Turchia, scure del governo sull’università
Nella Turchia post-golpe continuano negli atenei licenziamenti ed espulsioni di massa, che non risparmiano nomi eccellenti. Una situazione che sta portando le università al collasso
Il mondo accademico turco è entrato in coma. L’ultima ondata di espulsioni, conseguenza del decreto legge (n. 686) del 7 febbraio scorso, ha inflitto alle università turche uno dei colpi più duri dal fallito golpe del 15 luglio 2016. Trecentotrenta accademici sono stati aggiunti alla lista degli oltre 4400 docenti radiati nei mesi scorsi, una misura tra tante messa in atto nella “lotta al t[]ismo” nel quadro dello stato di emergenza dichiarato il 21 luglio scorso. Il provvedimento ha coinvolto 48 università, ma il numero più alto di licenziamenti si è avuto all’Università di Ankara, seguita dalla Marmara e dalla Yıldız di Istanbul e dalla Anadolu di Eskişehir.
La scure sul mondo accademico
All’ateneo di Ankara – dove vi sono state 78 espulsioni – le Facoltà di comunicazione (ILEF) e quella di lingue, storia e geografia (DTCF) sono state decimate. Il Dipartimento di teatro, afferente al DTCF, rischia la chiusura perché non ci sono più professori ordinari e associati. Ma anche le Facoltà di medicina, di pedagogia e, in particolare, quella di scienze politiche sono state colpite dalla purga. Che non ha risparmiato nemmeno docenti di grande fama e ultraottantenni come la professoressa Öget Öktem Tanör, che per prima ha introdotto la neuropsicologia in Turchia.
A Scienze politiche, la rinomata Mülkiye di Ankara, che a ottobre era già stata privata di sei professori, sono stati licenziati altri 23 docenti, tra cui il noto politologo e analista Murat Sevinç. Numerose lezioni sono state annullate, gli studenti lasciati allo sbando e decine di tesisti sono rimasti senza relatore.
Secondo le autorità turche, le purghe nel mondo accademico sono giustificate dal legame tra i docenti espulsi e il movimento di Fethullah Gülen – imam e magnate residente negli Stati Uniti – che secondo Ankara avrebbe organizzato il tentato golpe del 15 luglio scorso. Le espulsioni di presunti docenti gülenisti, condotte senza fornire alcuna spiegazione della modalità con cui sono stati individuati, da settembre hanno iniziato ad includere accademici sindacalizzati e di aperte posizioni politiche di sinistra, dunque lontani anni luce dalle posizioni güleniste.
Nella lista dei licenziamenti sono finiti anche 312 – sugli oltre 1100 – dei cosiddetti “docenti per la pace”, che nel gennaio 2016 avevano firmato una dichiarazione per chiedere allo stato turco di interrompere le operazioni militari nel sudest a maggioranza curda del paese. Un gesto che già da tempo li aveva messi al centro di pesanti attacchi da parte dei politici e di mobbing nel contesto lavorativo.
Licenziamenti eccellenti
Tuttavia gli ultimi licenziamenti, soprattutto per il peso intellettuale di alcuni tra i docenti colpiti, sembrano aver creato un certo imbarazzo anche tra alcuni esponenti del governo. Il vicepremier Nurettin Canikli ha affermato che sono state sollevate critiche anche da parte di membri del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) al governo e che le liste di espulsione sarebbero state presto re-inviate all’Istituto superiore di istruzione (YÖK, l’ente statale che amministra il sistema universitario) in modo da correggere gli “[]i”.
Tuttavia lo YÖK ha negato di aver avuto parte nella compilazione delle liste, attribuendo tutta la responsabilità ai rettori delle università, mentre questi ultimi – almeno quelli che hanno voluto rilasciare dichiarazioni – hanno confermato alla BBC turca di aver stilato le liste di licenziamento in accordo “con i servizi di intelligence pertinenti”. Nelle liste sarebbero stati aggiunti anche “gli accademici per la pace” perché il testo da loro sottoscritto rappresenterebbe “di per sé” un criterio di espulsione. Un concetto ribadito anche dal presidente Recep Tayyip Erdoğan secondo cui “è ovvio” che docenti e professori che si adoperano per dividere la Turchia “debbano pagare un prezzo”. Una dichiarazione che indica la sintonia tra lo stesso presidente e alcuni rettori – che sembra diventata ancora più forte negli ultimi tempi – anche in considerazione del recente decreto legge che affida in modo esclusivo al capo di stato la loro elezione.
Per il professor Yüksel Taşkın, uno dei 20 “accademici per la pace” radiati dal rettore dell’Università di Marmara, non ci sono dubbi sulla politicità della decisione di espellerli. “Secondo le leggi in vigore solo quattro accademici per la pace risultano essere sotto processo, ma anche nel loro caso l’accusa di t[]ismo è stata ritirata. Ora come ora le università giocano a fare i magistrati più della stessa magistratura”, ha commentato Taşkın.
Un altro docente della stessa università, il noto professore di diritto costituzionale İbrahim Kaboğlu che non è potuto partire per una conferenza alla Sorbona di Parigi perché si è visto annullare il passaporto assieme agli altri colleghi espulsi, sottolinea a sua volta che la decisione presa “è formalmente contraria alla costituzione”. Questo perché, sebbene il decreto-legge sia stato approvata durante il consiglio dei ministri del 2 gennaio scorso, la lista delle espulsioni – che avrebbe dovuto essere stilata contestualmente alla decisione – risulta essere stata allegata oltre un mese dopo. Ne risulta che “il consiglio dei ministri non conosceva quali persone sarebbero state espulse. La decisione è stata presa a livello di principio, ma i nomi dovevano essere ancora aggiunti”, spiega Kaboğlu.
Espulsioni ieri, espulsioni oggi
L’ottantenne marxista Korkut Boratav, emerito professore di economia all’Università di Ankara, fu licenziato dopo il golpe del 1980, assieme ad altri 147 accademici. Ma quelli che tra di loro presentarono ricorso – incluso lo stesso Boratav – furono riammessi all’incarico, ottenendo anche un risarcimento. A distanza di 35 anni dalla propria espulsione, lo scorso 10 febbraio Boratav si è trovato davanti al suo ex ateneo a sostenere i colleghi il cui ingresso nel campus Cebeci è stato impedito dalla polizia. Sono seguiti lacrimogeni lanciati su docenti, studenti e altri manifestanti, persone strattonate, fermi. E il gesto, simbolicamente molto forte, delle toghe dei professori lasciate a terra in segno di protesta, calpestate dalle forze dell’ordine.
“L’ambito dei diritti si è estremamente ristretto. Ci sono serie preoccupazioni riguardanti i premi pensionistici e i diritti di assistenza sociale”, ha commentato Boratav sul quotidiano Birgün, confrontando le purghe attuali con quelle degli anni ‘80. L’attuale pratica di annullare i passaporti degli accademici espulsi rappresenta un altro elemento di forte limitazione dei diritti. “È diventato impossibile andare all’estero per lavorare, fare ricerca, chiedere borse di studio, tutte cose essenziali per gli accademici”, aggiunge il professore, ricordando come lui stesso rimase per diverso tempo all’estero dopo il licenziamento.
Secondo la docente Ece Paralı Öztan dell’Università di Ankara, la situazione attuale è conseguenza della pressione che investe diverse università e che non si limita alle recenti espulsioni. “Il licenziamento di centinaia di accademici che offrivano preziosi contributi nel loro campo, oltre ad analisi critiche e di qualità su questioni sociali, va letto come l’ultimo rozzo anello dell’anti-intellettualismo. Non è un caso che la maggior parte delle espulsioni rivolte ai docenti d’opposizione e di orientamento democratico siano state effettuate nelle facoltà di scienze sociali, umanistiche e giuridiche”, ha commentato la professoressa, sempre interrogata dai reporter di Birgun.
Per altri osservatori, come il professor Cengiz Aktar, è in atto un piano per smantellare la tradizione di studi universitari sviluppata a partire dalla fine del XIX secolo, già durante il periodo ottomano, per formare una classe intellettuale che potesse competere con gli standard occidentali. Scuole in cui hanno studiato i dirigenti che hanno poi dato vita alla Turchia repubblicana e che, ironia della storia, non si sono affatto rivelate funzionali agli obiettivi dei sultani.