Turchia, voglia d’Africa
Negli ultimi anni l’interesse della Turchia verso il Continente nero è cresciuto rapidamente. Un interesse multidimensionale, fatto di imprenditoria, diplomazia, logistica, educazione, intervento sociale e filantropia. Anche le aspettative africane nei confronti di Ankara sono oggi estremamente alte, come dimostra il caso Somalia
Imprenditoria, diplomazia, logistica, educazione, intervento sociale e filantropia. Si potrebbe sintetizzare così la formula su cui si regge l’interesse politico ed economico della Turchia in Africa, definita dal premier Tayyip Erdoğan quale “area della più importante collaborazione strategica del XXI secolo”. La visita tra il 6 e l’11 gennaio scorsi, con più di trecento uomini d’affari a seguito del premier e di altri rappresentanti del governo turco in Gabon, Niger e Senegal, è l’ultima manifestazione dell’attenzione turca nei confronti dell’Africa subsahariana.
Sebbene le radici della strategia turca di “apertura all’Africa” affondino al 1998, ancora prima del governo del Partito della giustizia e sviluppo (AKP), il vero avvio dei rapporti della Turchia con l’Africa subsahariana è avvenuto nel 2005 con la proclamazione dell’“anno dell’Africa” e le visite di Erdoğan in Sud Africa e Etiopia. Da quel momento i contatti hanno subito un’accelerazione su più livelli. Nel 2008 L’Unione africana ha fatto della Turchia “un partner strategico”, Ankara è diventata anche un membro della Banca africana di sviluppo, per poi organizzare il primo vertice della Cooperazione turco-africana che ha visto la partecipazione di 53 paesi.
Il volume degli scambi commerciali tra la Turchia e l’Africa ha registrato un aumento di 15 miliardi di dollari nel giro degli ultimi dieci anni passando da 2 a 17. Una cifra ancora modesta, considerati i 389 miliardi cui ammonta il volume complessivo del commercio del paese, ma che Ankara intende elevare a 50 per il 2015.
Scambi commerciali, ambasciate e nuovi voli
Per quanto riguarda specificamente il corno d’Africa e l’Africa subsahariana, le imprese turche mirano principalmente a concludere contratti commerciali, effettuare investimenti redditizi e aumentare l’esportazione dei propri prodotti. Data la crisi dei mercati europei, le società cercano in questo nuovo sbocco geografico un’alternativa per la commercializzazione dei propri prodotti. Nel mercato africano le merci turche (materiali edilizi, agroalimentari, sanitari, tessili, prodotti chimici, tecnologie per l’informazione, macchinari, elettrodomestici, mobili e altro ancora) sono ritenute di qualità migliore rispetto a quelle cinesi e molto più a buon mercato rispetto ai prodotti realizzati in Europa. Tra i beni principali che la Turchia importa a sua volta dall’Africa si trovano invece petrolio, materie primarie, oro e minerali.
Accodandosi alla Cina, al Brasile e all’India, la Turchia mira a sostenere i nuovi rapporti commerciali con l’Africa attraverso un continuo potenziamento della rete diplomatica. Solo tra il 2009 e il 2011 sono state inaugurate 15 rappresentanze. Nel 2012 sono state aperte le ambasciate di Gabon, Burkina Faso, Niger, Namibia, Ciad e Guinea, mentre nel 2013 se ne aggiungeranno altre tre, portando così a 34 il numero delle ambasciate turche attive nel territorio africano.
Nello sviluppo di traffico e contatti la Turkish Airlines funziona come il principale vettore logistico. In più di un’occasione sono stati gli stessi imprenditori a insistere per inserire nuove città africane tra le destinazioni della compagnia (a partecipazione statale per il 49%). Attualmente sono 34 le destinazioni in 22 paesi e nuove rotte sono state annunciate per il 2013.
Il ruolo di TUSKON e Gülen
Attore in prima linea dell’espansione economica turca in Africa è la Confederazione degli industriali e imprenditori (TUSKON), sigla che dal 2005 riunisce la nuova classe di imprenditori diventati economicamente potenti durante il governo dell’AKP. La confederazione opera essenzialmente nelle maggiori città anatoliche, accumula i propri capitali attraverso l’esportazione e opera principalmente nei mercati esteri.
La TUSKON è nota anche per essere in stretti rapporti con il potente movimento del teologo ed ex imam Fethullah Gülen, conosciuto altrimenti come “Hizmet” (Servizio). Un movimento che ha come punto di partenza l’Islam ma si articola in un network dove si intrecciano il mondo degli affari, media, fondazioni, ONG (ad esempio la “Kimse Yok Mu?”, attiva anche in Africa). Nel progetto di Gülen l’educazione occupa una posizione centrale ed è operativa in una rete di scuole distribuite in più di 70 paesi tra cui anche diversi stati africani. In Africa il movimento ha oggi 34 scuole e non solo nei Paesi a maggioranza musulmana.
Soft power alla turca
L’ampliamento delle relazioni turco-africane sono per Ankara anche un modo di affermare la propria posizione di potenza regionale, estendendo la propria aerea di influenza. Nel fare ciò non mancano i riferimenti all’epoca ottomana utilizzati soprattutto in contrapposizione al passato coloniale dei Paesi occidentali (o “neo-colonialisti” come la Cina ad esempio).
“L’interesse di Ankara per l’Africa”, ha affermato Erdoğan a Niamey durante la sua ultima visita, “si oppone a quello dell’Occidente” perché la Turchia “non segue una logica colonialista che favorisce una sola delle parti, ma vuole stabilire una collaborazione duratura fondata sul rispetto e sull’utilità reciproci” e “quando guarda l’Africa non vede i diamanti, l’oro, i minerali e le ricchezze sotterranee, ma la storia comune, l’amicizia e la fratellanza”. Una visione che sembrerebbe condivisa dai dirigenti degli stati subsahariani che considerano la Turchia un paese islamico moderno e modernizzatore, un “modello per il mondo musulmano”, come l’ha definita il presidente del Niger Mohamed Youssoufou.
Ma rafforzare i legami politici è importante per la Turchia anche per ottenere il supporto di 54 stati che costituiscono più di un quarto dei membri delle Nazioni Unite. Nel periodo 2009-2010 la Turchia è stata infatti eletta membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU proprio grazie ai voti africani. La questione di Cipro, la lotta al t[]ismo, alla pirateria, le dispute commerciali all’Organizzazione mondiale del commercio sono indicati dagli analisti come altri validi motivi che spingono la Turchia a tessere relazioni più strette con gli stati africani.
La filantropia fondata sui valori “islamici” e gli aiuti monetari elargiti per lo sviluppo di alcuni paesi africani rappresenta un soft power potente della politica estera turca. Tanto per cominciare, ogni anno centinaia di borse di studio vengono date agli studenti africani perché possano frequentare le università turche. Ankara cerca di coordinare questi aiuti attraverso l’Agenzia turca per la cooperazione internazionale e lo sviluppo (TİKA), presente nel territorio africano in otto centri che seguono progetti in 37 Paesi diversi.
Negli ultimi cinque anni la Turchia ha donato a paesi africani aiuti di diversi milioni di dollari anche attraverso organizzazioni internazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità, il Programma mondiale dell’alimentazione e la Mezzaluna Rossa. Per la crisi in Darfur sono stati offerti 60 milioni di dollari, anche se il governo turco ha preferito adottare la politica del silenzio passivo rifiutandosi di definire gli eccidi come “genocidio”.
Il caso Somalia
Nel 2011 durante la carestia in Somalia sono stati donati 250 milioni di dollari (raccolti in buona parte attraverso le donazioni dei cittadini). Circa 200mila somali sono stati curati negli ospedali da campo turchi, mentre 400 studenti sono stati inviati in Turchia per ricevere un’istruzione religiosa dal Direttorato degli affari religiosi. Il governo turco ha anche inaugurato un ospedale con 400 posti letto e comunicato l’intenzione di fornire dei furgoni per la raccolta della spazzatura, di scavare dei pozzi d’acqua, migliorare l’agricoltura, di adibire una discarica per i rifiuti e di costruire un’autostrada tra il centro di Mogadiscio e l’aeroporto.
Erdoğan ha poi cercato di trovare un soluzione permanente alla fame e alla crisi del paese portando la questione all’attenzione delle Nazioni Unite, nominando un nuovo ambasciatore a Mogadiscio ed ospitando a Istanbul due conferenze sulla Somalia organizzata assieme all’ONU. A tutt’oggi resta ancora da consolidare la pace e ricostruire lo stato: le attese somale nei confronti della Turchia sono però incredibilmente alte.
Troppe promesse?
Proprio la Somalia è indicata dagli analisti come la chiave di volta per vedere se la Turchia riuscirà a tessere solidi legami nel continente. Ma l’ex diplomatico turco Sinan Ülgen sulle pagine del Financial Times avverte: “Il più grande pericolo per la Turchia è promettere più di quanto non possa mantenere. La sua economia da 800 miliardi di dollari non può competere né con le risorse di Bruxelles, né con quelle di Pechino”.
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa.