Turchia, quando la rete divide
Polemiche in Turchia dopo le modifiche alla discussa legge 5651 che introducono il blocco d’ufficio dei siti web per denunce di violazione della privacy. Un provvedimento che fa gridare i critici alla censura, in un paese in cui la libertà di informazione resta sotto pressione
“Questa notizia si autodistruggerà nel giro di quattro ore”. Non è una frase tratta dalla serie televisiva “Mission impossible”, ma la provocatoria campagna lanciata dal sito del quotidiano Radikal per protestare contro la legge su internet approvata martedì sera dal presidente della Repubblica Abdullah Gül. Un primo saggio di ciò che potrebbe attendere prossimamente gli utenti della rete in Turchia: notizie che spariscono dal web entro poche ore dalla pubblicazione in seguito a denunce di violazione della privacy.
Già approvata dal parlamento turco lo scorso 6 febbraio, la controversa legge – che traccia marcate linee di controllo su internet e sui suoi utenti – ha ricevuto il via libera dal capo dello stato che ha annunciato la decisione tramite il proprio account su Twitter. La notizia è giunta poche ore dopo la dichiarazione del ministro dei Trasporti e delle Comunicazioni Lütfi Elvan secondo il quale il provvedimento sarebbe stato sottoposto a modifiche “in due punti ritenuti problematici dal capo dello stato”.
“Vedo con piacere che le preoccupazioni relative ai due articoli saranno ovviate con una modifica. Ho approvato la legge appena rientrato dall’Ungheria per permettere che questi emendamenti vengano portati rapidamente a compimento”, ha twittato Gül che, secondo la prassi, avrebbe dovuto rimandare il provvedimento in parlamento prima di approvarlo. Ma anche con le modifiche “suggerite” dal presidente, la sostanza della legge resta pressoché inalterata.
Le nuove disposizioni di legge
Gli emendamenti votati, che introducono nuovi parametri di controllo sulle attività in internet, modificano la legge 5651 del 2007 che ad oggi rappresenta la causa principale del blocco di oltre 40mila siti web, sulla base di una lista di “reati da catalogo” tratti dal codice penale turco. Uno degli elementi più controversi della legge messa a punto dal governo è il potere che viene attribuito al Direttorato delle comunicazioni (TİB), ente governativo alla cui direzione è stato nominato Ahmet Cemalettin Çelik, figura proveniente dalle file dell’intelligence turca (MİT), subito dopo l’avvio dell’operazione anti-corruzione del 17 dicembre scorso.
In base a quanto previsto dal provvedimento, se il Direttorato riterrà che esiste una violazione della privacy sarà completamente libero di far bloccare indirizzi URL, eventualmente anche su richiesta presentata da singoli cittadini o da persone giuridiche. Il blocco dovrà essere realizzato dal provider entro quattro ore dalla denuncia. Secondo la modifica annunciata dopo l’intervento del presidente Gül, il direttorato sarà tenuto a sottoporre la propria azione al giudizio del tribunale entro 24 ore dal blocco, condizione assente nella versione originale della legge. Il tribunale, a sua volta, dovrà decidere se esiste un’effettiva violazione della privacy entro le successive 48 ore, mentre l’indirizzo web in questione resterà nel frattempo inagibile, senza possibilità alcuna di opporsi.
Il secondo punto molto dibattuto del provvedimento riguarda i dati relativi al traffico di navigazione degli utenti internet – si parla di oltre 35 milioni di persone, quasi la metà della popolazione turca – che dovranno essere conservati da uno a due anni dalle società di fornitura. Questi ultimi saranno obbligati ad iscriversi ad una “unione dei providers” – costituita ad hoc – e dovranno impedire agli utenti ogni tentativo di bypassare il blocco dei siti vietati, restando a disposizione del TİB per qualunque informazione richiesta.
Con la modifica caldeggiata dal presidente della Repubblica, il TİB, che nella versione attuale della legge ha la facoltà di chiedere i dati relativi al traffico degli utenti direttamente ai providers, dovrà invece ottenere un’autorizzazione preliminare dal tribunale.
I 196 fornitori che operano in Turchia saranno quindi sottoposti ad un controllo centrale e praticamente costretti a collaborare con il TİB, che potrà applicare sanzioni che vanno dalle 10 alle 100mila lire turche (30 – 30mila euro circa) ai providers che non seguiranno le nuove disposizioni.
Difesa della privacy o censura?
La “legge censura”, come viene definita dai suoi numerosi critici sia in Turchia che nell’Unione europea, è stata presentata dal governo in qualità di provvedimento finalizzato ad impedire episodi di violazione della privacy dei cittadini commessi sulla rete. Ma per molti osservatori non si tratta altro che dell’ultima mossa di Ankara per arginare l’ondata di scandali che si sono riversati sull’esecutivo a partire dalle operazioni anti-corruzione, che hanno coinvolto i nomi di diversi ministri, assieme a quelli dei figli di politici e uomini d’affari vicini al governo.
Per il premier Tayyip Erdoğan sarebbe in atto un complotto con ramificazioni internazionali, un nuovo tentativo di golpe per rovesciare il suo governo. A tirare le fila della cospirazione sarebbero gli esponenti di uno “stato parallelo” interno allo stato, le cui attività vengono ricondotte all’imam Fetullah Gülen e al potente movimento socio-politico “Hizmet”, di cui è fondatore e leader indiscusso.
Ex alleati nella lotta per estromettere i militari dalla politica, il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) di Erdoğan e il movimento di Gülen hanno assunto posizioni divergenti su svariate questioni negli ultimi anni, ma la situazione si è tradotta in uno scontro aperto solo negli ultimi mesi. Una lotta che viene condotta anche tramite i media facenti capo all’AKP e ai gülenisti.
Mahir Zeynalov, giornalista azero di Today’s Zaman, versione in lingua inglese di Zaman, primo quotidiano in Turchia e principale organo di stampa del movimento Hizmet, ha subito personalmente le conseguenze di questa lotta. Le aspre critiche al governo espresse dall’account twitter gli sono costate un’estradizione e un divieto di reingresso in Turchia, sebbene sia sposato con una cittadina turca e abbia un permesso di residenza valido fino a marzo.
Lotta senza quartiere sulla rete
Le operazioni della polizia rivolte all’entourage del governo hanno subito una battuta d’arresto dopo il trasferimento in altra sede di centinaia di ufficiali delle forze dell’ordine e l’estromissione dall’incarico dei magistrati che avevano avviato l’inchiesta. Tuttavia, ben presto sono emersi nuovi tipi di “attacchi”, del tutto “virtuali”.
A partire dallo scorso gennaio, un misterioso account twitter registrato sotto il nome @haramzadeler (in turco, “i signori del guadagno illecito”) ha iniziato a mettere in circolazione dei file audio con relative trascrizioni contenenti presunte conversazioni telefoniche svolte tra il premier, i figli e altri ministri con uomini di affari o dirigenti di media. Conversazioni alquanto compromettenti, tra cui diverse registrazioni che si sostiene facciano parte del fascicolo dell’inchiesta sulla corruzione.
Una delle trascrizioni più discusse riguarda il presunto retroscena della vendita del gruppo mediatico Atv-Sabah alla società Zirve (facente capo alla Kalyon, vicina al governo) da parte della Çalık Holding avvenuta lo scorso 20 dicembre. Secondo i documenti circolati su internet, l’acquisto del gruppo sarebbe in realtà avvenuto grazie alla formazione di una “cassa comune” voluta dal premier e costituita da sei società titolari di importanti appalti statali (tra cui quella del terzo aeroporto di Istanbul e del progetto dei treni ad alta velocità).
Per raggiungere la cifra necessaria all’acquisto, le società in questione avrebbero ottenuto dei prestiti dalle banche statali Halkbank e Ziraat per un valore di 630 milioni di dollari. Umut Oran, deputato del partito d’opposizione CHP, ha presentato un’interrogazione parlamentare in merito alla vicenda, postandola poi sulla propria pagina web. Il TİB, già prima dell’approvazione della legge, ha chiesto la rimozione della notizia al deputato e ai quotidiani online come T24 che l’avevano ripresa, suscitando un’ondata di protesta nei portali di informazione web.
Intanto, ogni giorno sulla rete continuano a comparire nuovi file audio. Gli ultimi della serie sono pubblicati sotto la sigla “Alo Fatih” (in turco, “Pronto Fatih”) e riportano presunte telefonate del premier Erdoğan a Fatih Saraç membro del consiglio di amministrazione del quotidiano e canale televisivo Haber Türk. Il dirigente è spesso rimproverato per avere pubblicato notizie poco gradite o per avere dato troppo spazio ai leader dell’opposizione. L’atteggiamento più che accondiscendente di Saraç e del direttore della testata Fatih Altaylı di fronte ad ogni richiesta del premier, inclusa la manipolazione di dati relativi ad un sondaggio elettorale, sono diventati oramai materiale per le riviste di satira e per le battute che circolano sui social media.
Turchia, l’informazione resta sotto pressione
Se negli ultimi anni la Turchia risulta sempre in fondo alle liste stilate dalle organizzazioni internazionali riguardo alla libertà di stampa, vantando un triste primato sul numero di giornalisti in carcere, quest’ultimo provvedimento non promette certo di migliorare la situazione. In più, se approvato, il disegno di legge che attende in parlamento e che dovrebbe mettere il Consiglio superiore della magistratura turca (HSYK) alle dirette dipendenze del ministero della Giustizia, renderà vano ogni tipo di ricorso in tribunale, visto che faranno tutti capo ad un unico potere centrale sempre più forte.