Turchia, il PKK depone le armi, ma le incognite restano
Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) organizzazione considerata terrorista da Ankara, ha annunciato di voler rinunciare alla lotta armata. Una mossa che, complice le strategie del presidente Erdoğan, potrebbe ridisegnare il quadro istituzionale e gli equilibri regionali del paese

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Manifestazioni pro-Ocalan a Istanbul nel 2013 - © Sahan Nuhoglu/Shutterstock
L’11 luglio potrebbe passare alla storia come una delle date più emblematiche per la Turchia degli ultimi decenni. Nella provincia irachena di Süleymaniye, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha organizzato una cerimonia simbolica per deporre e bruciare le armi .
L’evento si è tenuto in seguito alla diffusione di un video preregistrato di Abdullah Öcalan, fondatore del PKK, trasmesso il 26 giugno, nel quale il leader curdo ribadisce la necessità di abbandonare la lotta armata. Il messaggio si inserisce in un contesto segnato dall’apertura politica avviata nel 2023 dal presidente Recep Tayyip Erdoğan e dal suo alleato Devlet Bahçeli nei confronti del Partito DEM, espressione del movimento politico curdo in Turchia.
Durante la cerimonia, presieduta dalla comandante Bese Hozat – la stessa che nel 2015 aveva annunciato la ripresa della guerriglia dopo il fallimento del precedente processo di pace – trenta rappresentanti del PKK hanno deposto le armi in un braciere, poi incendiato sotto stretta sorveglianza da parte turca e irachena. Il gesto, altamente simbolico, ha suscitato un’ondata di reazioni. Per Ankara, il PKK resta un’organizzazione terroristica, come già definito da Stati Uniti e Unione Europea.
Tuttavia, questo tentativo di riconciliazione si intreccia con dinamiche ben più complesse, tanto a livello interno quanto internazionale. A partire dal 19 marzo – data dell’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu – il governo ha avviato un’ondata repressiva senza precedenti contro l’opposizione. Più di 500 persone sono state arrestate e diversi sindaci, tra cui quelli di Antalya, Adana e Adıyaman, sono stati rimossi.
Il Partito Repubblicano del Popolo (CHP), forza d’opposizione laica, aveva ottenuto un successo storico alle elezioni municipali del 2024, superando per la prima volta il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) in termini di voti da quando quest’ultimo è al potere. Un segnale d’allarme per il palazzo presidenziale di Beştepe, che ora si interroga sulla capacità dell’AKP di restare alla guida del paese.
Secondo l’attuale costituzione – voluta proprio da Erdoğan nel 2017 per trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale – il presidente non potrebbe ricandidarsi, avendo già completato due mandati. È in questo quadro che il riavvicinamento ai curdi assume un significato strategico. Al di là delle motivazioni ufficiali legate al contesto mediorientale – in particolare dopo il 7 ottobre e l’inasprimento delle tensioni regionali – l’obiettivo di Erdoğan sembra essere quello di preparare il terreno per una modifica costituzionale, ottenere un terzo mandato e consolidare un’eredità politica ormai ventennale.
L’AKP, però, non dispone della maggioranza parlamentare necessaria per cambiare la costituzione, nemmeno con il supporto dell’alleato MHP. Da qui l’idea, esplicitata da Erdoğan il giorno dopo la cerimonia del PKK, di costruire una nuova “alleanza nazionale” che includa anche il Partito DEM.
La fine del conflitto con il PKK, in quest’ottica, servirebbe a ridefinire non solo gli equilibri politici interni ma anche l’identità del paese.
Verso una nuova Turchia
Il discorso pronunciato da Erdoğan all’indomani della cerimonia offre un’indicazione chiara della direzione che il governo intende intraprendere.
La Turchia si trova in un passaggio storico delicato. Sul fronte interno, la crisi economica continua a pesare sulla popolazione nonostante qualche timido segnale positivo a livello macroeconomico. Sul piano regionale, la caduta del regime di Assad offre nuove opportunità ad Ankara, ma le tensioni crescenti tra Israele, Iran e Stati Uniti rischiano di destabilizzare ulteriormente l’area, compromettendo le ambizioni turche.
In particolare, la Siria è ormai diventata un terreno di competizione diretta tra Turchia e Israele, una dinamica che potrebbe segnare profondamente il nuovo assetto di potere in Medio Oriente.
In questo contesto, il tentativo di Erdoğan appare duplice: ricalibrare il sistema politico interno e adattarsi ai mutamenti del quadro regionale, in particolare rispetto ad attori come Siria, Israele e le Forze Democratiche Siriane (SDF). Ma la questione curda, con decenni di violenze e ostilità alle spalle, non può essere superata senza un lavoro profondo di ricostruzione dell’identità collettiva turca – un’identità che riconosca e integri anche quella curda, non solo sul piano retorico ma anche costituzionale. Un processo che richiederebbe inevitabilmente l’apertura di una nuova stagione di riforme.
Il nuovo percorso di dialogo con i curdi ha trovato un ancoraggio istituzionale nel parlamento turco, che ha istituito una commissione di 51 membri incaricata di seguire i negoziati. La sua composizione, che include anche l’opposizione repubblicana del CHP, segna una discontinuità rispetto alle “commissioni di saggi” del 2013–2015, prive di reale legittimità politica e di effettivo controllo parlamentare. La partecipazione di più partiti, pur con l’assenza del Buon Partito (IYI), conferisce al tavolo negoziale un peso simbolico e istituzionale importante, volto a bilanciare l’impressione di un accordo ristretto tra AKP e DEM.
La commissione, che ha già tenuto tre riunioni, rappresenta dunque la possibilità di trasformare un gesto simbolico di disarmo in un percorso politico riconosciuto da una parte più ampia della società. Tuttavia, la scelta di mantenere segreti i verbali fino al 2035 rischia di alimentare sospetti in un contesto segnato da profonde fratture e da una lunga storia di mancata trasparenza.
Perché il processo abbia successo, il parlamento dovrà superare calcoli elettorali e logiche di breve periodo, assumendo il ruolo di garante di un percorso inclusivo capace di affrontare le radici del conflitto.
La combinazione tra necessità politica interna e riallineamenti regionali ha creato un’apertura rara, ma le finestre di opportunità in Medio Oriente sono notoriamente brevi. I prossimi mesi saranno decisivi per verificare se l’Assemblea nazionale saprà trasformarsi da semplice palcoscenico a motore di pace, e se gli attori regionali privilegeranno la stabilità sulla competizione.
La cerimonia di Sulaymaniyah ha offerto un’immagine di ciò che la pace potrebbe significare, ma perché quell’immagine diventi realtà serviranno coraggio politico e la volontà di ampliare la discussione oltre le stanze chiuse, sia ad Ankara sia nel quadro regionale.
Per ora, l’intero processo si regge su due pilastri fragili: un parlamento che deve dimostrare di non essere un mero strumento della maggioranza e un ambiente regionale che non deve sottrarre sostegno all’iniziativa. Se uno solo di questi pilastri dovesse cedere, il momento potrebbe svanire rapidamente.
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