Turchia, i vent’anni di Erdoğan

Il periodo del potere di Erdoğan ha cambiato la Turchia. Ma è anche la Turchia che ha cambiato Erdoğan. Ne abbiamo parlato con la professoressa Valentina Rita Scotti, autrice del volume "La Turchia di Erdoğan" di recente pubblicazione per Il Mulino

16/05/2023, Francesco Brusa -

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Recep Tayyip Erdoğan © Sasa Dzambic Photography/Shutterstock

Erdoğan e l’Akp: un’anomalia autoritaria o un prodotto strutturale delle dinamiche della Turchia?

Io sono convinta che Erdoğan rappresenti innanzitutto il frutto di una tradizione politica già presente nel paese, una tradizione che tende a privilegiare gli uomini forti dotati di un certo carisma e capaci di parlare con un linguaggio efficace alla popolazione. Del resto, anche lo stesso Atatürk divenne il “padre della nazione” e leader incontestato del popolo per via di qualità simili, nonostante fosse circondato da tante figure molto valide dal punto di vista politico (molto di ciò che ha fatto non sarebbe potuto accadere senza il contributo di İnönü , per esempio).

Valentina Rita Scotti

Valentina Rita Scotti

Pure nella storia successiva alla fondazione della repubblica, passando per i vari colpi di stato, sono stati favoriti e privilegiati i generali forti. Per esempio, nel referendum del 1982 si scelse di unire la domanda referendaria per l’approvazione della nuova costituzione alla nomina a presidente di Evren , perché Evren era appunto una figura forte, carismatica e capace di attrarre consenso. Erdoğan può dunque essere visto come il frutto di un flusso e di una serie di dinamiche che hanno spinto la popolazione a misurarsi con la necessità di volta in volta di trovare un “padre della nazione”. Nello specifico, riesce a diventare il padre della patria di una generazione, o di un momento storico, in cui la Turchia usciva dal terremoto del ‘99 a cui l’allora governo a guida Chp non seppe dare una risposta soddisfacente (senza contare i vari scandali con cui si rese manifesto il sistema clientelare di governo e le connivenze fra mafia e politica).

Erdoğan emerge come una proposta nuova perché, pur ricollegandosi alle teorie di Erbakan , propone un modo diverso di fare islam politico: lo fa portando con sé il suo retroterra di “ragazzo del popolo”, nato nel quartiere povero di Kasımpaşa ed educato nella zona di Rize ma che allo stesso tempo ha saputo emanciparsi e studiare economia e intraprendere la propria carriera professionale. Incarna dunque un ideale di successo e incarna un programma che ai turchi di quel momento storico piace, perché è un programma che dà spazio alla voce conservatrice di gran parte del paese “profondo” e riesce a parlare a quella parte di popolo.

L’islamismo rappresenta un elemento importante della sua proposta politica…

Nel momento in cui l’Akp entra sulla scena politica, innova l’islam politico turco. In un certo senso, la religione viene utilizzata in senso machiavellico come instrumentum regni, cioè come richiamo a valori che fanno parte di un retroterra comune a molti. Non ci si appella a un ritorno ai principi della Shar’ia né a regolamenti esplicitamente discriminatori nei confronti delle donne, ma alla volontà di riconoscere un valore fondante e di appartenenza all’islam sunnita.

Si tratta di un elemento che chiaramente piace molto a tutti quei turchi che avanzavano forme di rivendicazione verso l’élite kemalista, che era composta soprattutto dalle classi sociali più colte e facoltose. Ed è per questo che Erdoğan riesce a fare presa all’inizio sulla Turchia anatolica e di fatto continua a mantenere la propria presa su quelle zone, combinando all’elemento religioso quello economico. Erdoğan offre alla Turchia il boom economico, crea la classe imprenditrice dei cosiddetti “calvinisti islamici” che gli assicurerà consenso e supporto finanziario. In più, il paese si avvia verso un riavvicinamento con gli standard europei cominciato anche prima dell’ascesa dell’Akp.

Come viene influenzata la visione della donna?

Quando noi parliamo di femminismo e di movimenti femministi, tendiamo a pensare solo a movimenti emancipatori progressisti, ma esiste tutta un’area che potremmo chiamare di “femminismo familiale” che in realtà chiede il diritto di manifestare la propria appartenenza religiosa, il diritto ad avere maggiore assistenza per la cura della famiglia, il diritto a una serie di cose che inquadrano pienamente la donna nella sua dimensione complementare, e non paritaria. La visione dell’Akp è proprio questa: parità dei diritti ma non uguaglianza. Uomo e donna vengono considerati solo giuridicamente pari, ma non uguali in quanto geneticamente differenti.

Ovviamente questa va sempre più scontrandosi con la visione del femminismo diciamo più tradizionalmente noto a noi, che in Turchia è molto attivo e che afferma che al contrario le donne hanno piena uguaglianza. Va inoltre detto che spesso l’uguaglianza di diritti sotto Erdoğan è una “finzione giuridica”: ad esempio, viene sì incentivato il lavoro femminile, ma allo stesso tempo viene rinforzato anche il loro ruolo materno e la necessità di procreare e occuparsi dei figli e del marito. In un certo senso, però, siamo dentro una linea non così nuova se guardiamo alla storia turca: se è vero che l’emancipazione femminile avviene molto presto (il diritto di voto è degli anni ‘30), è anche vero che questa veniva concessa perché si voleva far sì che il “nuovo cittadino turco”, meritevole di sedersi nei consessi internazionali, avesse accanto a sé una consorte “moderna” e presentabile. La donna veniva concepita in un senso comunque ancillare.

Le politiche di Erdoğan cambiano nel tempo…

Fino a Gezi Park si può parlare di periodo riformista dell’Akp, sebbene fra luci e ombre. Si cerca da un lato di armonizzare l’impianto giuridico turco con gli standard europei, si attua una riconfigurazione del ruolo dei militari nell’ordinamento, c’è un rilancio economico (nasce la cosiddetta "tigre anatolica" che cresce dell’8% ogni anno e risolve il debito col Fondo Monetario Internazionale, e con tassi di occupazione altissimi): tutto questo genera consenso.

Dal 2013 in poi iniziano a emergere delle linee di frattura in seno alla società, che erano sempre esistite ma che le proteste di Gezi rendono definitivamente manifeste. Si tratta di un dissenso che peraltro cresce perché intanto ci sono generazioni, nate a cavallo fra l’era di Erdoğan e l’era precedente, che probabilmente sono più propense a notare le compressioni dei diritti messe in campo dal governo, proprio perché avevano peraltro vissuto l’espansione dei diritti del decennio precedente. Mentre la generazione precedente aveva vissuto i governi di coalizione, l’instabilità politica e la crisi economica, quella che arriva al voto nei primi decenni degli anni 2010 era molto meno propensa a barattare i propri diritti in cambio di stabilità. Direi che questo è il primo punto di svolta. Nel secondo periodo dell’Akp c’è un cambio di passo verso l’autoritarismo competitivo.

Inoltre l’Akp con Erdoğan ha modificato la forma di governo turca, inventandone di fatto una nuova. Si è consolidata una forma di presidenzialismo molto peculiare: la definizione giuridica che spesso viene data più che di presidenzialismo è "governo del presidente". Un ordinamento atipico, in cui mancano i contrappesi tipici di altri sistemi come quello statunitense, per esempio. In Turchia, il presidente ha davvero enorme potere decisionale.

Erdoğan lascia una Turchia più divisa a livello sociale?

La Turchia prima di Erdoğan era sicuramente un paese molto più povero di adesso, tendenzialmente anche meno colto ed educato perché c’era un minore accesso all’istruzione. La crescita di ricchezza ed educazione, in un certo senso, porta anche a una maggiore problematizzazione di determinate questioni, a uno sguardo critico più diffuso. Credo che parte del dissenso per Erdoğan nasca anche da questo tipo di evoluzioni sociali, che rendono più evidenti delle linee di frattura preesistenti ma meno determinanti quando le preoccupazioni erano soprattutto economiche.

Io penso, però, che la Turchia risenta più di altri paesi delle dinamiche internazionali. Pensiamo anche alla questione curda: lo scoppio e le evoluzioni della guerra in Siria hanno ricondotto inevitabilmente quel problema in una dimensione più securitaria. Similmente, non dimentichiamoci che la Turchia si è vista chiudere le porte all’accesso in Europa e da lì sono cambiate molte politiche dell’Akp. In questo senso, credo che l’Ue abbia avuto una responsabilità da non sottovalutare nella deriva autoritaria di Erdoğan.

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