Trieste è bella di notte
Il confine tra Italia e Slovenia, a Trieste, attraversa il Carso. Per qualcuno è un territorio da sogno, per altri un incubo. Intervista ai registi del documentario "Trieste è bella di Notte", Matteo Calore, Stefano Collizzolli, Andrea Segre, proiettato in prima assoluta al Film Festival di Trieste
Come è nata l’idea di realizzare questo documentario?
Andrea: Abbiamo iniziato a farlo prima di sapere che sarebbe poi stato un film. Siamo stati chiamati da Antonio Calò [di Treviso, docente di storia e filosofia che si è distino per aver accolto in famiglia diversi rifugiati e per questo insignito nel 2018 del premio "Cittadino europeo", ndr] che ci ha detto che secondo Gianfranco Schiavone, attuale presidente di ICS, dovevamo assolutamente fare un film su ciò che stava accadendo al confine italiano con la Slovenia e cioè sulle "riammissioni informali", cioè sui respingimenti di migranti attuati dalla polizia italiana. All’inizio ho risposto che, per mancanza di tempo, non ce l’avremmo fatta. Ma poi hanno insistito, sottolineando che si trattava di fatti importanti. Così siamo partiti per tre giorni, a primavera 2021 in piena pandemia, e abbiamo fatto lunghe interviste a dei ragazzi migranti, in pashtun e in urdu. Una volta sbobinate e tradotte, abbiamo capito che Calò e Schiavone avevano ragione…
Come siete entrati in contatto con questi migranti? Dove li avete intervistati?
Stefano: È stato molto facile, grazie a ICS e alla rete RiVolti ai Balcani che in questo ambito lavorano da anni. Quindi abbiamo ereditato un patrimonio sia di conoscenza che di fiducia costruita nel tempo, sia di mediazione con Ismail Swati che per ICS Trieste ha poi collaborato nella realizzazione del film. A questo si aggiunga che abbiamo una nostra storia pregressa, come produzione e autori, di lavoro su questi temi.
Matteo: Le prime interviste le abbiamo fatte in Italia, con persone che erano già arrivate a Trieste e presentato richiesta di protezione internazionale. Grazie a ICS Trieste che li seguiva, abbiamo potuto parlare con chi aveva subìto in passato una riammissione, o quanto meno ne era stato testimone. Nella prima fase, le interviste ci sono servite per avere delle testimonianze fisiche di quello che era accaduto, e consegnarle poi alle realtà della società civile che fanno opera di denuncia. Poi, rileggendo la sbobinatura tradotta, abbiamo capito che aveva molto senso farne un film. Io e Stefano abbiamo deciso di andare a Bihać, in Bosnia Erzegovina, dove ci hanno aiutato molto il Border Violence Monitoring Network e Silvia Maraone, che per Ipsia lavora lì da tempo nell’assistenza a rifugiati e transitanti, oltre ad altri che operano sul terreno.
Era la prima volta che andavate in Bosnia o ci eravate già stati in passato?
Andrea: Tutto per noi è iniziato nei Balcani anni fa, sebbene sembri l’altro ieri, come sai [Andrea Segre si riferisce alle sue esperienze di primi laboratori di video partecipato in Albania, da volontario di ICS, ndr] e da allora l’abbiamo condivisa dentro Zalab che è nato allora proprio dentro ICS, e siamo tutti cresciuti lì dentro.
Stefano: per lavorare in loco è bastato poi molto poco, dato che le persone che dovevamo intervistare avevano già una relazione costruita con le reti presenti sul terreno. Per cui quando siamo arrivati allo squat [un rudere abbandonato, usato dai migranti per ripararsi, ndr] è bastato scambiare due parole con i migranti e abbiamo iniziato subito a registrare.
Matteo, tu sei anche direttore di fotografia. Quali difficoltà hai trovato e strategie hai usato nel girare in un luogo così, con poca luce, condizioni disagevoli, spazi ristretti?
Matteo: In realtà è un luogo tipico in cui ci capita di girare negli ultimi 15 anni, per cui sappiamo come affrontare la situazione. Da un punto di vista puramente fotografico quegli spot rendono sempre molto: perché si cucina bruciando plastica, legna e altro, per cui tutti i muri sono anneriti e l’unica luce che entra, perché non c’è corrente, arriva dalle finestre o dal fuoco. Per cui, il mio lavoro è solo quello di mettere la macchina da presa nel punto giusto tra la persona e la luce. Abbiamo avuto un po’ di difficolta di notte, abbiamo usato una ventina di luci e pannelli solari comprati lì da un rivenditore cinese, che poi abbiamo regalato agli intervistati in caso fossero serviti per il viaggio (il "Game ”).
Fotograficamente, abbiamo giocato un po’ con i grandi falò tutt’intorno allo squat, appiccati dai contadini per preservare il territorio dagli incendi veri nei mesi estivi. In pratica bruciano la prima fetta di erbacce di bosco, così in caso gli incendi non si espandono e diventano pericolosi. Per cui si è creata un’atmosfera surreale, con le fiamme e il fumo che avvolgevano tutto fuori e dentro allo squat.
Sempre dal punto di vista artistico, da dove nasce la scelta di non usare una voce fuori campo, nel montaggio del documentario?
Andrea: non l’abbiamo quasi mai fatto se non in due lavori molto diversi da questo. In realtà la voce off, cioè l’autorialità e “l’io”, è talmente tanto presente oggi che anche noi ne siamo stati un po’ influenzati. Ma per “Trieste è bella di notte” ci siamo ricollegati subito ad una nostra scelta di tanti anni di lavoro: cioè provare a mettere una nostra competenza tecnica al servizio di chi ha davvero qualcosa da raccontare, cioè i protagonisti.
Matteo: Inoltre, una cosa a cui facciamo molta attenzione e che è fondamentale, ma che purtroppo in molti documentari non capita, è quella di lasciare le persone parlare nella propria lingua mentre giriamo le immagini. Anche se non capisci tutto, anche se può crearti difficoltà nel momento della ripresa, in realtà ti permette di lasciare gestire il racconto a chi parla.
Andrea: E ti costringe ad ascoltare di più. Perché se intervisti in inglese o in francese, o usi un mediatore nelle interviste, vai a cercare subito quello che ti eri prefissato. Se invece intervisti in pashtun, al momento non capisci niente, ma quando torni a casa devi tradurre tutto e devi lavorare molto di più su quel testo. E leggendo i testi spesso capisci molto di più, trovi i tratti più profondi del racconto.
Stefano: C’è anche un altro aspetto, secondo me. Mentre fai l’intervista ascolti in una lingua che non conosci, sei in qualche modo impotente, ma percepisci molto di più le emozioni. Per cui fai una prima lettura sui punti in cui avverti, anche se non capisci le parole, che è qualcosa di molto importante per chi sta parlando, e poi fai la seconda lettura sul testo tradotto. Questa doppia lettura ci ha permesso di andare in profondità nelle interviste, che già di per sé erano molto molto piene. Per altro, con protagonisti che si sono resi disponibili ad un racconto molto libero e intimo, esprimendo emozioni, fragilità…
Matteo: Con la fortuna, inoltre, di avere avuto Ismail Swali, che di fatto durante le riprese è stato un aiuto regista, non solo un mediatore. Mediatore culturale di ICS, è stato anche uno degli studenti della scuola di cinema documentario di video partecipativo di Zalab un paio d’anni fa, per cui conosce bene il nostro modo di lavorare. Ha un’enorme sensibilità e quindi è stato in grado di non fare il "traduttore da tribunale" o il mediatore "classico"… questi sono dannosi, perché traducono magari in modo più forbito ciò che sta dicendo l’intervistato o lo interrompono, e questo distrugge la tua relazione con chi narra.
Andrea: È un po’ quello che accade nelle commissioni che valutano le richieste di asilo, un disastro, diventa una narrazione in cui l’intervistato viene "schiacciato" dall’intervistatore. Invece Ismail ha avuto la capacità di stare lui stesso dentro la relazione. Dopodiché, durante le riprese ogni tanto ci si fermava, alcune cose le capivamo, come ha già detto Stefano, altre ce le spiegava Ismail. A volte ponevamo delle domande all’intervistato per capire meglio. Ma comunque, Ismail è stato fondamentale, ha avuto rispetto del tempo della narrazione come dei silenzi. Oltre a lui, cruciale è stata Chiara Russo che ha montato il tutto, in pashtun e urdu, senza capire una parola… Negli anni, lavorando con noi, ha sviluppato un’incredibile capacità di montare dialoghi in lingue che non conosce. L’ha fatto con il kazako, con il bengalese, con vari dialetti africani…
Matteo: Inoltre, è stata centrale un’intuizione di Ismail. Ha capito come creare subito, in pochi giorni, un rapporto di fiducia con quei ragazzi che vivevano nello squat. Non portando il tipico aiuto umanitario, ma qualcosa di più personale, che permettesse di far sentire loro che c’era una condivisione reale di quello che avevano appena passato, perché anche Ismail è un migrante. Ha portato il suo rabab [strumento simile al liuto, usato dalle tribù pashtun, originario dell’Afghanistan e usato anche in Pakistan e parti dell’India, ndr] e quindi in dono la musica pashtun. Dentro quelle mura, dove non c’è nulla, questi momenti di musica sono diventati attimi di fortissima emozione e condivisione, quasi liberatori.
Possiamo dire che avete portato un momento di normalità, anzi potremmo dire di "lusso", cioè la possibilità di suonare e cantare in un luogo del genere?
Stefano: Forse anche perché è lo strumento di casa, di forte identità. I loro viaggi che durano anni sono molto spogli, per necessità viaggiano senza niente di proprio. Non ti appartengono nemmeno i vestiti, che per esempio ti sei procurato per attraversare le montagne croate, ma che non ti appartengono. Mentre il rabab appartiene alla tua infanzia come al tuo personale futuro.
C’è stato dall’inizio l’intento di fare opera di denuncia rispetto al tema delle "riammissioni informali" perpetrate della polizia di frontiera italiana verso la Slovenia?
Andrea: Il lavoro nasce da lì, è stato il punto centrale da cui siamo partiti per realizzarlo. Quindi sia per dare voce all’aspetto umano e al vissuto di queste persone, sia per dare solidità alla richiesta di ICS Trieste. Cioè raccogliere interviste, materiale, da usare per campagne di denuncia delle violazioni.
Stefano: Al di là di quell’obiettivo iniziale, in tanti nostri lavori tentiamo sempre di raccontare una storia per dire che è sbagliata, che la sofferenza del viaggio è gratuita e inutile. In questo documentario c’è soprattutto la volontà di ascoltare quel viaggio, ma non pone una tesi, apre domande. Nel senso che rispetto alle cosiddette "riammissioni informali" non siamo solo noi, Zalab, ICS o Rivolti ai Balcani a dichiararne l’ingiustizia… c’è una sentenza emessa da un organo dello stato italiano [vedi sentenza del Tribunale di Roma di gennaio 2021, ndr] che ne ha decretato l’illegalità. E nonostante questo, di recente è stato annunciato dal ministro Piantedosi che ricominceranno. Quindi, oltre ad essere umanamente sbagliato, porta anche alla luce forti contraddizioni.
Andrea: Questa, oltretutto, è una dimensione che manca un po’ troppo nella comunicazione umanitaria. Non siamo i primi e non saremo gli ultimi ad affrontare il tema, e menomale, ma la maggior parte dei film che ho visto sul "Game" non mette l’accento sulle responsabilità politiche, non si dice chiaramente da dove origina la storia che stiamo raccontando…
A proposito di responsabilità politica, in "Trieste è bella di notte" avete inserito anche delle voci istituzionali. Avete avuto difficoltà ad ottenerle?
Andrea: Abbiamo incontrato difficoltà enormi. Nello sviluppo del montaggio abbiamo capito che si doveva arrivare a chiarire l’enigma di cui parla Stefano, e cioè che c’è un pezzo dello stato, quindi il Tribunale di Roma, che elenca una quantità di motivi incredibile secondo cui la riammissione informale è illegale, e un altro pezzo di stato che intende proseguire nell’illegalità. Quando abbiamo letto a fondo il testo della sentenza, con l’aiuto dei legali di ASGI , abbiamo capito l’importanza di inserire nel documentario l’intervista alla giudice Silvia Albano che l’aveva emessa. Inizialmente si è mostrata titubante, temeva di non riuscire a spiegarla in poco tempo e parole chiare. Invece è stata fantastica: in 3 minuti e mezzo riesce a sintetizzare una sentenza di nove pagine, in maniera magistrale.
Dopo questa intervista era necessario ottenere anche la posizione del ministero dell’Interno. Anche perché a seguito della sentenza aveva tenuto un pesante silenzio, non si era espresso nemmeno per criticarne il contenuto. Anzi, non solo non ha reso pubblica alcuna reazione, ma ha addirittura presentato ricorso con un escamotage: dice che la sentenza non è valida perché non è dimostrato che la persona che ha presentato la denuncia è stata in Italia…! Ovvio che non è dimostrabile con un documento, è stata una "riammissione informale" quindi senza alcun procedimento di registrazione formale.
La trattativa con il ministero è stata molto lunga, la prima richiesta l’abbiamo fatta a marzo-aprile 2022, dopo il silenzio, per due mesi ci è stato detto un no deciso. La risposta affermativa è arrivata solo dopo che abbiamo informato che la giudice Albano aveva accettato di essere intervistata. Il ministero ha sentito il bisogno di rispondere e ha scelto di farci intervistare il prefetto di Trieste Annunziato Vardè, non direttamente il ministro Piantedosi. Il risultato lo vediamo nel documentario… Se non altro, siamo i primi a cui il ministero ha dato una risposta ufficiale.
Dove nasce la scelta del titolo del documentario?
Andrea: È nato da una scena molto intensa, in cui l’intervistato risponde ad una domanda che abbiamo fatto a tutti, in maniera un po’ provocatoria, anche vergognandocene un po’… Cioè se durante il loro viaggio c’era mai stato un momento felice. Alcuni ci hanno risposto "Ma che domanda è?!" e abbiamo dato loro ragione… Ma in realtà è una domanda che cercava di dialogare con elementi di energia che ci sono nel fare un viaggio del genere. Si racconta sempre il dramma, che c’è, per carità!, ma devi anche avere una forza di carattere notevole per riuscirci.
Le risposte che emergono nel film aiutano in realtà il transfer tra spettatore e intervistato. Perché emerge non solo colui che scappa, vestito di "stracci", ma anche la persona, che vive momenti di gioia e felicità…
Andrea: Assolutamente sì. E infatti Daniel, che è una persona estremamente intelligente, ha risposto alla domanda. All’inizio, ascoltandolo nella sua lingua, abbiamo colto che ha nominato Trieste. Solo dopo Ismail ci ha riferito il contenuto e abbiamo capito che poteva essere un punto cruciale del documentario.
Stefano: La scelta del titolo ha subito molti passaggi, come accade sempre quando si fa un film. All’inizio era più legato alla contraddizione interna allo stato italiano di cui parlavamo prima, ma anche alla dimensione europea. Perché qui parliamo del confine con la Slovenia, ma sono fatti che avvengono anche al confine con la Francia, la Svizzera, e così via. Alla fine, siamo tornati su quel passaggio di Daniel. Perché è un momento di vita importante di una persona: l’attimo in cui vede le luci di Trieste dall’alto di notte appena arrivato in Italia, come la potrebbe vedere un qualsiasi ventenne, in una parentesi normale della sua vita quando la sera esce a far serata.
Il punto centrale di questo lavoro è il respingimento. Dalle interviste emerge essere un forte trauma, che si aggiunge violentemente ai tanti altri vissuti durante il viaggio.
Stefano: Il respingimento è un trauma vero per tutti, un trauma più profondo di altri. Nel racconto emerge come un momento duro. I protagonisti raccontano delle violenze terribili subite dalla polizia croata durante il respingimento, che sono in sé un trauma. Ma quello che emerge è soprattutto, e lo ripetono più volte, l’inspiegabilità: "Perché lo fanno? Come può un essere umano comportarsi così?". Il respingimento viene definito nelle interviste con parole come "l’Apocalisse", "un inferno", "la mia vita era finita". Oppure, "ho pensato di tornare indietro… era meglio morire", e questi due sono sinonimi, perché parliamo di persone che sono fuggite dal loro paese per non morire.
Qui troviamo un elemento molto grave: una violenza meno visibile delle percosse dei paramilitari sulle montagne croate, ma più profonda perché tronca il progetto, già difficile dall’inizio, e in maniera inspiegabile. Ad esempio, un protagonista racconta come dello stesso gruppo con cui viaggiava, alcuni sono stati respinti ed altri no, senza una ragione. Per anni hai seguito una luce, l’unica certezza che hai è che una volta che arrivi ti aspettano dei diritti che ti sono garantiti. Perché invece chi dovrebbe garantirti quei diritti e aiutarti ti rimanda indietro? Psicologicamente è devastante, ti crolla tutto.
Stefano: La frase più bella del film, secondo me, è quella dello stesso protagonista che racconta del respingimento e che dice "Per me è stata l’Apocalisse" e poi aggiunge, vista l’arbitrarietà dell’applicazione dei diritti, "A questo punto togliete questa cosa del diritto d’asilo". Come dire che è meglio sapere che non c’è, almeno non partono per il viaggio con l’idea che sia possibile. Siate onesti…
Avete un programma di proiezioni già molto intenso e continuano ad arrivare richieste da tutt’Italia.
Andrea: Sì, ed è un segno molto bello. Il nostro incoraggiamento a tutti è di invitare, in occasione delle proiezioni, anche i protagonisti del documentario, soprattutto Ismail, ma anche gli altri ragazzi, alcuni dei quali nel frattempo sono arrivati in Italia dalla Bosnia. È importante portare in giro e far parlare chi è coinvolto in prima persona, chi ha vissuto quel viaggio.
Il documentario
Il confine tra Italia e Slovenia è sulle colline, sopra Trieste. Se lo attraversi a piedi di notte le luci della città brillano nel mare. Può sembrare l’avverarsi di un sogno. O l’inizio di un incubo. "Trieste è bella di Notte" è il nuovo film di Matteo Calore, Stefano Collizzolli, Andrea Segre che racconta le riammissioni al confine tra Italia e Slovenia presentato in anteprima mondiale il 22 gennaio al Trieste Film Festival – Alpe Adria Cinema. Già molte le date delle proiezioni previste in tutta Italia, si veda l’elenco in continuo aggiornamento sul sito di Zalab .
Prodotto da ZaLab Film e Vulcano con il sostegno di Open Society Foundations, in collaborazione con Associazione Culturale ZaLab e Forum Per Cambiare L’ordine delle Cose, in collaborazione con ICS e Rivolti ai Balcani, con il patrocinio di Amnesty International e Medici Senza Frontiere. Si veda il trailer .
Trieste è bella di Notte inoltre sostiene la rete RiVolti ai Balcani. A seguito della collaborazione nella realizzazione del documentario, Zalab ha deciso di devolvere alla rete il 30% dell’incasso dalla sottoscrizione di un abbonamento on-line ai loro video.