Turchia: non angeli ma Efeler
Guerrieri irregolari ottomani, in origine quasi dei ribelli, che vivevano nelle montagne e rivendicavano la giustizia degli oppressi e degli umili contro i potentati locali. Reportage dalla Turchia occidentale, alla scoperta dei singolari personaggi chiamati Efeler

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Piazza Delikli Çinar a Denizli, Turchia - Foto F. Polacco
“No, efendi, quelli non sono angeli. Hanno le ali, sì, ma sono Efeler. Vengono raffigurati così perché quando danzano muovono le braccia come se volassero, simili ad aquile”.
Un venditore di ricordini del bazar di Denizli, mi spiega il significato di un oggetto che ho preso in mano: e innesca così nella mia memoria una serie di collegamenti.
È vero, non sono mai stato prima in questa città della Turchia occidentale. Però l’unica persona che abbia conosciuto proveniente da qui mi raccontava, tra tante cose della sua vita, che da giovane era stato uno di quegli Efeler, che aveva danzato con i loro costumi in varie cerimonie, e che tuttora – aggiungeva con orgoglio – avrebbe saputo farlo.
Insomma, senza che me ne avvedessi mi trovo nel cuore della regione che è stata la patria di questi singolari personaggi: guerrieri irregolari ottomani, in origine quasi dei ribelli, che vivevano nelle montagne e rivendicavano la giustizia degli oppressi e degli umili contro i potentati locali, con la caratteristica di essere vincolati tra loro da legami sacrali di fedeltà e dedizione reciproche.
Una specie di consorteria in cui si entrava attraverso riti di passaggio e una semplice ma solenne cerimonia di investitura che si svolgeva all’ombra di un lauro. Poi, al tempo della guerra greco-turca del 1919/22, hanno esercitato un loro ruolo combattendo per la nascente Repubblica Kemalista.
Forse ci siamo, penso. Non è in fondo per cogliere occasioni nascoste come questa che, appena arrivato qui senza prenotazioni e senza mappe, senza guide e senza nemmeno averlo programmato, ho fornito una risposta incompleta al cortese funzionario che assieme ad alcuni suoi colleghi mi ha dato il benvenuto a Denizli, mentre parlavamo attorno a dei tè fumanti offerti in successione uno dopo l’altro?
Ero entrato nel palazzo del Belediye – sede del Comune – dichiarando di essere uno straniero in cerca di informazioni, di qualche opuscolo e possibilmente di una cartina della città o della regione.
Ma Denizli, pur essendo un centro popoloso ed economicamente importante, gradevole e molto ben tenuto, non conserva alcun monumento rinomato né presenta particolarità tali da farla entrare negli itinerari turistici consueti; e così ecco che uno dei miei interlocutori mi consiglia: “Vada a risiedere qui vicino, a Pamukkale, la celebre zona archeologica: lì troverà molti begli alberghi”.
Eh, no, ho pensato tra me. Certo, che vorrò visitare Pamukkale, ma il mio desiderio è anche quello di immergermi nella vita di una città turca apparentemente anonima, attendendo con pazienza che la sua singolarità si disveli; magari poco a poco, oppure tramite un colpo di scena occasionale.
Così al momento gli rispondo che sì, sono interessato principalmente all’archeologia e alla storia, ma che è proprio di Denizli, cioè del capoluogo, fornito di tutte le comodità, i trasporti e le risorse, che vorrei fare la base di partenza per molte altre escursioni di quel tipo nelle vicinanze: a Laodicea, ad Afrodisia, ecc.
Se questa era solo una parte della verità, non è perché ce ne fosse un’altra che volessi nascondere, ma perché in un viaggio come questo non posso mai sapere con esattezza quello che sto cercando. O meglio: ciò che al momento posso dire di voler trovare è solo un trampolino per scoprire qualcos’altro, che ancora non so.
E infatti, solo un paio di giorni dopo, quello degli angeli che non sono angeli si dimostrerà essere il primo passo di una piccola rivelazione.
A pochi metri dal venditore di ricordini del bazar, trovo infatti subito una insolita bottega che mi affascina per il suo contenuto. È quella di un sarto. Ma non di un sarto qualsiasi: costumi tradizionali da cerimonia, multicolori e bellissimi, da uomo e da donna, ne adornano la vetrina e soprattutto l’interno, dove entro senza esitazione.
Anche Mehmet, il proprietario, un uomo che ha superato la trentina, mi accoglie molto gentilmente. Chiarisco subito che non sono turco e non sono lì per acquistare alcunché, ma solo per ammirare i frutti del suo lavoro artigianale.
Sembra ancora più contento, e così, tra abiti da parata di giannizzeri, tra costumi scintillanti per i piccoli che affrontano il sunnet (la cerimonia turca della circoncisione), ecco che mi mostra anche gli abiti degli Efeler: con le loro braghe azzurre corte appena sopra il ginocchio, gli stivaloni di cuoio buoni per scarpinare ma anche per cavalcare, il cinturone adornato da pugnali, o da pistole, e da amuleti che – si credeva – li rendevano immortali.
Mehmet mi fa vedere come ricama i suoi abiti con l’oro e l’argento, poi mi mostra sullo smartphone le cerimonie in cui essi vengono indossati.
“Ma quando e dove potrei assistere a una esibizione degli Efeler?”, gli domando. La sua risposta mi lascia sospeso. Non saprebbe dirmelo di preciso: ovunque e in nessun luogo specifico, dipende dalle occasioni.
Eppure l’occasione si presenterà, anch’essa inattesa, alla fine di quella stessa settimana.
Nella piazza principale di Denizli, detta Delikli Çınar (il ‘Platano Perforato’) – in effetti ombreggiata da enormi platani – seminascosto da un assembramento di persone indaffarate scorgo un piccolo gruppo, finalmente in carne e ossa, di giovani Efeler, che sfoggiano con fierezza le loro divise. Vengo a sapere che si esibiranno poco dopo a Bayram Yeri (il Luogo delle Feste), che ormai ben conosco perché è un piazzale che si trova proprio di fronte ad uno degli ingressi del bazar.
E così ho l’occasione di assistere da vicino, mescolato ad una folla festante di turchi, ad una loro danza: genuina perché non programmata per qualche gruppo turistico, e condotta non a fini di spettacolo, come per un festival, ma squisitamente celebrativi.
Il motivo di quella esibizione, proprio in quel luogo e in quel giorno, lo scoprirò assieme ad altre cose negli ultimi tempi della permanenza a Denizli.
Perché i viaggi, talvolta, hanno tre dimensioni. Oltre allo spazio (i luoghi) e al tempo (la durata), tipici di ogni itinerario, ne hanno anche una terza, più difficile ma importante da raggiungere: la profondità. Che paradossalmente conquisti solo se per qualche tempo smetti di spostarti, ti fermi, ti interroghi, e aspetti: iniziando così a scalfire l’epidermide di quella che sembrava una qualsiasi città di provincia.
Foto e video di Fabrizio Polacco
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