Trieste Film Festival: repubbliche ex jugoslave protagoniste

Cosa è piaciuto e cosa è piaciuto meno in questa rassegna sul Trieste Film Festival. E domani si sapranno i vincitori

29/01/2016, Nicola Falcinella -

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Un'immagine tratta da Ljubezen na strehi sveta

Il più importante film dello scorso anno nell’area ex jugoslava (“Sole alto” del croato Dalibor Matanić, molto applaudito) per inaugurare, due film legati al Kosovo nel concorso lungometraggi, il nuovo lungo dello sloveno Jan Cvitkovič, “Šiška Deluxe” (ma anche il suo bellissimo corto “Ljubezen na strehi sveta – Amore sul tetto del mondo”), e parecchi documentari: le repubbliche già parte della Jugoslavia sono state ancora una volta protagoniste del 27° Trieste Film Festival (www.triestefilmfestival.it) che si chiude domani sera.

La più importante vetrina italiana dedicata al cinema dell’Europa centro-orientale ha confermato la propria vocazione e il proprio ruolo, rispetto alla città e rispetto a un sempre maggior numero di addetti ai lavori dell’Europa e non solo.

Oggi passa l’ultimo lungometraggio in concorso, giudicato dal voto del pubblico in sala, il lettone “Ausma” di Laila Pakalnina, già nota al pubblico del festival nonché già Premio Darko Bratina nella vicina Gorizia. Ancora passano la bella commedia nera “Comoara – Il tesoro” di Corneliu Porumboiu, all’interno del focus sul cinema romeno, e “Chevalier” della greca Athina Rachel Tsangari. Chiude invece la competizione documentari, che quest’anno vede la novità del premio Osservatorio Balcani Caucaso, il polacco “Bracia – Brothers” di Wojciek Staron sulla storia incredibile di due fratelli artisti novantenni sopravvissuti ai gulag staliniani. Domani prima della premiazione il ceco “Filmova Lazen” di Miroslav Janek, sullo storico Festival di Karlovy Vary, il più importante oltre cortina di ferro; e il bulgaro “The Prosecutor, The Defender, The Father And His Son” di Iglika Triffonova, ispirato alla storia vera di due avvocati durante un processo al Tribunale penale internazionale de L’Aja a Milorad Krstić, accusato di aver commesso crimini di guerra in Bosnia. Per la chiusura c’è invece “Chant d’hiver” del grande cineasta georgiano Otar Iosseliani, una commedia leggera e profonda sul non senso, l’amicizia, l’amore e la società odierna.

Tra gli otto titoli del concorso principale c’era l’esordio del kosovaro Visar Morina, “Babai”, già in gara proprio a

Karlovy Vary. Siamo negli anni ’90, il protagonista è Nori, 10 anni, figlio del venditore di sigarette Gezim. Vivono in una grande famiglia allargata con gli zii dopo che la madre se n’è andata. Il padre vuole andare in Germania e parte, lasciando Nori in ospedale per un incidente nel tentativo di fermarlo. È la storia dell’ostinazione del ragazzino, che farà di tutto per partire, rubando anche soldi destinati al matrimonio di uno zio e si aggrega a Valentina che vuol raggiungere il marito in centro Europa. Intraprende un viaggio rischio, attraversando anche l’Adriatico in nave. Non c’è tanto il racconto dei rischi degli emigranti (brutta la sequenza in barca con la panoramica su tutti i volti accompagnata da una musica che non c’entra nulla), se non le difficoltà economiche, quanto la ricerca disperata di un padre e l’elogio della determinazione di un bambino. Al di là dei temi, il film sconta una regia acerba e uno sviluppo un po’ scontato: una pellicola che è più importante per sostenere una cinematografia kosovara che si sta impegnando a crescere, più che del tutto riuscita.

Non convince neppure “Otadžbina – Patria” del serbo Oleg Novković, noto per la solida tragedia greca “Beli, beli svet – Bianco, bianco mondo” (2010). Anche stavolta il regista costruisce una storia corale intorno a un punto di ritrovo, in questo caso il ristorante “Da Bole” (Nebojsa Glogovac) a Belgrado, ma il risultato non è all’altezza. Tutto è preceduto da un prologo in bianco e nero in Kosovo, anche questo prima della guerra del ’99. Una grande tavolata all’aperto con parenti e amici serbi e tra gli ospiti c’è anche la famiglia di vicini albanesi. Nella scena successiva Jovan (Vuk Kostic) in divisa militare torna al villaggio e trova dei morti in casa e nel cortile. Ci si sposta più avanti nella capitale, per seguire alcune delle persone dell’inizio, che sono riuscite a fuggire, dal sabato delle Palme a Pasqua. Tra i personaggi una cantante fallita, l’arrogante padrone del ristorante, Jovan che impara a fare il macellaio e vuole sposarsi, la diciottenne Milica con imbarazzanti problemi di continenza. Tanti, troppi personaggi, non si capiscono bene i legami tra tutti loro e le motivazioni che li spingono. Al centro le storie d’amore e di figli, di chi ce li ha e chi li ha persi. Tra musiche di trubaci e kolo, sono troppi i cliché in questa grande periferia. L’aspetto interessante di questo film un po’ confuso riguarda il concentrarsi sui profughi, cercando di mostrarne le difficoltà senza compatirli. Il Kosovo resta per loro un luogo dell’anima (reso anche in modo idilliaco), ma si potrebbe contemplare anche l’ipotesi di un blando revanscismo su quel territorio: la coppia che nel finale ci torna a piedi, con una pecora in braccio, lo contempla dall’alto di una montagna come se stesse per mettere piede nella terra promessa.

Tra i fuori concorso interessante “Armenia!” di Francesco Fei, un racconto di viaggio sperimentale e toccante. Un viaggio in Armenia filmato in pellicola e montato direttamente in macchina: città e luoghi simbolo (come l’Ararat) e la vita delle persone, tra ricordi del genocidio che vanno letteralmente a sovrimporsi sull’oggi. Senza narrazione, senza parole, se non la lettura di alcune poesie, i suoni delle musiche di Massimo Zamboni che creano una sorta di trip e le musiche registrate nelle chiese. Un film di 40 minuti fuori schema, che restituisce un’Armenia complessa, dolente, bella, viva, immagini che rimandano ai migliori registi del cinema caucasico, da Parajanov a Pelesjan e trasmettono anche un senso di sacralità dei luoghi e delle genti.

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