Trent’anni di Medjugorije
Il 24 giugno del 1981 in un paesino bosniaco alcuni ragazzini dichiararono che era apparsa loro la Madonna. Trent’anni di Medjugorije, uno dei santuari mariani più conosciuti e più controversi del mondo. Tra religione, politica e guerra. Un reportage pubblicato su Il Riformista e da noi ripreso
Fonte: Il Riformista, 24 giugno 2011
C’è molto di più dietro alla collina di Medjugorje, di quanto sospettino i pellegrini che festeggiano il suo trentesimo anniversario in questi giorni.
Dietro alla collina di Medjugorje c’è, per esempio, una foiba, nella quale vennero trucidati, nel 1941, quattrocento civili serbi. A Šurmanci il monumento in loro onore oggi non esiste più: Tito, cercando di riconciliare le etnie dopo la Seconda guerra mondiale, aveva fatto calare una cappa d’oblio sulla vicenda. Durante gli anni ottanta ed il revival nazionalista, a memoria delle vittime, venne costruito un monumento. Oggi l’eccidio è dimenticato e il memoriale cancellato. Esattamente come le minoranze ortodosse e musulmane, vittime durante gli anni novanta della pulizia etnica delle milizie dell’HVO. I pellegrini che da tutto il mondo sono a Medjugorje di questo non sapranno nulla: ai loro occhi, la fede e la politica rimarranno due cose disgiunte.
Non si renderanno conto della sovrabbondanza di bandiere croate e della mancanza di quella nazionale. L’unica, scriveva Allan Little qualche anno fa, ad essere completamente assente nella grande distesa umana che è qui, radunata ad adorare la Madre di Cristo.
Medjugorje è in Bosnia Erzegovina, a una ventina di chilometri di distanza da Mostar. Eppure Medjugorje non è Bosnia Erzegovina, è qualcos’altro. Dietro il fatto religioso, qui s’incontrano le tensioni che vent’anni fa insanguinarono la Jugoslavia. E che oggi non sono ancora risolte. Il paesino (in realtà la località più internazionale di tutta la Federazione) ha un valore politico ed ideologico fondamentale, soprattutto per i cattolici di Erzegovina, ovvero i croati.
Per comprendere l’intrico di vicende e di fedi che stanno alla base dell’importanza di Medjugorje, occorre pensare per un istante al Medioevo. A quando, cioè, nei Balcani tre culture andavano stratificandosi lungo una doppia linea di conflitto. Come è noto, questa terra ha visto confrontarsi il mondo cristiano e quello musulmano. A questa divisione se ne sovrapponeva poi un’altra, tra i croati che si ergevano a difensori del cattolicesimo ed i serbi, che non hanno mai smesso di inseguire il miraggio di un panslavismo ortodosso. È una separazione storica che data ancora alla scissione tra Roma e Bisanzio.
Nell’incertezza politica che caratterizza la storia dei Balcani, a partire dal quindicesimo secolo, sono i Francescani ad assumere un ruolo predominante nel cattolicesimo in Erzegovina. Sono loro a garantire la continuità della tradizione. Il nazionalismo croato ne esalta la storia, facendo di essi gli eroi capaci di preservare l’identità del popolo anche sotto il giogo musulmano. Il peso dei Francescani, nella regione di Medjugorje, è sempre stato molto più significativo di quello del Vaticano. Essi tendono, anzi, a serbare una certa autonomia che Roma riesce difficilmente ad accettare.
Il legame tra francescanesimo e estrema destra si rinforza, nel corso del ventesimo secolo, al momento della Seconda guerra mondiale. Lì, forse per la prima volta, diventa davvero palese la koiné che si può instaurare tra il mondo religioso e le frange più estreme del nazionalismo croato, i temibili "ustascia" di Ante Pavelić. I Francescani, in Erzegovina, sostengono attivamente queste forze che operano al fianco di Hitler. Alla fine del conflitto, solo lo sforzo di Tito riuscirà, per almeno trent’anni, a soffocare le differenze di fede e le istanze indipendentiste.
Occorre contestualizzare la prima apparizione di Medjugorje in quella che è la situazione politica nel 1981. In Jugoslavia Josip Broz è morto e questo fa assaporare al popolo una prima libertà: tutto è possibile, in politica così come nelle arti e nella cultura. Riprende piede il nazionalismo che fino a quel momento era rimasto in sordina. La sua manifestazione più immediata è quella religiosa.
Nella collina che quarant’anni prima aveva accolto le vittime di un eccidio ustascia, appare la Gospa, la Madonna in lingua croata. Non deve quindi sorprendere che gli eventi di Medjugorje assumano quasi da subito un aspetto patriottico. La Vergine è il simbolo dell’anelito nazionalista croato e al tempo stesso un "segno" tangibile, capace di generare la speranza che un nuovo ordine sia possibile e che la fine del comunismo si avvicini.
In effetti, nonostante le iniziali perplessità del governo jugoslavo, il capo dei Francescani locali (Tomislav Vlašić) è abilissimo nello sfruttare l’impatto ideologico di un santuario mariano all’interno di un Paese comunista.
Già durante gli anni ottanta milioni di pellegrini visitano il villaggio, che prospera e diventa sempre più ricco. Cosciente di questo, la "Gospa" di quando in quando suggerisce ai veggenti anche il luogo dove costruire determinate attività commerciali. Vlašić è anche abile a sfruttare Medjugorje per sottrarsi alla tutela del Vaticano. All’inizio degli anni ottanta, infatti, Papa Giovanni Paolo II aveva intimato ai Francescani di cedere il controllo delle proprie comunità alle diocesi, e all’amministrazione del vescovo di Mostar. Medjugorje diventa un’ottima carta giocata nel migliore dei modi, capace di rinsaldare al tempo stesso l’unione tra nazionalisti croati e Francescani, e di allontanare la longa manus del Vaticano. Che, non a caso, si rifiuta di riconoscere il miracolo e nel 1991 lo dichiara inesistente.
La guerra di Bosnia tocca solo di striscio la località, che continua persino ad ospitare pellegrini. Combattenti nazionalisti dell’HVO croata pregano a Medjugorje prima di dedicarsi alla pulizia etnica nei confronti dei serbi (pochi, allontanati già nel ’91) e dei musulmani. A pochi chilometri dal santuario viene creato un campo di concentramento, a Čapljina: per arrivarci i prigionieri musulmani devono attraversare il villaggio e viene loro posta una benda sugli occhi, affinché "non inquinino con il loro sguardo" la santità del luogo. La pulizia etnica ha un successo tale che alla fine della guerra il Vaticano, cercando di convincere i Francescani a cedere il controllo della comunità, potrà affermare che non ha più senso la loro attività di proselitismo, visto che non esistono più minoranze da convertire.
I Francescani avranno così poco desiderio di rinunciare alla loro autonomia che il vescovo di Mostar, Ratko Perić, verrà sequestrato e picchiato per dieci ore, prima di essere rimesso in libertà. Ancora una volta, durante la guerra civile in Bosnia i Francescani sostengono attivamente le attività dell’HVO e le frange violente dei croati di Mate Boban. Lo fanno anche attraverso il controllo diretto della Hercegovacka Banka, che finanzia (anche grazie ai proventi di Medjugorje) le attività delle bande paramilitari cattoliche. Il 6 aprile 2001, quando le forze internazionali di pace cercano di sequestrarne i conti, con il sospetto che siano serviti a sostenere attivamente i criminali di guerra, a Medjugorje ed in tutta la regione dell’Erzegovina c’è una violenta manifestazione che porta, tra l’altro, alla chiusura delle chiese ed al ferimento di una ventina di operatori internazionali.
Medjugorje è più di un santuario mariano. È un luogo di culto in un Paese in cui la religione è, per parafrasare Clausewitz, «la continuazione della politica con altri mezzi». Il suo valore simbolico, per la popolazione croata, è fuori di discussione. La dichiarazione d’indipendenza della Croazia venne proclamata nel decimo anniversario della prima apparizione, vent’anni fa. I principali partiti nazionalisti croati di Bosnia, l’HDZ e l’HDZ-1990, sono attivi frequentatori del luogo ed i loro leader oggi vi fanno visita periodicamente. Questo piccolo villaggio rappresenta la Mecca di quella repubblica croata di Herceg-Bosna che non si è riusciti a creare negli anni novanta.
Oggi, nel trentesimo anniversario della sua fortuna, Medjugorje è gremita di pellegrini. Angela vi accompagna il figlio in sedia a rotelle: «Veniamo dall’Italia. Abbiamo provato di tutto, non resta che questo». Alle bandiere croate, che sventolano sulla sua testa, non sembra fare caso.