Trieste Film Festival 2020: cosa c’è da ricordare

La storia di due fratelli ballerini in Georgia, il poliziesco "Heidi" ambientato in Romania, il documentario su Eva Fahidi, sopravvissuta ad Auschwitz infine il vincitore, "Il padre", tumultuoso viaggio di elaborazione del lutto di padre e figlio. Una rassegna sui film presentati al Festival di Trieste, conclusosi lo scorso gennaio

27/03/2020, Nicola Falcinella -

Trieste-Film-Festival-2020-cosa-c-e-da-ricordare

Un'immagine tratta da “The Father - Bashtata” di Kristina Grozeva e Petar Valchanov

Un assurdo viaggio di padre Vasil e figlio Pavel per elaborare il lutto della perdita della moglie e della madre. È il lungometraggio bulgaro “The Father – Bashtata” di Kristina Grozeva e Petar Valchanov, vincitore, sulla base del voto espresso dal pubblico in sala, del 31° Trieste Film Festival lo scorso gennaio. I registi, già noti per “The Lesson – Scuola di vita” e “Glory”, hanno confermato di saper raggiungere gli spettatori anche con un film più divertente dei loro precedenti. Le bizzarrie iniziano durante la sepoltura, quando il genitore pittore chiede al figlio di scattare un’ultima fotografia alla defunta da usare per un ritratto. I due apprenderanno che la vicina riferisce di ricevere telefonate dalla morta, mentre il marito è turbato perché il decesso è avvenuto prima che la moglie potesse comunicargli qualcosa e si convince di potersi mettere in contatto con l’aldilà. Intanto il figlio, filmmaker che lavora nella pubblicità, non ha detto nulla alla moglie incinta e, per spiegare la lontananza prolungata, racconta scuse lavorative sempre meno credibili. Anche perché le bizzarrie del padre si susseguono, volendo andare in visita da un santone locale in un crescendo di deliri. Nel dramma i due registi inseriscono elementi ilari che spingono a tratti verso la commedia, come la fuga dei protagonisti con un carretto rubato carico di zucche. Se nei due film precedenti la denuncia sociale era più chiara, qui la vicenda ha varietà di toni e pluralità di interpretazioni.

La mente di Eva non è rimasta ancorata al passato, “il fatto di essere vivi dà euforia” dice. E così il corpo ancora attivo, il corpo che si era annullato nel campo di prigionia e che ora si sente pieno nonostante l’età.

Nel concorso documentari è stato premiato l’ungherese “The Euphoria of Being” di Réka Szabó. Protagonista è Eva Fahidi che a vent’anni è sopravvissuta al campo di Auschwitz Birkenau ed è tornata a casa. Quarantanove membri della sua famiglia, tra i quali il padre, la madre e la sorella minore, persero la vita e li ricordano le pietre d’inciampo poste nelle strada di Budapest in cui vivevano. La donna è coinvolta da una regista teatrale per allestire una performance sulla sua vita insieme con la ballerina Emese da portare in scena in un teatro della città. Mentre provano, fanno esercizi e danzano, anche con l’aiuto di una sedia con le ruote che le agevola gli spostamenti, emergono i ricordi del passato. La donna racconta come nel campo la separarono dalle altre donne della famiglia o quando le rasarono i capelli e da allora non li ha più fatti crescere lunghi oppure le camere a gas e l’effetto dello Zyklon B. Attuale anche il ricordo sul padre che negli anni ’30 non capì cosa stava realmente succedendo e non portò via la famiglia. La mente di Eva non è rimasta ancorata al passato, “il fatto di essere vivi dà euforia” dice. E così il corpo ancora attivo, il corpo che si era annullato nel campo di prigionia e che ora si sente pieno nonostante l’età. Un documentario intenso e sentito, un ritratto di un’anziana e la danza che fa ricordare molto “Dancing with Maria” (2014) di Ivan Gergolet.

Dal Kosovo, nel concorso lungometraggi, è arrivato “Zana” di Antoneta Kastrati, ambientato in un villaggio vicino a Peja/Peć. Sono trascorsi dieci anni dalla guerra e Lume vive con il marito Ilir e la suocera Remzije, che la tiene sotto pressione perché non può avere figli e le prospetta, nel caso perdurasse la situazione, la possibilità di una nuova e più giovane moglie per il figlio. Tormentata dagli incubi, la donna è costretta a rivolgersi a stregoni e guaritori, perché le terapie mediche non sembrano avere successo. Il film è un dramma interiore e intimo impreziosito dall’intensa interprete Adriana Matoshi. La regista esordiente racconta di una protagonista rimasta sola ad affrontare il suo trauma e ricorda come è difficile guarire dalla guerra, in un paese che cerca di affrancarsi dal passato.

Tra i diversi film fuori gara c’era il romeno “Heidi” di Cătălin Mitulescu, un poliziesco particolare, basato su pochi elementi, che investiga sui due personaggi principali e la relazione che si instaura tra loro più che sulla vicenda criminale. Il sessantenne agente Visoiu è alla soglia della pensione e si occupa di piccole questioni, come un imbianchino che accusa un prete di non avergli pagato la cifra pattuita. Conduce una vita solitaria e tranquilla e l’obiettivo è portare a pescare il nipote, figlio della figlia parrucchiera. All’improvviso lo incaricano di rintracciare due giovani prostitute, testimoni di un caso di crimine organizzato. Visoiu rintraccia Silvia, detta Heidi, sfuggente, senza dimora e poco propensa a collaborare e cerca di convincerla arrivando a ospitarla in casa, finché il rapporto travalica i limiti e diventa più personale. Mitulescu (noto per “Come ho trascorso la fine del mondo” e “Loverboy”) firma un film tutto in movimento, un dramma dentro le coordinate del genere ma dilatandone le maglie. È anche il racconto di una società dentro la quale è difficile fare chiarezza e trovare la verità, dove i livelli si mescolano e si confondono.

Molto bello, nella sezione Art and Sound, il georgiano “And then we danced” di Levan Akin, già passato lo scorso anno a Cannes nella Quinzaine des realisateurs e che meriterebbe una distribuzione in Italia. Merab (la rivelazione Merab Gelbakhiani, capace di attraversare tanti stati d’animo e restituirli) è un giovane ballerino dell’accademia di danza nazionale, dove fa coppia con Maria. Figlio di danzatori di successo, balla da quand’era bambino, per lui la danza è la vita. Con lui c’è anche l’altrettanto talentuoso fratello David, che però non è molto motivato nella preparazione. All’improvviso compare il nuovo arrivato Irakli (Bachi Valishvili), a sua volta molto bravo, e qualcosa cambia nel gruppo. Per il protagonista sembra affacciarsi un nuovo rivale, anche perché nel frattempo la compagnia principale cerca un nuovo ballerino per sostituire uno escluso a causa di uno scandalo gay e si prepara un’audizione per scegliere il rimpiazzo. Da possibili antagonisti, i due giovani diventano amici e poi instaurano una relazione che li sorprende. Un film delicato nel trattare l’omosessualità, mai programmatico o dimostrativo, che riesce a sviluppare i tanti tipi di rapporti del protagonista e le relazioni familiari. Inoltre è il ritratto di una società ancora tradizionale, di cui la danza è espressione plastica, ma anche dinamica e in movimento rapido.

Ha ricevuto il Premio Corso Salani, destinato a un film italiano non ancora distribuito nelle sale, “La strada per le montagne” di Micol Roubini. Si tratta di un viaggio in un paesino dell’Ucraina sulla spinta del ritrovamento di una vecchia fotografia. La regista parte dalla memoria del nonno, che fuggì da quei luoghi durante la Seconda guerra mondiale per non farvi più ritorno, e cerca di saperne di più. Non riuscendo a sapere nulla e neppure giungere all’area dove sorgeva l’abitazione, recintata e sorvegliata da guardie armate, Roubini decide di fermarsi e indagare. Un film buio, molto notturno, che mette alla prova lo spettatore e lo costringe a metterci del proprio. Ci si perdere tra il non ricordare e le paure di dire, nei retaggi sovietici, nelle dimenticanze della guerra mondiale e nelle divisioni dell’Ucraina attuale. Come andare a sbattere contro il muro di una Storia nascosta, rimossa o dimenticata.

Premio OBCT

Per il quinto anno consecutivo è stato assegnato il premio "OBC Transeuropa" a uno dei documentari in concorso al Film Festival di Trieste, il più importante appuntamento italiano con il cinema dell’Europa centro-orientale giunto alla trentunesima edizione. Il 21 gennaio, presso il Teatro Politema Rossetti di Trieste, la direttrice di OBC Transeuropa Luisa Chiodi ha assegnato il Premio OBCT 2020 a "The euphoria of being" (A létezés eufóriája), della regista Réka Szabó.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta