Turchia elezioni: Erdoğan mira al presidenzialismo

Il prossimo 10 agosto si terranno in Turchia le prime elezioni presidenziali con voto diretto. Il premier Tayyip Erdoğan, candidato dell’AKP e grande favorito, punta a introdurre un sistema presidenziale. Altri due i contendenti la poltrona del capo dello stato. Un’analisi

01/08/2014, Fazıla Mat - Istanbul

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Campagna elettorale del premier Erdoğan a Istanbul (foto L. Zanoni)

Nuovo appuntamento alle urne per la Turchia il prossimo 10 agosto. Per la prima volta nella storia del paese i cittadini saranno chiamati a scegliere direttamente il presidente della Repubblica. Una figura che in base all’attuale costituzione dovrebbe essere super partes, operando sopra i diversi poteri dello stato. In ballo però questa volta c’è dell’altro. Se a essere eletto sarà l’attuale premier Tayyip Erdoğan, candidato presidente del Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), sarà compiuto il primo passo verso la trasformazione del vigente sistema parlamentare in quello presidenziale, voluto dal primo ministro.

Da qualche anno, infatti, il premier afferma di volere portare in Turchia un sistema presidenziale sui generis dove la figura del “super presidente” (riprendendo un’espressione del noto costituzionalista turco Ergun Özbudun) elimina la “separazione dei poteri e non lascia traccia dei meccanismi di equilibrio”. Il primo ministro intende dunque continuare ad esercitare il potere esecutivo anche dopo l’elezione a presidente, poiché legittimato dal voto degli elettori.

Si annuncia così un presidenzialismo de facto per la Turchia, dal momento che il sistema parlamentare e la costituzione che lo sancisce restano per il momento inalterati. Il piano del premier prevede di portare a capo del governo un politico che segua le proprie direttive fino al 2015 quando, in occasione delle elezioni politiche, l’AKP potrà raggiungere una maggioranza parlamentare (di cui attualmente non dispone) in grado di modificare la costituzione ed introdurre una volta per tutte il sistema presidenziale. Tuttavia, sebbene i risultati dei sondaggi elettorali indichino Erdoğan – che vanta otto sfide elettorali vinte dal 2002 –  in vantaggio rispetto ai suoi avversari, secondo diversi analisti il piano del premier potrebbe incontrare alcuni non pochi ostacoli anche se venisse eletto.

Gli ostacoli di Erdoğan

L’incognita principale riguarda la persona che andrebbe a ricoprire la posizione di primo ministro in sua vece. Una figura che rispetti la volontà di Erdoğan, ma che al tempo stesso riesca a diventare un leader in grado di garantire la vittoria all’AKP nel 2015. Il nome dell’attuale presidente Abdullah Gül – co-fondatore assieme ad Erdoğan del partito –  viene spesso menzionato, e alcuni osservatori hanno ipotizzato la formazione di un tandem stile Medvedev-Putin. Ma la posizione di Gül, come pure quella di Erdoğan nei confronti di quest’ultimo, non è così chiara.

Il capo dello stato negli ultimi mesi ha rilasciato dichiarazioni contrastanti riguardo ad un eventuale ritorno in politica, affermando inizialmente di “non avere piani futuri in politica”. Più recentemente ha invece dichiarato che i suoi obiettivi saranno determinati “da quello che dirà la nazione”. In ogni caso Gül non sembra disposto a diventare un primo ministro fantasma e resta il dubbio di un’intesa tra i due. In più esiste una complicazione “tecnica” che però viene raramente menzionata: secondo la costituzione il premier deve essere scelto tra le fila del parlamento, ed anche questo costituirebbe un motivo di esclusione per l’attuale capo dello stato.

Un secondo nome che viene chiamato in causa è quello del ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu le cui qualità di leader sono però viste con scetticismo dai più. Secondo alcuni analisti, tutte queste complicazioni potrebbero comportare per Erdoğan il rischio di perdere il controllo sull’AKP – che la maggior parte dell’elettorato identifica con lui  – e di vedere crollare le sue ambizioni di arrivare al 2023 – centenario della fondazione della repubblica – quale leader indiscusso e presidente del paese.

Gli altri candidati alle presidenziali

Intanto, però, con mezzi economici e una visibilità mediatica incomparabilmente al di sotto di quella del primo ministro – che troneggia nella maggior parte delle reti televisive – la campagna elettorale prosegue  anche per gli altri candidati. Due i concorrenti in lizza oltre al premier: Ekmeleddin İhsanoğlu –  candidato congiunto del Partito repubblicano del popolo (CHP, principale formazione d’opposizione) e del Movimento nazionalista (MHP) – e Selahattin Demirtaş, attuale co-leader del Partito democratico dei popoli (HDP).

Vista la recente sconfitta subita ancora una volta dall’AKP nelle amministrative dello scorso marzo il CHP – stavolta in alleanza con il MHP – si è convinto che non avrebbe mai potuto ottenere il favore dell’elettorato conservatore con un candidato laico kemalista. Ha così deciso di puntare su İhsanoğlu, una figura inedita per il partito (“proposta dal CHP con l’aspettativa, l’idea e la speranza che possa ottenere il 55%  dei voti della Turchia”, come ha spiegato un deputato del partito fondato da Atatürk) e non mancando di suscitare polemiche e perplessità tra i suoi stessi elettori. İhsanoğlu si dichiara apertamente religioso ed ha appena concluso nove anni di servizio a capo dell’Organizzazione per la cooperazione islamica: una figura scelta quindi anche per il suo equilibrio nei rapporti con diversi attori internazionali sia tra il mondo arabo che quello occidentale.

İhsanoğlu si vanta di non fare parte “di alcun partito politico”, rivendica la figura del presidente quale “arbitro di fronte a tutte le correnti politiche” e, soprattutto, vuole mantenere il sistema parlamentare “riformandone i punti carenti”. È convinto sostenitore dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea, ma non sa cosa sia l’obiezione di coscienza ed ha remore per quanto riguarda l’inserimento del curdo come lingua di insegnamento nelle scuole (pubbliche), anche se difende il diritto di ciascuno ad imparare la propria madrelingua. Per lui il problema più grande è convincere l’elettorato del CHP (sebbene gli ultimi sondaggi indichino un aumento delle preferenze parallelo alla crescita della sua popolarità) ma soprattutto le fasce più intransigenti degli ultranazionalisti del MHP, che non lo considererebbero “uno dei loro”.

Una personalità politica giovane, che gode del favore di buona parte della sinistra turca e della popolazione curda (di cui egli stesso fa parte) è invece Selahattin Demirtaş. Si tratta del candidato più progressista, con una forte storia di lotta politica alle spalle. “Noi difendiamo la laicità libertaria, non il laicismo. Difendiamo al contempo tutte le fedi e ogni tipo di stile di vita”, afferma Demirtaş che ha tra i suoi obiettivi quello di attirare i voti degli aleviti e delle fasce più liberali e democratiche presenti tra l’elettorato del CHP. Il suo riferimento è ad una “democrazia radicale” che punta a diminuire il potere del governo centrale incrementando quello delle amministrazioni locali.

Qualche analista considera con sospetto la posizione di Demirtaş, per via delle trattative di pace in corso tra il governo Erdoğan e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Si teme un sostegno sottaciuto del movimento curdo al progetto presidenzialista di Erdoğan, che però Demirtaş puntualmente nega: “I curdi non contrattano con l’AKP. (…) le trattative di pace continueranno, a prescindere da chi diventerà presidente”.

La candidatura alla presidenza della Repubblica di un candidato curdo, fenomeno inedito per la Turchia, rappresenta anche una sfida particolare per Erdoğan, alla luce di quanto sta accadendo in Medio Oriente. “Il movimento politico curdo sta cercando di trasformare le consultazioni presidenziali in una dimostrazione di forza per sottolineare, dati gli ultimi sviluppi in Siria e in Iraq, il fatto di essere indispensabile a qualsiasi accordo che sia nazionale, locale e regionale”, scrive l’analista Cengiz Çandar.

Svolta illiberale, Medio oriente in fiamme

Da un anno a questa parte numerose vicende hanno segnato il percorso del governo turco, marcandone sempre più il carattere autoritario. Un autoritarismo che si esprime anche nel linguaggio, a tratti minaccioso e spesso sostenuto da riferimenti religiosi misti a dettami nazionalistici e moralistici. Le manifestazioni di Gezi Park dell’estate scorsa, le accuse di corruzione  rivolte all’esecutivo e mai propriamente confutate, l’accrescimento dei poteri dei servizi segreti, la limitazione della libertà di espressione (con tentativi di bloccare Twitter e Youtube), i mutevoli e complessi rapporti con il movimento di Fethullah Gülen, i maxi processi e gli interrogativi sull’imparzialità della magistratura rappresentano solo alcune di queste vicende.

A tutto ciò fa da sfondo un Medio Oriente in fiamme dove i rapporti con i vicini sono segnati da tensione se non da aperta inimicizia. La Turchia non riesce nemmeno ad aiutare i palestinesi sotto attacco a Gaza perché, come ricorda l’analista del quotidiano Radikal  Murat Yetkin, “non ha più ambasciatori in Israele, Egitto e Siria. Non le restano più canali aperti per aiutare i palestinesi cui ha sempre allungato una mano”. Intanto continua anche il silenzio imposto alla stampa sulle 49 persone che lo  Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL) ha rapito lo scorso 13 giugno dal consolato turco a Mosul.

La scelta del 12° presidente della repubblica della Turchia sarà un evento storico anche per tutti questi motivi.

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