Tra Odessa e Poltava: per un cucchiaio di minestra

Le riflessioni in viaggio di un’artista impegnata in Ucraina nel suo progetto Istituto Nomade di Cultura Ucraina

29/09/2020, Maria Chiara Calvani -

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La presentazione del progetto Istituto Nomade di Cultura Ucraina a Kiev

Sui ponteggi, i lavoratori con gli elmetti arancioni e i gabbiani, aspettano ancora la rivoluzione… Ma le grida e la lotta sono ben incorniciate nei musei. Il capitale ha la sua possente struttura sotto il vestito disegnato a girasoli e grano.

Nonna terra chissà quanti anni ha ormai! E quanti pensieri! A casa della mia di nonna invece è appena arrivata Ljuba – ha sessant’anni e viene da Zaporižžja. Sarà lei che vedrà le sue ginocchia fragili, il corpo piegato, lei, una sconosciuta, conoscerà l’intimità di una famiglia. Qui invece, tra Odessa e Poltava dentro il cielo bassissimo le nuvole sono pesci ed hanno spazio, tanto spazio per nuotare.

Il sussurro attutito sull’asfalto della marsciutka mi impedisce di scrivere bene, la penna salta, danza non sta ferma. Terra liberata! Terra gialla e azzurra! C’è ancora chi si ostina a dipingere le falde dei tetti di questi due colori come se non bastassero quelli del grano e del cielo!

Questa è la benzina per far credere di essere liberi; chilogrammi e chilogrammi di barattoli di giallo girasole e azzurro e una bandiera che si fa strada ai confini col Donbass che ha già coperto col suo tessuto di raso lucido i corpi di quattordicimila giovani… ed ogni giorno che passa si inghiotte un pezzo di terra.

“Voi ce l’avete sottratta e noi ce la riprendiamo!” Ma come è difficile essere 100% ucraini nemmeno l’1% di russietà!… Ma… se mia madre viene da Vladivostok, se tuo zio è di Smolensk e suo nipote vive e lavora a Mosca da vent’anni e si è sposato con una di Jaroslav e parla solo russo?

Ora, un dosso taglia una fetta di cielo e sembra di stare in Toscana. Millenni di fiori ricamati nelle vesti delle feste al freddo senza pane né grano né farina… il filo in una mano e l’ago nell’altra, come a voler cucire la ferita di un’anima malata e poi… in un ventennio qualche bravo poeta prepara la pozione per un popolo affamato di parole, getta la benzina sul fuoco che scatena, fa l’incendio mescolata alla rabbia della gente.

Devet minut dice l’autista, ci si ferma a fare pipì per la seconda volta. Qui non si tratta di collegare Roma con Firenze, qui sono cento chilometri senza vedere un distributore, è come fare, ogni volta che si vuole andare in un’altra città, la Salerno Reggio Calabria! C’è tempo anche per un gelato e per una sgranchita di gambe dice ancora l’autista di mezza età bello robusto con gli occhi chiari e lo sguardo assente, sì mi sembra di aver capito così, intanto il benzinaio anziano consumato sul viso dall’espressione circassa controlla l’olio del piccolo pulmino… Sarà quella rabbia, mista a rassegnazione, che ancora non è passata e che è stampata sul volto di tanti qui; la rabbia per la Russia del nonno di Volodja, dello zio di Sasha, della mamma di Natasha; la rabbia per i deportati in Russia dal Donbass ed in Polonia dalla Galizia durante la Seconda guerra mondiale, per tutti i sepolti dalle stoppie del grano rubato dai russi del Volodomor, la rabbia contro i nazisti per tutti i morti della fossa del Baby Jar cullati ora dalle voci delle nuove generazioni che passeggiano. Nel bel parco la tragedia è solo un ricordo lontano e il presente è fatto delle corse degli scoiattoli tra i monumenti ai rom, agli intellettuali, ai sinti, agli ebrei, ai dissidenti, ai sacerdoti, alla povera gente che in quel giorno fu scortata e trucidata dove ora c’è il boschetto di betulle.

Olena Teliha, che piuttosto si sarebbe fatta legare alla sua terra con quelle parole piene di dignità, c’è andata anche lei al Baby Jar e adesso la sua espressione vigile e fiera lo controlla giorno e notte in piedi in un angolo del parco.

Invece penso a qualcosa di molto vivo, penso a Samira dagli occhi curiosi che ho incontrato durante il viaggio in pullman Roma-Kiev. La mamma si chiama Inna come la sorella della Ahmatova ed è originaria di un piccolo paese della regione di Žytomyr, il papà è egiziano; si sono incontrati a Roma dove vivono e lavorano. Hanno messo su famiglia a Roma.

Samira è italiana, ucraina egiziana e… quei due mesi d’estate dalla nonna non glieli leva nessuno, adora il pane speziato abbrustolito nel burro che con l’aglio fresco strofinato sopra è un ben di dio! In Egitto invece, Samira non c’è mai stata; i nonni paterni non ci sono più e non c’è motivo per andare.

Odessa ora è più lontana, sulla strada si vedono i segnali di Bila Tserkva che tradotto in italiano sarebbe Chiesa Bianca; la luce è cambiata, la terra si muove un po’ e il cielo si è leggermente alzato. Arriveremo a Kiev per le 11 di sera. Penso che oggi è il compleanno della nonna Maria, quella nonna che ricamava fiori sulle lenzuola; è lei che mi ha trasmesso il sapere del ricamo ora… stenta a riconoscere anche suo figlio!

È con questa tremenda condizione di perdita di identità che Maria di Černivci e Ljuba di Zaporižžja (due donne che lavorano a casa) si devono confrontare ogni giorno, ma loro, si dice, ci sono abituate… Un leit motiv che risuona nelle case degli italiani alle prese con i propri anziani.

La mancanza di lavoro in questa terra gialla e azzurra ha consigliato tante donne di partire e di andare ad assistere i nostri nonni le nostre nonne. Queste donne dalle braccia forti e dagli occhi fermi, che conoscono il tempo della malattia, che sanno cucinare sempre una zuppa saporitissima, forse perché conoscono bene la storia di qualcuno che morì per un cucchiaio di minestra.

 

Questo racconto è stato scritto nell’agosto 2019 in occasione del progetto artistico “The Nomadic Institute of Ukrainian Culture”, presentato nei paesi di Velika Fosnya e Morinzy.

 

Il progetto di Maria Chiara Calvani raccontato da Lina Romanukha, curatrice Junior della Fondazione IZOLYATSIA 2016 – 2019:

"La mobilità è probabilmente la principale caratteristica della società moderna: il continuo viaggiare, migrazioni, movimenti di ricchezza e capitali, l’Internet. Siamo così abituati alla circolazione di informazioni e alla nostra mobilità sociale che, talvolta non ci rendiamo conto di quanto fortemente quest’ultima influenzi la nostra essenza.

La natura nomadica dell’uomo moderno (dalla parola greca “nomas” – nomade) è mutevole, frammentaria, capace di muoversi in differenti direzioni ma allo stesso tempo, spesso, conduce alla mancanza di un chiaro punto di vista e di uno stabile posizionamento rispetto al tutto.

Perciò non è così strano che noi si cominci a cercare le radici della nostra identità in altre culture cercando di rinvenire un terreno comune ed elementi di risonanza.

Quando l’artista e “antropologa” italiana Maria Chiara Calvani inviò una lettera alla fondazione Izolyatsia proponendo il suo progetto, noi immediatamente abbiamo colto assonanze e sincronizzazioni con la nostra storia. La Piattaforma culturale Izolyatsia è stata fondata nella città industriale di Donetsk nel 2010 sui luoghi di un precedente impianto di fabbricazione di materiali isolanti, ma il nome stesso dell’Istituzione nascondeva molti altri significati.

Per prima cosa “Izolyatsia” (traducibile in italiano letteralmente con “isolamento”) può essere inteso in due modi: nel senso di materiale isolante e nel senso di isolamento geografico; così da una parte ci riconduceva al traumatico passato dell’Ucraina che per almeno settantadue anni è stata “isolata” politicamente dall’altra parte della cortina di ferro. Dall’altra parte ciò si riferisce all’isolamento geografico di quelle regioni. Come risultato di un’altra eredità post sovietica, l’Ucraina è dotata di un sistema statale fortemente centralizzato basato sulla così detta “gerarchia culturale regionale” – i più interessanti e importanti eventi si sono svolti e si svolgono prevalentemente a Kiev o in altre grandi città. Le regioni sono scollegate dai processi dell’arte contemporanea e l’infrastruttura delle Case della Cultura è perlopiù abbandonata e distrutta.

Nel 2014, subito dopo la rivoluzione del Maidan a Kiev, gli spazi della fondazione Izolyatsia  sono stati requisiti dall’esercito dell’auto proclamato DPR. Le armate separatiste hanno esiliato i proprietari ed il gruppo fondatore, convertito gli spazi dell’arte contemporanea in aree per esercitazioni militari e gli interrati in prigioni….

Il progetto di Maria Chiara Calvani è in un qualche modo un richiamo agli appunti di viaggio, alle pagine di un diario, ai resoconti sul campo di una ricerca etnografica, ma allo stesso tempo è molto più che una mera documentazione di quanto osservato. E’ un tentativo di costruire ponti tra nazioni, di tessere trame tra persone di contesti storici e sociali differenti, di mettere insieme per portare alla luce conoscenza e tradizioni che sono quasi spariti nell’era della globalizzazione.

I libro “I dodici cerchi” di Yuri Andrukhovych ha accompagnato Maria Chiara durante il suo viaggio verso l’Ucraina e le ha fornito l’impulso di creare dodici “sotto-progetti”, consistenti in videoinstallazioni, video, performance etc. In uno dei progetti Maria Chiara parla dei suoi diari nelle cui pagine disegna ritratti di persone che tramite il contributo fornito dal loro lavoro quotidiano hanno cambiato o stanno ancora “cambiando la realtà attorno a loro”. Sfortunatamente, in Ucraina non ci sono molte di queste discussioni circa l’invisibile “quotidiano eroismo” di donne ucraine che hanno speso molti anni in Italia per aiutare le famiglie di quel paese.

E’ stato quindi naturale che l’idea di un Istituto Nomade della Cultura Ucraina sorgesse in un contesto legato al viaggio e come risultato di un dialogo con la comunità di donne lavoratrici incontrate in Italia, e nei paesi ucraini dove fanno ritorno e che Maria Chiara ha visitato.

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