Turchia: la qualità della democrazia
Nei giorni del colpo di stato militare in Egitto abbiamo intervistato il professor Kerem Öktem su analogie e differenze tra Tahrir e Taksim, e su come sta cambiando la Turchia, "dove in molti hanno potuto sperimentare, spesso per la prima volta, il valore dell’azione diretta e della partecipazione"
Tra le questioni da lei recentemente evidenziate alla radice delle proteste esplose in piazza Taksim c’è una politica estera turca sempre più problematica. Il recente colpo di stato militare in Egitto rafforza questo elemento? E’ la fine del grande progetto dell’AKP di trasformare la Turchia in un polo d’attrazione e modello per i propri vicini?
E’ un discorso piuttosto complesso. La visione del ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu e del premier Recep Tayyip Erdoğan, che ha sempre giocato un ruolo estremamente attivo in questo settore, ha sviluppato in questi anni più vettori, tra cui quello definito “neo-ottomano”, in cui i Balcani giocano un ruolo centrale.
Uno di questi vettori, diretto ai paesi islamici di Medio oriente e Africa settentrionale, e che potremmo chiamare di "solidarietà politica islamica", era legato all’emergere di un blocco di governi guidati da formazioni "pro-AKP" nella regione, dalla Tunisia fino all’Egitto (ma con meno successo in Libia). Questa impostazione sembra però ormai in grave difficoltà, e il colpo di stato in Egitto potrebbe definitivamente metterne in crisi l’intera impalcatura.
E’ stato più volte sottolineato che piazza Taksim non é piazza Tahrir. Gli eventi e le dinamiche recenti confermano questa lettura?
A differenza di quanto accaduto in Egitto, a Taksim non c’era la richiesta di un cambio di regime, e soprattutto nessun desiderio di un intervento dell’esercito. Tahrir ora ha raggiunto una fase del tutto diversa, con l’esercito che ha estromesso il governo e milioni di persone in piazza a festeggiare. Da questo punto di vista, la Turchia ha fatto decisivi passi in avanti, escludendo di fatto l’esercito dalla dinamica politica: una differenza centrale tra Turchia ed Egitto di oggi.
Quello che accomuna le due piazze è il fatto di essere state attivate da dinamiche interne al processo di globalizzazione capitalista, che però ha avuto effetti molto diversi nei due paesi: in Turchia ha portato a crescita senza precedenti e, nonostante un crescente divario tra ricchi e poveri, ad un miglioramento diffuso delle condizioni di vita. Esattamente l’opposto è accaduto in Egitto, dove la protesta è stata innescata anche perché l’economia locale è crollata, con i cittadini costretti a fare la coda per i beni di prima necessità.
Gli eventi in Egitto si rifletteranno in modo importante sul dibattito politico interno turco?
In Turchia, naturalmente, si tende a leggere la crisi egiziana attraverso il prisma della situazione interna turca. E’ da sottolineare che tutto lo spettro politico si è dichiarato inorridito dall’intervento dell’esercito: nemmeno i kemalisti hanno mostrato sostegno per il colpo di stato militare.
Un riflesso importante sul dibattito interno potrebbe arrivare dal rafforzamento della “sindrome da complotto internazionale” attraverso cui il premier Erdoğan legge oggi gli eventi di Taksim e del parco Gezi. Secondo questa lettura, le proteste in Turchia sarebbero il prodotto di un complotto internazionale, teso a danneggiare lo sviluppo economico e politico del paese, e come riflesso di un possibile nuovo tentativo di colpo di stato dello “stato profondo”.
Paesi come Egitto e Tunisia erano pilastri del progetto di un “Medio Oriente moderno ed islamico” perseguito dall’AKP. Anche in questo caso, il governo di Ankara vede i recenti sviluppi, soprattutto in Egitto, proprio attraverso il prisma del complotto internazionale, che includerebbe gli Stati Uniti e la “lobby ebraica”, e che stavolta mette in subbuglio l’area “amica” costruita negli anni scorsi dalla politica estera di Ankara. In definitiva, credo che la crisi egiziana renderà più rigida la posizione di Erdoğan, e probabilmente renderà più polarizzato lo scontro politico in Turchia.
In questi anni la Turchia è diventato un paese molto più ricco, e l’AKP ha migliorato sensibilmente i servizi sociali. A protestare è forse chi è rimasto tagliato fuori dalla crescita economica? O la questione non è solo economica, e le proteste rappresentano anche una sfida culturale al modello proposto dal governo?
C’è sicuramente anche un elemento di sfida culturale al modello di “matrimonio” tra politica economica liberista e conservatorismo sociale proposto dall’AKP. A protestare però non è solo chi è rimasto tagliato fuori dai flussi economici. La crescente classe media, ad esempio, ha in larga parte approfittato della crescita dell’ultimo decennio, ma non può sentirsi rappresentata dalla politica sociale conservatrice promossa da Erdoğan.
E’ vero, l’AKP ha esteso in modo sostanziale i servizi sociali, come la sanità e l’educazione, risultati apprezzati dall’intera società turca. I nuovi servizi sociali, universali e centralizzati, vengono però sempre più spesso utilizzati come strumento di controllo e imposizione di un determinato modello culturale e sociale. Le scuole sono meglio equipaggiate di quanto siano mai state, ma c’è un numero crescente di ore di insegnamento di religione, che in alcuni casi non sono opzionali ma obbligatorie. Questo è vero anche per il sistema sanitario, che raccoglie molte informazioni sui cittadini: ci sono stati casi in cui donne che volevano abortire si sono ritrovate faccia a faccia con la propria famiglia, avvertiti da funzionari del sistema stesso.
Il dibattito sul neo-liberismo è globale, e non certo confinato alla sola Turchia. Crede che da Taksim siano arrivate proposte e modelli nuovi?
Sinceramente è ancora presto per dirlo. La cosa importante è che sono nati forum di discussione, in cui tutti possono discutere che tipo di futuro e di società vogliono in Turchia. E’ un processo molto orizzontale, che coinvolge persone con background molto diversi, che per la prima volta trovano il modo di dialogare. In un certo senso, le proteste stanno portando la Turchia e i turchi a scoprire la propria complessità, aiutando le persone a uscire dai piccoli ghetti in cui hanno vissuto fino ad oggi. E’ però un processo che muove ora i suoi primi passi…
Le proteste di Taksim avranno conseguenze durature nel rapporto tra cittadini e potere in Turchia?
Ne sono convinto: forse non appariranno nel breve termine, anche perché al momento assistiamo ad una caccia alle streghe da parte del governo nei confronti di chi protestava, col tentativo di scindere una parte “democraticamente legittima” della protesta da una che, secondo il governo, l’avrebbe strumentalizzata perseguendo fini non democratici o addirittura terroristici.
La generazione più giovane che era a Taksim è stata spesso definita “post-politica”, una generazione indifferente alle dinamiche di partito nelle sue forme attuali in Turchia. Dopo le proteste, però, centinaia di migliaia di persone hanno potuto sperimentare, spesso per la prima volta, il valore dell’azione diretta e della partecipazione. Questa vera e propria “scuola di politica in strada” è un processo che continua: nei forum vengono esplorate nuove forme di dibattito, che tocca questioni come il ruolo dei curdi in Turchia, o la libertà di poter esprimere la propria identità sessuale. Un processo che approfondisce questa nuova forma di coscienza politica collettiva.
Da qui a risultati politici immediati la strada è certamente lunga, ma credo che le proteste abbiano trasformato molte persone a livello personale, portando questa generazione a vivere una dimensione più politica, e ridando forza a chi era già attivo, ma credeva che la Turchia fosse ormai condannata al percorso di crescente autoritarismo di Erdoğan.
Esiste oggi una forza in grado di dare forma politica all’energia espressa da piazza Taksim? Nel caso in cui nessuno riesca a dare voce alle domande della piazza, c’è il rischio della nascita di frange radicali e violente?
Sicuramente l’attuale opposizione ha poco da offrire a chi protesta, visto che il CHP è ancora profondamente diviso tra un’ala socialdemocratica e un’altra vecchio stile, kemalista, xenofobica e nazionalista, ed è al momento bloccato dallo scontro interno tra queste due fazioni. Le proteste di Gezi potrebbero aiutare l’ala riformista a prendere il controllo del partito, ma questa prospettiva non è molto probabile. Non è nemmeno da escludere che il partito finisca per spaccarsi.
Riguardo la radicalizzazione, non credo sia un pericolo immediato. La Turchia ha una lunga storia di risposte politiche radicali e violente: mi sembra che le persone scese in piazza a Taksim non abbiano però alcun interesse in questo tipo di soluzione.
Le proteste di Taksim rappresentano il divorzio definitivo tra la Turchia liberale e l’AKP?
Questo divorzio, in realtà, è avvenuto ben prima delle elezioni politiche del 2011, anche se i liberali hanno avuto bisogno di tempo per rendersene conto. La questione è più complessa: l’attuale leadership nell’AKP non ha disilluso ed estromesso solo i liberali, ma anche parte del suo elettorato profondo.
Molti deputati dell’AKP sono scontenti dell’attuale autoritarismo nel partito, ma non esprimono il proprio dissenso visto che, a differenza di quanto accadeva fino a qualche tempo fa, l’AKP è divenuto semplicemente l’apparato di potere di Erdoğan. Lo scontento però c’è, e cresce: la corrente interna vicina al movimento religioso-economico di Fehtulla Gulen, ad esempio, mostra crescente avversione allo stile autoritario di Erdoğan. L’AKP oggi è diviso, anche se oggi questa divisione non è ancora visibile.
Sono stati proposti molti paralleli tra le proteste di Taksim e il movimento di protesta del 1968 in Europa occidentale. Un parallelo troppo facile? Lei vede più elementi di somiglianza o di differenza?
Tutti i grandi movimenti di protesta presentano dei tratti in comune, con i giovani in strada, l’organizzazione delle masse e l’esplosione di dinamismo sociale. Vedo però grandi differenze tra Taksim e il ’68. Nel 1968 c’era un progetto ideologico definito in direzione del socialismo-comunismo, e le masse scese in piazza si sentivano parte di questa narrativa, anche se poi l’esperienza vissuta sulle strade si rivelò molto diversa, influenzando piuttosto aspetti come la rivoluzione sessuale e i rapporti sociali e familiari.
A Taksim parliamo invece di un evento post-moderno e post-politico, senza ideologie di riferimento, cosa che lo rende in qualche modo molto più interessante, visto che, in un certo senso, chi protesta sta cercando ancora di trovare le domande, prima di lanciarsi nella ricerca delle risposte.
D’altra parte, però, questo significa che sarà molto più difficile trasformare Gezi in un progetto politico strutturato. Credo che al cuore del processo ci sia una riflessione sulla qualità della democrazia, sul futuro del pluralismo. La gente vuole discutere di come il sistema impatti sulla vita privata di ognuno, anche se al momento non ci sono modelli alternativi al capitalismo liberale da proporre.
Almeno sui media occidentali, le donne sono state un elemento simbolico centrale nelle proteste. Crede che esista anche una questione di genere alla base di quanto accaduto a Taksim?
In tutti i progetti politici conservatori, il corpo femminile diventa uno dei principali bersagli di iniziativa politica. Anche in Turchia, al centro del discorso conservatore di Erdoğan c’è l’idea della famiglia come pilastro della società e della donna come pilastro della famiglia. In questa chiave vanno lette le dichiarazioni del premier che vedono la donna come “madre di bambini” (almeno tre), il dibattito sull’aborto e sulla pillola del giorno dopo.
Credo nelle proteste di Taksim sia emersa chiara consapevolezza di questa impostazione. Una consapevolezza confermata dal recente gay-pride di Istanbul, che ha raccolto 50mila persone, ben 30mila di più rispetto all’anno scorso. E’ oggi più evidente che il tentativo di definire il ruolo e il corpo della donna e la marginalizzazione dei “sessualmente diversi”, è legato alle stesse politiche di conservatorismo sociale.
Lei si è a lungo occupato di politica estera turca nei Balcani. Crede che le reazioni alle proteste di Taksim nella regione rappresentino una cartina di tornasole dell’investimento politico fatto dall’AKP in questo decennio?
Nei Balcani ci sono state manifestazioni di supporto a Erdogan in Albania, Macedonia e Bosnia. In Albania e Macedonia gli organizzatori erano chiaramente "gruppi-clienti” dell’attuale governo di Ankara. In Bosnia la situazione è più complessa, visto che qui le manifestazioni sono state organizzate dal Partito d’Azione Democratica (SDA) che non è in senso stretto un cliente dell’AKP. In questo caso, tenendo presente l’affinità politica e le relazioni di lungo periodo del partito col governo turco, credo piuttosto che la nuova élite musulmana dell’SDA abbia sentito in modo istintivo la vicinanza all’AKP e il bisogno di sostenere Erdoğan.
Le dimostrazioni nei Balcani hanno rappresentato sicuramente un elemento interessante, che secondo me mostra i limiti della politica estera dell’AKP nella regione. Le reazioni delle settimane scorse hanno infatti mostrato che nei Balcani le reti di supporto e i partiti "amici" sono oggi confinati entro comunità, gruppi e partiti di chiara identità musulmana, senza raggiungere il resto delle società dell’area.
Questo, come sostengo da tempo, è l’elemento di debolezza più evidente della politica estera turca nei Balcani: per avere un vero un impatto, devi raggiungere le maggioranze, che nei Balcani non sono musulmane.
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa.