Transilvania: memoria di cetriolini in salamoia

Per le famiglie emigrate dall’est Europa, gli affetti e la memoria si tramandano anche attraverso le eredità culinarie. Ricordando la passione di Erzsebet per il caffè, e la sua ricetta di cetriolini in salamoia andata perduta, si intrecciano ricordi distanti e recenti di una nonna transilvana

09/02/2023, Sielke Kelner -

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Erzsébet Nagy nella cucina di uno degli alberghi dove ha lavorato - foto, archivio Sielke Kelner

Lo scambio di delizie provenienti dal paese di origine a quello ospitante e viceversa è una tradizione consolidata nella mia famiglia. Del resto, è un’usanza di molte altre famiglie che dall’Europa orientale sono immigrate in Italia. Due o tre volte l’anno, poco importa quando purché si evitino le temperature roventi estive, ricevo il pacco dalla Romania, affidato da mio padre ad una piccola ditta di autotrasportatori i quali, partendo da Iași, nella regione moldava della Romania, ed attraversando la Transilvania, percorrono i circa 2000 chilometri che ci separano una o due volte alla settimana. Giungono a destinazione decine di barattoli di marmellate di mirtillo e di lamponi, zacuscă, giardiniere, cetriolini sottaceto, crauti, sciroppi di gemme di abete, ed ancora sciroppi di lamponi e mirtilli; noci, lardo, salsicce, carne sotto strutto, e farina di mais macinata grossa. La celebrata palinka, il distillato transilvano, il più pregiato quello di prugne. Tutto fatto in casa da mio padre o da questa o quella zia, questo o quel cugino.

In cambio, mio padre e le zie ricevono pacchi di specialità italiane: panettoni, pandori, colombe, a seconda della stagione, olio d’oliva, parmigiano, rigatoni e tortellini, tonno in scatola. E soprattutto caffè. Il caffè italiano è ciò che tutti desiderano avere nella propria dispensa. Quando viaggiamo in aereo, e bisogna ottimizzare lo spazio a disposizione nel bagaglio, mettiamo in valigia almeno un pacchetto di caffè da 250 g per ogni parente.

Non è una semplice bevanda. Il caffè è ancora utilizzato come prodotto di scambio e favori, retaggio di una pratica della guerra fredda che riconosceva nei prodotti occidentali valute informali di un’economia parallela basata sul baratto. Nel periodo precedente la transizione democratica, Nescafé si era affermato come il caffè occidentale per eccellenza. Disponibile non sugli scaffali degli alimentari romeni, ma sul mercato nero.

Una foto recente di Erzsébet Nagy - Foto di Sielke Kelner

Una foto recente di Erzsébet Nagy – Foto di Sielke Kelner

Lo storico romeno Lucian Boia ricorda come negli anni Ottanta, i prodotti di consumo occidentali erano diventati valute di un circuito economico clandestino. La valuta forte era costituita dalle celeberrime sigarette Kent . Nel contesto di una crisi economica drammatica caratterizzata dalla carenza cronica di beni di prima necessità, e di un sistema iperburocratico e corrotto, una stecca di Kent garantiva una prestazione medica, una promozione scolastica. Le sigarette non venivano nemmeno consumate da chi le riceveva, più frequentemente passavano di mano in mano, dal medico, all’insegnante, al funzionario pubblico. Al di là del loro valore di mercato, i prodotti occidentali trascendevano il loro uso, erano simboli di una società prospera e ideale, allegoria del mondo libero.

Eppure, il caffè era di gran lunga il prodotto più desiderato da mia nonna Erzsébet, per tutti Erzsi. Innanzitutto, mia nonna amava bere caffè. Nei miei ricordi ne ha sempre in mano una tazza fumante, preparata in bricco, alla turca. Negli anni Ottanta, quando sugli scaffali romeni non si trovava altro che caffè di cicoria, mia nonna acquistava sacchi di caffè verde in grani sul mercato nero. Li tostava e macinava lei stessa. Quando nei primi anni Novanta con la mia famiglia siamo emigrati in Italia, nonna ha conosciuto il caffè italiano, e ben presto il suo preferito è diventato Lavazza. Mia nonna riforniva la sua dispensa, impilando le piccole confezioni di caffè italiano l’una sull’altra. La quantità che mandavamo a casa non bastava mai. Durante una delle nostre ultime visite, impacchettammo in valigia dieci chilogrammi di caffè tutti destinati a lei, una quantità che come sempre venne ritenuta insufficiente. Nonna il caffè non solo lo beveva. I pacchetti di caffè li offriva per assicurarsi che il dentista le sistemasse bene la dentiera, e che il funzionario pubblico le consegnasse quel piano catastale che lei aveva richiesto mesi prima…

Il suo pragmatismo non è stato scalfito dal dolore che le affliggeva il corpo quando, nell’agosto del 2020, ricoverata per una malattia terminale, si è fatta il conto di quanti chili di caffè avesse bisogno affinché li potesse distribuire a medici ed infermieri dell’ospedale che la ospitava per assicurarsi cure adeguate.

Terza di quattordici figli, nata nel 1941 in una famiglia di modesti contadini sulla sommità di una montagna boscosa che sovrasta la città transilvana di Sovata, in uno dei tre distretti che ancora oggi in Romania ospitano la minoranza seclera, mia nonna era una donna forgiata dalle difficoltà della sua generazione. I numerosi traumi che ne hanno segnato l’infanzia e l’adolescenza l’hanno resa una donna che amava poco esprimere il proprio affetto, e che desiderava tanto affrancarsi dalla miseria. Aveva cominciato a lavorare a 14 anni alle dipendenze di un’agiata famiglia ebrea ungherese di Cluj, per poi tornare a lavorare nella sua città natale e completare gli studi. La sua determinazione le ha permesso, negli anni Settanta, di dirigere le cucine dei ristoranti degli alberghi della nostra bella cittadina, che d’estate si affolla di turisti. 

Mia nonna era la matriarca indiscussa della nostra famiglia. Invece di trattarmi come la sua prima nipote, mi ha cresciuta come la sua terza figlia, rendendo faticoso soddisfare le sue aspettative. Eppure, oltre l’asprezza dei suoi toni, mia nonna era una donna spiritosissima, le cui freddure rasentavano l’insolenza. Battute di spirito a volte maliziose e più spesso tinte di humour noir alle quali ridacchiavamo tutte.

Nonna è morta durante un anno che è stato difficile per tutti. Se l’è portata via uno di quei mali fulminanti e dolorosissimi per i quali i medici dicono che non c’è nulla da fare. Se n’è andata e di lei m’è rimasto poco. Lontana dalla Transilvania, mi restano un paio di orecchini ed un barattolo di cetriolini, arrivati con il pacco dell’autunno del 2020. Son passati poco più di due anni, ma quell’ultimo barattolo di cetriolini in salamoia lo serbo ancora perché non ho il coraggio di aprirlo, per timore che una volta mangiati, scompaia anche il suono della sua risata tanto irriverente.

I suoi cetriolini erano celebri in famiglia. Svitato il tappo del barattolo, se ne potevano assaggiare i cetriolini ancora croccanti, dalle note asprigne, per via dell’aceto, con una punta di piccante per via dei semi di senape e del rafano e una dolce, per quella punta di zucchero che aggiungeva alla salamoia; profumavano di aneto. Tanto erano celebri i suoi cetriolini, quanto il suo riserbo quando le si chiedeva come li preparasse. È rimasta unica custode di una ricetta che non ha mai voluto condividere con nessuno. Del resto, era una cuoca eccellente e competitiva, una competizione che non risparmiava nessuna. La sua ricetta non ci è pervenuta, ennesima burla. Come in passato, per recuperare le formule delle cucine di famiglia mi sono rivolta alle zie. A quanto pare, sua sorella minore Anna prepara i cetriolini in salamoia secondo una ricetta simile a quella di mia nonna.

 

 

Erzsébet Nagy da giovane lungo il Lago dell'Orso, Sovata - foto, archivio Sielke Kelner

Erzsébet Nagy da giovane lungo il Lago dell’Orso,
Sovata – foto, archivio Sielke Kelner

 

Cetriolini in Salamoia, Ricetta della famiglia Nagy
Ingredienti:

Cetriolini 2 kg

2 l di acqua

1 l di aceto 

2 cucchiai di sale

2 cucchiai di zucchero

Rafano pelato e tagliato a listarelle

Aneto

Semi di senape

Grani di pepe nero

Aglio sbucciato intero

In una grande pentola mettete e bollire 1 litro di acqua, ½ litro di aceto, 1 cucchiaio di sale e 1 cucchiaio di zucchero.  Raggiunto il bollore, aggiungete i cetriolini interi e fateli lessare per 10 minuti. Scolateli, e buttate via l’acqua di cottura. Ripetete la prima parte del procedimento mettendo nella pentola le stesse dosi di acqua, aceto, sale e zucchero. Mentre il liquido raggiunge il bollore, sistemate i cetriolini precedentemente scolati nei barattoli. Aggiungete gli odori. Sistemate al centro di ogni barattolo un cucchiaio di acciaio per evitare danni al vetro, e coprite i cetriolini con il liquido di cottura. Avvitate i tappi dei barattoli e sistemateli al caldo, coprendoli con stracci e tappeti affinché si raffreddino lentamente. 

 

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