Turchia: il leader danzante di Tavas
“Non può esserci rivoluzione senza la musica”: il fondatore della Repubblica Mustafa Kemal Atatürk ritratto in una giravolta, un gesto che racconta radici condivise, memorie divise e la forza simbolica della cultura

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Monumento dedicato ad Atatürk a Tavas - Foto di F. Polacco
È vero: pure in Italia abbiamo avuto ministri appassionati del ballo e delle discoteche, immortalati dai fotografi sulla pista. In fondo, non sono uomini come gli altri? Però, mai ci aspetteremmo di scoprire in una piazza un padre della patria – tipo Garibaldi, o Vittorio Emanuele II – effigiato con una statua mentre compie una giravolta di danza.
E così faccio una deviazione apposta per vederlo, il monumento dedicato al ‘Padre dei Turchi’, Atatürk, sito al centro d’una rotatoria nel cuore di Tavas, nella regione di Denizli.
Dopo aver seguito pochi giorni prima nella ‘Piazza delle Feste’ del capoluogo gli Efeler in carne ed ossa danzare coi loro moti lenti, solenni e circolari per una cerimonia pubblica, il poter osservare quella stessa gestualità nelle membra bronzee del personaggio principale della storia di questo Paese mi pareva un complemento immancabile: poiché non si tratta solo d’una bizzarria di uno scultore.
Inizio a comprenderlo visitando il Museo della Città di Denizli, dove in una sala si racconta, tra l’altro, che il novizio ammesso a militare sotto la guida di un Efe, propriamente il suo capo e maestro, era chiamato Zeibek. E Zeibek è anche il nome della loro danza tradizionale.
Ma che cos’è che la lega al fondatore della Turchia moderna?
Una prima spiegazione può essere quella ufficiale, o storica. La cerimonia cui avevo assistito a Denizli celebra la ricorrenza del 15 maggio, appena precedente la ‘Commemorazione di Atatürk e Festa della Gioventù e dello Sport’.
In quella data del 1919 le truppe elleniche sbarcavano a Smirne (Izmir), tra l’esultanza e il sospiro di liberazione della popolazione greca della città, la più importante della costa egea dell’Asia Minore; e tra lo sconforto, la disperazione e la paura dei suoi abitanti turchi. Un sogno per gli uni, un incubo per gli altri.
Il sogno sul punto di realizzarsi era quello della ‘Megali Idea’, la grandiosa visione della ricostituzione del nucleo dell’Impero bizantino per riunire la penisola ellenica a Costantinopoli, cioè Istanbul, attraverso la riconquista dell’accesso agli Stretti, della Tracia orientale e delle coste e dell’entroterra dell’Anatolia occidentale.
Non riesco a dimenticare alcune curiose tabelle stradali che ancor oggi, dai luoghi più distanti ed impervi della Grecia, riportano con nostalgica precisione la distanza chilometrica dall’ex capitale.
L’incubo che si profilava per i turchi era invece quello di perdere, dopo l’impero, anche buona parte della madrepatria.
Ebbene, quello stesso giorno a Denizli, come altrove nell’Anatolia, una mobilitazione popolare con manifestazioni, cortei, sfilate di fronte a sedi istituzionali, formali proteste delle comunità inoltrate alla Conferenza di Pace di Parigi (allora si usavano i telegrammi) fu la scintilla che innescò l’azione politico-militare a vasto raggio guidata da Atatürk contro l’ultimo sultano ottomano e gli stranieri occupanti.
Sarà nella successiva ‘Guerra di Indipendenza’, il conflitto greco turco del 1919/1922, che anche le milizie irregolari degli Efeler preesistenti in quest’area scesero dai monti ove si radunavano per inquadrarsi nel nascente esercito repubblicano.
L’esibizione di Zeibek cui ho assistito nella Bayram Yeri, la piazza delle cerimonie di Denizli, è infatti una danza guerresca: non solo perché gli Zeibek e Efeler vestono in divisa, ma perché sfoggiano alla cintola il famoso yatağan, un lungo pugnale creato in durissimo acciaio dagli artigiani di una cittadina della stessa provincia, Yatağan appunto.
Troppo esile, questo legame, per giustificare l’Atatürk danzante di Tavas?
Sì: e ci sono quindi spiegazioni più intime, meno ufficiali per quella sua curiosa effigie. Anzitutto sappiamo che il futuro fondatore della Repubblica amava la musica ed era un buon ballerino. “Non può esserci rivoluzione senza la musica”, è una sua lapidaria affermazione.
E, se di rivoluzione si trattava, non ci si riferiva certo alle tradizionali danze ottomane. Difatti egli usava anche lanciarsi negli occidentali, appassionati valzer: oltre ad essere, appunto, un danzatore di Zeibek. Ma dobbiamo domandarci: di quale zeybek? Qui sta il cuore della faccenda.
Va ricordato che Mustafa Kemal era nato non nell’odierna Turchia, ma nell’attuale Grecia ‘balcanica’, e precisamente a Salonicco, allora parte dell’Impero ottomano. La sua casa, ora inglobata nel consolato turco, quando l’ho visitata era accessibile solo tramite presentazione del passaporto all’ingresso (e curiosamente condivide con la ‘Casa di Atatürk’ di Denizli il colore rosato degli esterni).
Ebbene, i turisti che frequentano la Grecia sanno che esiste una versione ellenica di questa stessa danza, detta zeibekiko: oltre chiaramente al nome, condivide col corrispettivo turco movimenti solenni e lenti, ampie giravolte, un insolito ritmo musicale (in 9/8 o 9/4) e le braccia levate al cielo come ali di uccelli in volo, che poi scendono a sfiorare il suolo con rapida flessione delle ginocchia.
Il passaggio dello zeibek anatolico dall’altra parte dell’Egeo è curiosamente proprio un frutto del collasso della Megali Idea: quando, dopo la tragica rioccupazione di Smirne da parte dei nazionalisti turchi e la successiva cacciata dei greci dall’Asia minore attraverso lo scambio forzoso di popolazioni sancito dal trattato di Losanna (1923), quella danza che anch’essi conoscevano e danzavano prima dell’esodo si trasferì nel patrimonio culturale della Grecia peninsulare. Ma quanto era diversa nel significato!
Quella che a Denizli e dintorni è esibizione collettiva, coordinata nei movimenti e guerresca, presso i greci è da sempre una danza solitaria e individualistica, o al più di pochi singoli che procedono ciascuno per proprio conto, quasi ignorandosi tra loro, seguendo la musica secondo un insondabile ed anarchico movimento interiore: dagli accenti sempre fieri, ma dolenti e melanconici. Del resto anche nell’esecuzione di una medesima arte non si manifestano le differenti vicende dei popoli?
Proprio perché la formazione di Atatürk precede l’inquadramento ufficiale degli Efeler e Losanna, egli ha sicuramente appreso prima, fin dalla giovinezza, in ambiente greco-macedone quei passi cadenzati, con un sentimento non diverso da quello con cui poi li muoveranno non i vincitori turchi, bensì i greci poi profughi dall’Asia.
Infatti, l’Atatürk danzante di Tavas non è ritratto come un Efe: è solitario, abbigliato civilmente, non ha attributi militareschi né cipiglio guerriero.
Del resto il principale artefice, con le sue vittorie, della catastrofe dei Greci in Asia minore, pur essendo un ferreo nazionalista non fu anche colui che, dal punto di vista culturale, ha occidentalizzato e laicizzato il Paese attraverso le incisive riforme attuate negli anni del suo governo?
È probabile che la danza col suo impulso trascinante e magnetico travalichi non solo i confini e le etnie, ma attraversi, e con ciò renda variegata, anche l’anima stessa degli uomini.
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