico e la facevo entrare nella storia! Senza alcuna difficoltà. Non dovevo fare operazioni faticose per fare entrare la realtà nella storia.

Era come se questa metrica fosse fatta apposta per capire meglio la realtà e per organizzarla in modo più armonico. Ha avuto riflessi anche su di me: se oggi guardo a una parte importante della mia vita, mentre prima dietro di me vedevo una biblioteca in disordine oggi vedo degli scaffali ben ordinati. Penso sia proprio l’effetto del verso.

Scorrendo le pagine del libro si ha la sensazione che ci sia molto della storia “personale” dell’autore. E’ così?

A monte ci sono sicuramente due cose. Il mio amore sconfinato per la terra di Bosnia e l’intreccio con la morte avvenuta un anno fa di un caro amico oltre che collega, Paolo Vittone. Paolo aveva con la Bosnia molto in comune e dunque la sua storia si è inserita nel libro. Paolo conosceva la storia d’amore di Maša e Max nella mia versione personale, perché gliene avevo parlato a lungo. E in qualche modo lui ha propiziato in me il clima necessario per mettere il racconto su carta.

Ha trovato in Paolo una specie di mentore?

Paolo aveva raggiunto nella fase finale della sua vita una capacità di racconto e di ipnosi che non aveva mai avuto. Il suo gioco delle pause, il suo periodare, il suo giocare con l’intensità e la lentezza, erano qualcosa di assolutamente sublime. Standogli vicino ho imparato molto, è stata una fantastica lezione di vita, ho imparato da lui a vivere il "qui" e l’ "ora". Alla fine, tutto questo ha trovato la sua naturale collocazione nel tipo di scrittura della Cotogna di Istanbul.

Per cui il fatto che Maša Dizdarević vive la sua più bella storia di amore nel suo ultimo anno di vita, sapendo di essere condannata per la "malattia del secolo", si intreccia a una realtà che ho vissuto. Stare accanto a Paolo, che aveva i giorni contati e che ha vissuto nei suoi ultimi mesi di vita delle esperienze intensissime, amicizie meravigliose, incontri importanti… ha accelerato molto la mia determinazione a chiudere la storia della Cotogna di Istanbul. Per raggiungere una specie di armistizio con una parte del mio passato.

Maša ha "occhio tartaro e femori lunghi" ed è "testa dura come una partizanska e volitiva come una bosgnacca". Per come vengono descritti gli uomini e le donne, il libro pare un’ode alla figura femminile dei Balcani…

Non a caso Maša ha tante sorelle. Sì, questo aspetto l’ho sicuramente trovato nei Balcani. Ho cioè trovato donne molto migliori degli uomini… come anima non c’è paragone! Sebbene non penso sia una caratteristica solo di questa regione. Un po’ in tutto il mondo, dove si hanno delle dittature o dove c’è stata una forte presenza ideologica, oppure dove c’è una profonda instabilità politica, l’uomo crolla. L’uomo si rivela miseramente per quello che è… ed emerge la donna. Ma questo vale in Russia, come in Sudamerica. Il mondo si regge sulla donna.

Con la Cotogna di Istanbul torniamo a Sarajevo, città di cui Maša dice "da nessuna parte puoi capire meglio il destino d’Europa". Cos’è la Bosnia oggi e quale significato ha per l’Europa?

Non posso che dire oggi quello che dicevo vent’anni fa. Cioè che è un luogo, simbolo di incontro, infinitamente più importante di Gerusalemme. E proprio per questo è stato attaccato, come è accaduto.

E’ un luogo al quale io sono profondamente legato. Nonostante gli stupri che ha subìto e le tante semplificazioni, nonostante la parte di fantoccio che gli è stata appiccicata addosso, nonostante il fatto che non so quanti "briganti" sono ancora in circolazione e passeggiano sulle stesse strade in cui viaggiano le vedove delle loro vittime… Nonostante tutto questo è un luogo che – e ciò mi colpisce profondamente – ha la capacità di rinascere diverso ma per certi aspetti uguale.

In che senso?

C’è un passo del libro che credo possa chiarirlo. Siamo alla fine della storia, quando Max (Maxilimian von Altenberg) il protagonista, incontra Duško Todorović, il primo marito di Maša, che sta pulendo la tomba di lei. Duško vive in una casa che non ha finestre verso l’esterno ma soltanto un impluvio di luce verso l’interno. Questa casa è la rappresentazione, il riassunto in sedicesimi, di ciò che è Sarajevo.

Cioè una città che non guarda verso le montagne ma verso il fiume, conchiusa in se stessa, in cui anche nella tradizione culinaria trovi questa forma autoreferenziale della città. Una città che contempla se stessa e riproduce all’infinito i propri riti, ignorando e non capendo quello che accade sulle montagne. Infatti, fino all’ultimo Sarajevo ha affrontato con totale incoscienza qualcosa che le sembrava impossibile.

I protagonisti del libro stanno al centro del triangolo Vienna – Sarajevo – Istanbul. Un intreccio geografico e di culture che abbiamo trovato in altri suoi libri…

Non è un discorso geopolitico. Avviene semplicemente perché il mondo turco è arrivato fino a Vienna. Ed è turca la parola di fondo che unisce il tutto: sevdah. Cioè innamoramento, malinconia. E’ il centro di tutto, lì vi è la soluzione… Quando alla fine, morta Maša, Max va a Istanbul per cercare cosa gli è successo. Ed è lì che trova l’ultimo senso di questa parola di sei lettere. Sei lettere, come sei sono i numeri della cifra incisa sul bracciale di ottone che Maša indossa…

184509. Il bracciale della persona a cui il numero appartiene e a cui ha dedicato il libro…

Sì, esatto.

"La gialla cotogna di Istanbul" è la sevdalinka, il canto con cui Maša strega Max in un ristorante di Sarajevo. "Cantò nella sua lingua la struggente tristezza dei distacchi che i balcanici adorano ogni tanto condividere con chi accetta di bere assieme a loro". Una nostalgia che appartiene oggi anche all’autore?

Paolo Rumiz firma copie del libro al Festival della Mente di Sarzana 2010 (foto di Francesco Fossa)

Paolo Rumiz firma copie del libro al Festival della Mente di Sarzana 2010 (foto di Francesco Fossa)

Sì, è una nostalgia nei confronti delle persone che ho conosciuto. E’ la nostalgia nei confronti di un mondo che mi ha rapito, che porto per sempre nel cuore, un mondo che amerò sempre. E la sevdah racchiude la mia propensione a cercare questo tipo di musiche, questo tipo di mondo.

Mi sento molto balcanico in questo, cioè molto orientale. Mi piace la malinconia… fa parte dell’amore, dell’attaccamento ai luoghi, fa parte del senso della vita. E’ un “sentire” che non viene cancellato dal continuo “sghignazzare” che sento oggi rimbombare soltanto in occidente.

Ho bisogno di toni lievi, del suono del flauto solitario in una cripta o in un luogo desertico. Viviamo in un mondo di frastuono e di volgarità… Sembrerà incredibile ma in un luogo che ha espletato il peggio della barbarie di fine secolo, la Bosnia, ho trovato invece la raffinatezza più assoluta nell’espressione di questi sentimenti.

Quali sono i prossimi viaggi, reali o immaginari, di Rumiz scrittore-viaggiatore?

Non posso continuare a fare il giovanotto in eterno… Quello che credo  importante è ascoltare il flusso della vita. Comincia ad avvicinarsi il tempo in cui dovrò sedermi sull’uscio di casa e ascoltare in sostanza “le vie dei canti”… Quindi conoscere le storie del mondo da quelli che passano davanti alla porta di casa mia.

Anche questa è una delle caratteristiche magnifiche di Sarajevo: piena di piccoli artigiani che avevano la bottega sulla strada e da cui non si muovevano mai, eppure possedevano una profonda saggezza e una grande conoscenza del mondo e di tutto quello che succedeva in città. Senza mai spostarsi! Ricordo che discussi a lungo con un artigiano di Baščaršija (ndr: quartiere turco, nel centro di Sarajevo) al quale dicevo che solo l’uomo che viaggia può capire il mondo. Lui mi rispose: "Come la metti che mio nonno, che non si spostava mai di qua, mi raccontava delle storie belle come le tue?". E io gli rispondevo: "Ma tuo nonno dove aveva la bottega? Sulla strada!".

Ecco: allora la strada raccontava molto più di oggi. Oggi la strada non ha più i bei umori, i bei canti, non passano più le carovane e i racconti… passano macchine veloci e tutto è molto più difficile. Però credo lo stesso nella capacità della "strada" di dire delle cose, persino nell’ultimo dei non luoghi. Andando oltre allo schiamazzo di quest’epoca, persino nella hall di un motel puoi arrivare all’“uomo”.

L’elemento di fondo del libro era il mio forte desiderio di dire quanto ho amato questi luoghi…non scriverlo mi sembrava un reato. Anche se la scrittura è un po’ un tradimento, perché come ho già detto il racconto orale è di gran lunga superiore alla scrittura. Ma avevo bisogno di mettere nero su bianco il fatto che per un lungo periodo della vita, e ancora oggi, sono rimasto attaccato a quel luogo dell’anima. Per me la Bosnia è questo.

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