Turchia ed Israele: la frattura diplomatica
Rimane alto il livello dello scontro diplomatico tra Israele e Turchia, iniziato a fine maggio 2010 con l’abbordaggio della Freedom Flottilla diretta a Gaza e che ha portato alla morte di nove civili. Oggi, dopo la pubblicazione del rapporto ONU sull’incidente della Mavi Marmara, si aprono pericolosi fronti di battaglia
Battaglia legale presso le Nazioni Unite, battaglia di cancellerie e note diplomatiche, ma anche battaglia linguistica, che sta assumendo toni sempre più violenti e che si prestano, purtroppo, a pericolose interpretazioni da parte dei mass media internazionali.
Venerdì 9 settembre infatti, un’intervista condotta dai giornalisti di Al Jazeera al premier turco Recep Taiyyp Erdoğan riportava una minacciosa affermazione secondo la quale la Turchia era intenzionata a fornire di scorta militare le navi dirette a Gaza per forzare il blocco israeliano e consegnare i generi umanitari alla popolazione. Un’affermazione che, se verificata, sarebbe suonata come una provocazione militare ad Israele, aprendo scenari “seri”, come ha subito puntualizzato il ministro degli esteri israeliano.
In realtà, la dichiarazione di Erdoğan era piuttosto diversa da quanto riferito dai media internazionali, essendosi il primo ministro turco limitato ad affermare l’impegno generale del naviglio militare turco nelle protezione delle navi di bandiera e di quelle impegnate nelle attività umanitarie.
Il subbuglio generato da questa dichiarazione e dalle errate interpretazioni che ne sono seguite rendono tuttavia bene l’idea del grado di tensione delle relazioni turco israeliane, recentemente innalzatosi a causa di una serie di mosse e contromosse diplomatiche.
Il rapporto Palmer
All’inizio del mese di settembre infatti, fonti ignote hanno diffuso su internet il secondo rapporto Onu sull’incidente della Mavi Marmara, prima ancora che fosse sottoposto alla visione del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon. Un primo rapporto dello UN Human Right Council del settembre 2010 era stato rigettato dal governo ebraico come parziale e sbilanciato a favore delle tesi turche, poiché le azioni israeliane venivano definite sproporzionate e brutali. Nell’estate 2010 quindi, era stata nominata una commissione presieduta dall’ex primo ministro neozelandese Geoffry Palmer e da Alvaro Uribe. Il rapporto Palmer, esamina nelle sue 105 pagine le ragioni dell’incidente, la posizione turca ed israeliana, la situazione in fatto ed in diritto del blocco e la legittimità dell’azione dello stesso da parte israeliana. Benché il rapporto riconosca l’eccessivo e sproporzionato uso della forza da parte israeliana e l’abbordaggio di naviglio straniero in acque internazionali, si astiene però dall’esprimere una condanna dell’azione d’Israele, come sperava il governo turco, riaffermando la sostanziale legittimità del blocco di Gaza da parte israeliana.
La risposta turca: scuse e risarcimenti
Davanti a queste conclusioni, non si è fatta attendere la risposta del ministro degli esteri turco Ahmet Davutoğlu, che in una dura nota del 2 settembre scorso, ha respinto il rapporto Palmer, definendolo “inaccettabile” e basato sulle motivazioni politiche del presidente Palmer e del suo vice Uribe, anziché su fatti e ragioni legali. Nelle nota si reitera l’accusa al governo israeliano di aver volutamente ritardato l’uscita del rapporto per poter proseguire l’attività di lobby ed influenzare le conclusioni del lavoro. Il governo turco sperava in una condanna da parte dell’Onu dell’abbordaggio, dei maltrattamenti e violazioni dei diritti dei prigionieri nei due giorni di fermo vissuti dai passeggeri delle navi abbordate, ed infine del blocco di Gaza. Il rapporto invece si limita a raccomandare ad Israele l’adozione di un “adeguate scuse” nonché l’offerta da parte di Israele di un pagamento alle famiglie delle vittime e dei feriti, due elementi che il governo turco pone invece come conditio sine qua non per il ristabilimento delle piene relazioni diplomatiche, accompagnate dalla fine del blocco di Gaza.
Il rigetto turco delle conclusioni del rapporto non è rimasto sulla carta, ma è seguito da una serie di azioni diplomatiche che gettano ulteriore pressione sulle già complicare relazioni con lo stato ebraico. Tra queste spiccano l’espulsione dell’ambasciatore israeliano e dei diplomatici fino al grado di secondo segretario; una mossa che si accompagna al richiamo dell’ambasciatore turco in Israele, nei giorni immediatamente seguenti l’incidente. Inoltre, tutti gli accordi di collaborazione militare sono stati immediatamente sospesi. Infine, il governo turco ha deciso di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) in merito al blocco di Gaza, cercando quindi un coinvolgimento della giustizia internazionale nella questione.
La politica estera turca e le rivoluzioni arabe
Benché relazioni economiche e commerciali israelo-turche rimangano illese in questo scontro – la Turchia figura tra i primi partner commerciali d’Israele, con un interscambio di quasi quattro miliardi di dollari all’anno – le ultime vicende diplomatiche si inseriscono in continuità con la politica estera promossa dal ministro Davutoğlu fin da quando il partito AKP (Giustizia a Sviluppo) è giunto al potere. Il raffreddamento delle relazioni politiche con Israele si inquadra infatti in questa linea di interessamento e miglioramento delle relazioni coi paesi arabi vicini – storicamente assenti della politica estera turca – volta, in ultima analisi ad un rafforzamento della posizione regionale ed internazionale per diminuirne la dipendenza dai paesi occidentali, tra cui Israele.
Questa strategia sta certamente avendo successo in termini politici, come testimoniano sia la grande popolarità di Erdoğan nei paesi arabi grazie alla sua politica di Islam moderato, unita al tumultuoso sviluppo economico turco, sia il tour dei paesi arabi che il premier turco si appresta a fare (12-15 settembre, Egitto, Tunisia, Libia). Per Erdoğan si preannuncia infatti un bagno di folla in tutti i paesi che visiterà, e specialmente in Egitto, anche a causa delle recenti tensioni tra il nuovo governo egiziano ed Israele dopo gli incidenti di confine dell’estate scorsa ed il recente l’assalto all’ambasciata d’Israele di venerdì 9 settembre. La Turchia infatti guarda con crescente interesse all’Egitto come futuro partner privilegiato dal punto di vista commerciale e strategico, come testimonia la possibile firma di protocolli economici e militari durante le visita nel Paese. Ciò acuirebbe senza dubbio il già grande isolamento diplomatico dello stato ebraico, stretto tra le tensioni con l’Egitto, l’iniziativa diplomatica palestinese all’ONU e l’instabilità siriana, che in caso di aggravamento (nonostante i tentativi di mediazione di Davutoğlu), coinvolgerebbe senza dubbio anche Libano ed Iran.
Restano tuttavia aperti diversi interrogativi
In primo luogo, occorre chiedersi come verrà eventualmente sostituito il grande ruolo israeliano nella cooperazione militare con la Turchia. Fin dal 1996 infatti la Turchia ha goduto non solo dei benefici delle esercitazioni congiunte, ma anche di un costante scambio di tecnologia ed intelligence, elementi che si sono dimostrati cruciali nella lotta contro il PKK. Citiamo, a titolo di esempio i droni impiegati per le ispezioni sulle montagne curde (ed anche sul Qandil). Anche per questo Israele è sostenuto a livello politico dalle èlites militari turche. Queste, più volte rintuzzate dal governo di Erdoğan, non hanno apprezzato la sospensione degli accordi militari e sono tradizionalmente più inclini a collaborare con l’occidente che coi paesi arabi. Il peggioramento delle relazioni con Israele si accompagna quindi ad un possibile aggravio sulle relazioni tra il governo ed i militari.
Infine, resta da chiarire il ruolo degli Stati Uniti in questa crisi diplomatica. La lunga stagione dell’amicizia turco israeliana si è sempre configurata come una relazione trilaterale, piuttosto che bilaterale, dove gli Usa hanno fatto perno su questi due paesi per disinnescare o indirizzare la loro politica mediorientale. Ciò è particolarmente vero per la Turchia, in riferimento anche ad Iraq, Siria ed ovviamente Afghanistan. La politica di zero problemi con i vicini della Turchia certo ne aumenta il peso diplomatico e strategico per nella regione, specie nel quadro della primavera araba, rendendo politicamente più “onerosi” i suoi servigi. Resta da vedere fino a che punto gli alleati occidentali saranno disposti ad accettare questo aumento di prezzo.
*Fabio Romano Assistente di Storia delle Relazioni Internazionali Università di Trieste