Ucraina: l’illusione di un ritorno alla normalità

La guerra continua in Ucraina eppure, in alcune aree del paese, si tenta un ritorno alla normalità. Illusioni che i bombardamenti russi costantemente infrangono

06/07/2022, Claudia Bettiol -

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Chernihiv nei pressi di Kiev, primavera 2022 - MAKSYM CHUB/Shutterstock

(Quest’articolo è stato pubblicato in collaborazione con Meridiano13 )

Le orribili realtà disumane di oggi, causate dall’aggressione russa su vasta scala iniziata lo scorso 24 febbraio, costringono gli ucraini non solo a sopravvivere, ma a mostrare massima concentrazione, resilienza emotiva e coraggio per difendere la loro terra dagli occupanti russi. Eppure, è molto difficile rendersi conto, e soprattutto accettare, che una vita pacifica e prospera in un paese libero e democratico (per quanto imperfetto) si sia trasformata in sopravvivenza, spesso dettata da condizioni estreme, sia fisiche che psicologiche. E il trauma psicologico, spesso sottovalutato e mal compreso, è ben duro da affrontare, in patria come altrove.

Ogni giorno, i residenti delle città e dei villaggi di tutta l’Ucraina affrontano una varietà di situazioni complesse e inaccettabilmente insolite che sconvolgono il loro normale stile di vita: suoni acuti delle sirene che sostituiscono i rumori della natura, uccisioni e feriti a causa di missili e bombe a grappolo, distruzione di case e infrastrutture industriali, esplosioni e spari, strade e parchi minati; a tutto ciò si aggiungono una vita lavorativa e familiare destabilizzata (famiglie divise perché gli uomini dai 18 ai 60, che non possono lasciare il paese, sono al fronte o arruolati nella difesa territoriale) e la ricerca di una nuova routine che segue il tempo della guerra. Una nuova “normalità” che molti devono costruirsi lontano dalla propria casa (che, se si è fortunati, è ancora in piedi), dai propri cari e, spesso, dalla propria terra.

Quando è iniziata l’invasione russa su larga scala, lo scorso 24 febbraio, la maggior parte di noi (perché la cerchia comprende, inevitabilmente, non solo gli ucraini ma tutti quelli che vivevano e vivono nel paese, dagli expat alle minoranze nazionali) ha perso il senso di sicurezza, ha perso il luogo in cui poteva respirare e sentirsi a proprio agio, “a casa”. Alcuni sono andati in luoghi più sicuri all’interno dei confini nazionali (prevalentemente a ovest), alcuni sono partiti per l’estero, altri sono invece rimasti dov’erano, in luoghi più o meno “sicuri” ma dove hanno comunque perso la familiare sensazione di casa. Coloro che negli ultimi mesi sono riusciti a trovare il loro “riparo” altrove, fosse anche solo un nuovo tetto sopra la testa, non sempre però sono riusciti a trovare una nuova “dimensione”. Perché, in fondo, non sono solo le pareti e il soffitto a farti sentire “a casa”, ma è anche una condizione di equilibrio e pace interiore. Una pace che è andata perduta per sempre quel maledetto 24 febbraio.

Molte di quelle persone che sono partite o hanno lasciato la loro dimora, ora stanno pensando di tornare in patria, anziché ricostruire la propria vita in un posto nuovo ed estraneo, aspettando che tutto si sistemi al più presto o forse sperando di risvegliarsi da un bruttissimo incubo. Per molti il ​​sogno di tornare a casa, alla vita di prima, significa ritornare al 23 febbraio. Per altri, addirittura, riavvolgere il tempo di otto anni e tornare all’inizio 2014, in uno stato di pre-guerra totale. Eppure, le cose non saranno mai più come prima. Anche il tempo, ora, viene scandito in maniera diversa: se prima il riferimento temporale degli ucraini era il pre e post-Majdan, ora è il pre e post 24 febbraio.

I tentativi di normalità di Kyiv

Nonostante l’intensità dei combattimenti nelle regioni orientali del paese, fino a poco più di una settimana fa nella capitale ucraina erano spuntati i segni di una nuova normalità. Una quasi-normalità andata nuovamente in frantumi con la ripresa degli attacchi missilistici russi nella capitale proprio in concomitanza della tenuta del G-7 .

Dopo il 9 maggio (giorno della vittoria, in cui si temeva un altro attacco su vasta scala nella capitale), la vita sembrava stesse tornando a ritmi quasi standard a Kyiv: i parchi non erano più vuoti, metropolitana e trasporti pubblici assicuravano i loro nuovi itinerari, mentre negozi, caffè e ristoranti erano di nuovo aperti seppur con orari ridotti a causa del coprifuoco ancora in vigore (dalle 23 alle 5) e della mancanza di personale (molti dipendenti sono fuggiti o si sono arruolati nelle forze armate). Addirittura, le barricate in centro e i posti di blocco anticarro erano stati spostati sui marciapiedi, pronti a essere dispiegati solo in caso di necessità, mentre la maggior parte delle persone iniziava a ignorare il suono abituale delle sirene antiaeree, abituandosi a una nuova quotidianità. Solo i sacchi di sabbia avvolgevano ancora le entrate delle stazioni della metropolitana e i monumenti simbolo della città.

E che dire, poi, del traffico: Kyiv era di nuovo “viva” con i grandi boulevard a fare di nuovo i conti con imbottigliamenti e clacson di autisti spazientiti; si tornava, insomma, al tran-tran delle ore di punta. Gli scaffali vuoti dei supermercati della capitale avevano cominciato a riempirsi già alla fine di marzo: da un lato, l’accaparramento dei beni era diminuito, dall’altro erano riapparsi i prodotti locali ucraini – dai dolciumi alla carne fresca e ai latticini.

Erano state revocate anche le restrizioni legate alla legge marziale: dal 2 giugno è consentita la vendita di bevande alcoliche, vietata per più di un mese, ma solo dalle 11 alle 19. Ogni giorno, inoltre, le autorità annunciano dove si svolgono i piccoli mercati in tutta la città, in cui è possibile acquistare patate, verdure e altri prodotti alimentari. Per i contadini, però, il viaggio verso il centro è spesso travagliato: ci vogliono due ore per raggiungere la riva destra del fiume Dnipro a causa delle code sui ponti e dei posti di blocco tra le due sponde.

La popolazione, tuttavia, non aveva smesso di parlare della crisi della carenza di carburante e dei suoi prezzi elevati, nonché delle lunghe code davanti alle poche stazioni di servizio attive, così come di un possibile crollo della moneta ucraina, la hryvnja, e di come tutto questo abbia portato a un’impennata record dei prezzi di molti generi alimentari, beni e servizi. A questo si aggiungeva il fatto che molti beni importati sono assenti dagli scaffali dei negozi a causa della chiusura dello spazio aereo e dei porti.

“La vita sta tornando piano piano” aveva dichiarato ancora a maggio il sindaco di Kyiv , Vitalij Klyčko. “Si vedono molte più persone in giro. Non possiamo vietare loro di tornare, ognuno decide da solo”. Ma aveva aggiunto anche che la priorità restava la sicurezza e, nelle vesti di primo cittadino, affermava di non poterla garantire “perché ogni secondo, ogni minuto un razzo russo può colpire un condominio”. Quindi, chi decideva di tornare, lo fa a proprio rischio e pericolo.

Poi i nuovi bmbardamenti. La situazione a Kyiv è ora paragonabile a quella che esisteva durante il primo lockdown della pandemia di covid-19: le strade sono notevolmente più tranquille, ma la gente tenta comunque di continuare a vivere la propria vita come prima. Ogni giorno si assiste a enormi contrasti tra l’apparenza di normalità e la realtà della guerra in corso. Una realtà dalla quale non si può fuggire perché tutto la ricorda a ogni istante: sono in molti ad avere ancora paura di un ritorno delle truppe russe in città o di un assedio terribile come quello di Mariupol’, che ora si sta ripetendo anche nel Donbas, con la presa di Sjevjerodonec’k.

Qualche settimana fa il numero di allarmi aerei aveva iniziato a diminuire con il ritiro delle truppe russe dalla regione di Kyiv, solo nelle zone periferiche della città si potevano ancora sentire molti spari, ma non a causa dei combattimenti, bensì delle esercitazioni da parte delle forze di difesa locali nei boschi vicini. Ma non c’è bisogno di allontanarsi troppo dalla città nemmeno per trovare squadre militari ucraine che disinnescano mine e altri ordigni esplosivi lasciati dalle forze russe: è un triste promemoria del fatto che la guerra è tutt’altro che finita.

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