Turchia: accademici nel mirino
Centinaia di docenti e ricercatori turchi firmano una petizione per chiedere la fine delle operazioni militari anti-PKK nel sud-est del paese, a maggioranza curda. Dura risposta delle autorità, con arresti e licenziamenti
1128 docenti, ricercatori e studiosi turchi e curdi di 89 diverse università, sostenuti da importanti personalità mondiali quali Noam Chomsky, Immanuel Wallerstein e Etienne Balibar, hanno firmano la petizione “Noi non siamo parte di questo crimine”, un appello al governo turco perché cessino le operazioni militari nelle regioni curde sudorientali della Turchia, dove il conflitto armato, riesploso quest’estate, ha già causato centinaia di morti sia tra i combattenti che tra i civili.
Un appello condiviso in una conferenza stampa congiunta ad Istanbul ed Ankara, in cui è stato chiesto di porre fine alle violenze che sconvolgono numerose città del sudest, da settimane prive di cibo, acqua ed elettricità e sottoposte a pesanti bombardamenti e al tiro dei cecchini. La priorità è ripristinare quel processo di pace avviato nel 2012 e crollato subito dopo le elezioni del giugno scorso, quando il partito filocurdo HDP aveva ottenuto un successo storico entrando per la prima volta in parlamento.
La risposta governativa, tuttavia, è stata di tutt’altro tenore. Erdoğan ha reagito con la solita durezza e ha bollato gli “pseudo-studiosi” come “traditori”, accusandoli di fare propaganda in favore del PKK. Il giorno successivo l’Alto Consiglio per l’Istruzione (YÖK), l’organismo che regola e sorveglia tutte le università del paese, ha emesso un comunicato dove si dichiara che “provvedimenti appropriati saranno presi nei confronti dei firmatari, coerentemente con il quadro normativo vigente”.
Un’esplicita e preoccupante condanna, se si considera che soltanto il novembre scorso un emendamento alla legge in vigore ha dato allo YÖK gli strumenti per chiudere le università qualora gli amministratori intraprendano attività che minaccino l’integrità dello stato turco. Anche così si spiega la reazione di presidi e senati accademici nelle università coinvolte, dove l’attività lavorativa dei firmatari è stata sospesa mentre alcuni di essi sono già stati licenziati.
Anche l’autorità giudiziaria si è mossa tempestivamente con l’avvio di indagini contro i firmatari e numerosi arresti eseguiti nelle ultime 48 ore, con capi di accusa che vanno da “insulto allo stato, al governo e alla presidenza della repubblica” a “propaganda e sostegno al t[]ismo”. È crescente la sensazione di una giustizia che agisce su mandato diretto del presidente Erdoğan e di una progressiva erosione della separazione dei poteri repubblicani.
Ancora più preoccupante è forse la truculenta dichiarazione rilasciata da un noto esponente della criminalità organizzata turca, Sedat Peker, secondo il quale i firmatari dovrebbero “ringraziare la polizia e i militari che avete provato a discreditare”. “Faremo scorrere il vostro sangue, in modo così copioso da potersi fare una doccia”, ha poi minacciato Peker.
Nel frattempo si mobilitano le iniziative a sostegno degli accademici: organizzazioni studentesche e associazioni del mondo della cultura hanno espresso la propria solidarietà nei confronti degli accademici, sottolineando come sia importante non rimanere in silenzio di fronte alla gravità del conflitto in corso.
Attraverso Twitter, l’ambasciata americana ad Ankara ha espresso pubblicamente la propria preoccupazione per la repressione del dissenso in corso, con una dichiarazione che invita la Turchia a non confondere il dissenso con il tradimento e la condanna della violenza con il supporto al t[]ismo.
Anche il Consiglio d’Europa, attraverso il suo Segretario Generale Thorbjørn Jagland, ha espresso preoccupazione per la vicenda che alimenta la violenza anziché ricercare una soluzione pacifica.
Si mobilitano però anche le iniziative contrarie all’appello alla pace. Secondo alcune testate favorevoli al governo, una seconda petizione volta a condannare le azioni del PKK in Turchia e denominata Accademici contro il T[]ismo avrebbe già raccolto oltre 5.000 firme in pochi giorni.
Anche diversi giornalisti, tra cui l’opinionista Mahmut Övür, hanno espresso il proprio biasimo verso l’iniziativa dei firmatari dell’iniziativa di pace, accusandoli di essere ciechi di fronte alle violenze che il PKK infligge alla popolazione curda stessa.