Tuzla, la stazione sulla rotta balcanica
La Bosnia Erzegovina si sta lentamente convertendo in una zona-cuscinetto per i migranti. La situazione a Tuzla è al limite dell’emergenza. Lo scaricabarile istituzionale per fortuna è compensato efficacemente dagli attori della società civile locale. Ancora per quanto?
L’ampia e caotica distesa di tende, coperte, borse, oggetti personali compare all’improvviso: in quel punto la Bosne Srebrene, uno dei principali viali di Tuzla, compie un rettilineo e normalmente si percorre a buona velocità. Nel piazzale davanti alle stazioni di autobus e treni si contano circa venti tende e più o meno altrettante si trovano all’interno nella piattaforma dei binari. Qui i migranti in transito si fermano il tempo necessario prima di riprendere il viaggio verso Sarajevo, proseguire verso Bihać, Velika Kladuša e infine tentare “the game”, il gioco, come è ironicamente definito il tentativo di superare la frontiera Bosnia-Croazia per raggiungere l’Unione europea. Alla stazione di Tuzla le condizioni igieniche e ambientali, in assenza di una struttura riparata per affrontare il rigido inverno pannonico, sono di estrema precarietà. Qualche giorno prima, hanno avuto un certo risalto sui media bosniaci alcune foto di migranti che si lavavano a secchiate in mezzo alla neve sui binari abbandonati.
È primo pomeriggio, diluvia come un temporale estivo ma la temperatura è quella tipica di inizio febbraio. Decine di persone – quasi tutti uomini e molto giovani – sono in fila davanti al banco di Merhamet, una delle associazioni operanti nel campo, che sta distribuendo i pasti caldi. I volontari ci mostrano la tabella con le firme e l’età dichiarata: in massima parte sono tra i 17 e i 25 anni. “La maggior parte si ferma due, tre giorni. Ma alcuni sono qui da più a lungo, anche due o tre mesi”, ci spiega Zijad Dardagan, coordinatore di Merhamet a Tuzla.
Secondo Dargadan, i migranti e rifugiati che passeranno la notte qui sono “circa 280“, una cifra vicina al massimo raggiunto in passato e circa il doppio della media di quest’inverno. Il totale di quelli che si trovano attualmente nella città di Tuzla e zone limitrofe, che include coloro che dimorano nei parchi, nelle case abbandonate e in strutture coordinate dalle associazioni, potrebbe aggirarsi “tra i 400 e i 500”, principalmente provenienti da Afghanistan e Pakistan, ma anche da altri paesi. Sono dati da confrontare con l’ultimo rapporto UNCHR , secondo cui migranti e rifugiati in Bosnia Erzegovina nel dicembre 2019 erano 7.141, di cui solo 350 nei cantoni di Tuzla e Mostar messi insieme. Quelle di Tuzla restano cifre del tutto indicative: non esistendo campi ufficiali, vengono stimate incrociando gli unici dati disponibili, cioè la lista delle firme raccolte dalle associazioni per distribuire i pasti e le registrazioni effettuate presso l’Ufficio stranieri di Tuzla, che rilascia un documento provvisorio. La situazione è estremamente fluida: a seconda delle condizioni meteo e di quello che succede alle frontiere la mobilità si arresta o riprende.
Tuzla, al limite dell’emergenza
Tuzla è uno snodo nevralgico della rotta balcanica. È il primo grande centro urbano che le persone in transito trovano in Bosnia Erzegovina, dopo avere attraversato il confine dalla Serbia nell’area tra Bijeljina e Zvornik. “Là non c’è quasi nulla, sono solo alcune persone che aiutano spontaneamente lungo la strada, ma niente di organizzato. In Bosnia orientale questo è il primo luogo dove c’è una parvenza di struttura. La gente arriva qui stanca e affamata. Chiede un riparo, una tenda”, spiega Dardagan. È noto che l’attenzione di stampa e organizzazioni internazionali attorno alla rotta in Bosnia Erzegovina non è all’altezza della gravità della situazione; ma quando vi è, si concentra per lo più su quanto accade alla frontiera Bosnia-Croazia, per motivi anche comprensibili: le presenze maggiori, la militarizzazione del confine, i respingimenti violenti. Di Tuzla si parla molto poco, anche se i numeri non sono così trascurabili e media indipendenti, attivisti e operatori umanitari da tempo segnalano che la situazione in città si trova al limite dell’emergenza.
L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM/IOM) , che in Bosnia Erzegovina attualmente tiene aperti sei campi di accoglienza temporanea – quattro nel Cantone di Bihać, due nel cantone di Sarajevo – non sembra intenzionata ad aprire una struttura a Tuzla. Dargadan ci spiega che rappresentanti OIM hanno visitato la stazione più volte e incontrato le associazioni sul posto, “ma la loro posizione è che finché non sono le autorità statali o locali a prendere l’iniziativa, loro non possono fare nulla”.
Nel novembre scorso il governo statale e quello della Federazione di Bosnia Erzegovina (una delle due entità che compongono lo stato) avevano deciso di installare un centro presso la vecchia caserma di Ljubače, villaggio a circa nove chilometri a sud-ovest dal centro città. Il comune di Tuzla e altri enti locali protestarono con forza contro quella che denunciarono come un’“imposizione” dei livelli di governo più alti e fecero saltare l’operazione. “C’è stata una serie di []i degli organi statali nella protezione delle frontiere. La Bosnia Erzegovina si sta lentamente convertendo in una zona-cuscinetto per i migranti. I governi dello stato e dell’entità ora non hanno una risposta adeguata a questa crisi. Queste persone [i migranti] si muovono più liberamente di noi”, fu la dura presa di posizione di Jasmin Imamović, sindaco di Tuzla in carica dal 2001 e membro del Partito socialdemocratico (SDP). Anche qui si ripropone quel tipico loop di scaricabarile tra i livelli globale, nazionale e locale che si rimpallano i compiti amministrativi, legali e morali della vicenda. Ciascuno ha la propria pesante parte di responsabilità nell’evitare il coordinamento con l’altro e nell’allontanare la soluzione ai problemi.
Società civile locale
Se la crisi umanitaria è stata contenuta, lo si deve alla mobilitazione della società civile locale. Sono numerose le organizzazioni coinvolte nella gestione degli aiuti, che abbracciano religioso e laico, umanitario e politico, sociale e privato: dalla musulmana Merhamet alle cattoliche Emmaus e Caritas, la Croce Rossa, i sindacati, le associazioni di quartiere, singoli volontari e attivisti, esercizi commerciali. Si creano soluzioni per l’alloggio e reti di ospitalità per famiglie, soggetti vulnerabili, donne incinte, bambini, malati.
A gennaio la ong Pomozi.ba ha preso in gestione il Man, un hotel in disuso fuori città, convertendolo in un centro di accoglienza temporanea con 72 posti, mentre alla stazione la Croce Rossa garantisce il presidio medico; Caritas e Merhamet coordinano insieme i servizi di pasti, docce, servizi igienici, lavanderia; il gruppo Facebook dei Tuzlanski Volonteri (Volontari di Tuzla) gestisce la raccolta di scarpe e vestiti, mentre diverse panetterie, macellerie e ristoranti, anche da fuori città, donano scorte alimentari e pasti pronti. Inoltre, come riportano diversi osservatori, i volontari della stazione apportano un fondamentale aiuto psicologico, semplicemente parlando con loro, ascoltandoli e coinvolgendoli nella vita sociale.
In altre parti della Bosnia Erzegovina, o in altri livelli di potere, si sono manifestate espressioni di intolleranza e ostilità contro i migranti. Il tessuto sociale della città, il “modello Tuzla ” tante volte evocato negli anni Novanta sembra invece reggere, fedele alla lunga tradizione di lotte sociali, auto-organizzazione, antifascismo, comunanza di culture. “Non ci sono reazioni negative, non si è mai arrivati a incidenti, dal basso è arrivata solo solidarietà”, ci tiene a sottolineare Dardagan.
Reggerà, ma per quanto? Le condizioni materiali e psicologiche delle persone in transito a Tuzla appaiono al limite. È facile prevedere, e Dardagan ne è sicuro, che il loro numero crescerà di molto con il terminare della stagione fredda. La sospensione della linea ferroviaria Tuzla-Doboj in atto dal 15 dicembre scorso, ufficialmente motivata per “assenza di mezzi ferroviari” da parte ferrovie della Republika Srpska (l’altra entità della Bosnia Erzegovina) e in passato molto utilizzata dai migranti per muoversi verso Bihać, sta accentuando la situazione di stallo attorno alla stazione.
Il governo statale che si è insediato da poco a Sarajevo, una coalizione modello “tutti-dentro” tra i principali partiti nazionalisti del paese, non sembra avere né la volontà politica, né gli interessi comuni, né le competenze per affrontare le questioni. Si resta quindi nel reciproco limbo di sempre: da una parte la “provvisorietà senza fine” (magistrale definizione di Aleksandar Trifunović) in cui sono bloccate le istituzioni della Bosnia Erzegovina, dall’altro la “transitorietà permanente” delle persone impigliate negli scaricabarili continentali e nazionali della rotta migratoria. Nemmeno dal “modello Tuzla” si vede, al momento, una via d’uscita.