Torture in Republika Srpska: polizia sotto inchiesta

Il Consiglio d’Europa contro la Republika Srpska. Secondo Strasburgo, le forze dell’ordine dell’entità serba di Bosnia Erzegovina si sono macchiate di reati qualificabili come tortura e godono della protezione dell’apparato

10/10/2013, Rodolfo Toè - Banja Luka

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Torture room (foto Prezius )

La polizia della Republika Srpska (RS), l’entità della Bosnia Erzegovina a maggioranza serba, è responsabile di trattamenti inumani che giungono ai limiti della tortura. Questo è quanto denuncia, senza mezzi termini, il Centro per la Prevenzione della Tortura (CPT) del Consiglio d’Europa in una serie di documenti apparsi a partire dall’aprile 2011. L’ultimo rapporto, adottato l’8 marzo 2013 , è stato inviato alle autorità di Sarajevo il 22 dello stesso mese, e reso di dominio pubblico a metà settembre.

Due anni di analisi e di indagini sul campo inchiodano alle proprie responsabilità i tutori dell’ordine pubblico della RS. Nell’aprile 2011, la commissione del CPT sottoscrive un rapporto molto allarmato sui risultati di un controllo ‘di routine’ sullo stato dei detenuti e delle prigioni del paese, evidenziando elementi di preoccupazione a proposito dei quali il governo di Sarajevo non riesce a fornire rassicurazioni adeguate. Il CPT decide allora di inviare una seconda commissione ad hoc, dal 5 all’11 dicembre 2012, per indagare sulla situazione.

La missione, guidata dal vicepresidente ucraino del CPT, Mykola Gnatovskyy, compie le proprie indagini negli istituti di polizia e nelle carceri di tutte le principali città della RS (Banja Luka, Bijeljina, Doboj, Istočno Sarajevo, Gradiška e Prnjavor) e ne trae dei risultati allarmanti.

Pur elogiando «la buona cooperazione» e la disponibilità delle istituzioni della RS, infatti, gli esaminatori mettono in luce «un numero considerevole di testimonianze dettagliate, consistenti e coerenti su maltrattamenti fatti dalla polizia in Republika Srpska», principalmente durante gli interrogatori allo scopo di estorcere delle confessioni. I suddetti maltrattamenti sono costituiti per lo più da «calci, pugni e schiaffi, ma anche da pestaggi con oggetti contundenti (come mazze da baseball)». Numerose testimonianze denunciano l’utilizzo di piccoli meccanismi per l’elettroshock portatili. In altri casi, i poliziotti hanno ammanettato i sospettati costringendoli per ore in posizioni innaturali o hanno legato sacchetti di plastica attorno alle teste dei sospettati e, in alcune occasioni, hanno fatto ricorso a finte esecuzioni per t[]izzare l’indiziato.

Violenze e impunità

Il quadro tracciato dal rapporto del CPT denuncia una realtà sconfortante. Il ministero degli Interni della Republika Srpska, in risposta alle accuse, ha ammesso che casi di maltrattamenti avvengono, ma non sono più di «venti o trenta ogni anno». Le testimonianze raccolte dalla missione del CPT, però, sembrano descrivere un modus operandi che è tragicamente quotidiano.

Si scopre così che spesso i sospettati vengono arrestati dalla polizia senza che ad essi siano stati comunicati i propri diritti, e senza che venga loro consentito di contattare il proprio avvocato, o anche solo i propri parenti. Nonostante la legge imponga un periodo massimo di 24 ore come limite per lo stato di fermo di un indiziato, nella pratica chi viene arrestato finisce per rimanere in guardina, nelle stazioni di polizia, anche il doppio del tempo.

Osservatorio è riuscito a incontrare direttamente due persone vittime di abusi della polizia. La prima, S.P., ha 36 anni ed è stata arrestato nel marzo 2011 con l’accusa di possedere della marijuana. «Mi hanno portato negli uffici del centro di pubblica sicurezza di Banja Luka», ricorda, «poi mi hanno trascinato in un garage, dove mi hanno picchiato in sei. Mi hanno poi pestato una seconda volta, in serata. Mi hanno fatto spogliare e poi mi hanno fatto delle foto con i loro cellulari». S.P. si è anche trovato a subire delle finte esecuzioni: una volta gli venne fatta scattare una pistola scarica alla tempia, una seconda volta la pistola gli venne infilata in gola.

Abbiamo incontrato anche A.N., 40 anni, che invece è stato arrestato per aver fatto un uso illegale di informazioni personali in Facebook. «Mi hanno arrestato all’inizio di quest’anno, e durante gli interrogatori mi hanno portato in un cimitero, dove mi hanno massacrato di botte. Ho subito danni all’occhio destro, avevo ematomi su tutta la testa e mi hanno procurato un danno irreparabile al timpano dell’orecchio sinistro, un ricordo che mi accompagnerà per tutta la vita, perché non si può curare».

Dopo la loro disavventura con la polizia, A.N. e S.P. hanno cercato di ottenere giustizia e la condanna dei responsabili, ma senza risultato. A.N. ha cercato di fare ricorso al controllo interno della polizia, ma non ha mai avuto risposta. S.P. invece, nel corso del processo, dice di «avere fatto esplicito riferimento» a quello che aveva subito durante gli interrogatori, ma che «né il giudice, né gli avvocati, né i procuratori si sono dimostrati interessati ad approfondire la cosa».

La mancanza di un sistema di controlli e di sanzioni interne, e la sostanziale impunità che circonda i membri delle forze di polizia, contribuisce ad aggravare il problema. In alcuni casi, sottolinea il rapporto del CPT, gli stessi avvocati difensori, che assistevano i sospettati, hanno consigliato ai propri clienti di «lasciare perdere», perché tanto «non ci si può fare nulla». A volte, per le vittime, provare i maltrattamenti è una missione impossibile. Una donna, arrestata a Banja Luka il 22 ottobre scorso, si sentì dire dal medico incaricato di visitarla che i segni dei pestaggi che le erano rimasti sulle braccia erano «bruciature da calorifero». Spesso, durante queste visite mediche, le vittime sono accompagnate dai loro stessi aguzzini, circostanza che ovviamente non aiuta a denunciare quanto avvenuto.

Generazione post bellica

Oltre a maltrattare i sospettati, in alcuni casi la polizia ha anche fatto picchiare o minacciare amici, o parenti, affinché comunicassero informazioni compromettenti sull’arrestato. «Si tratta di metodi che avrebbero fatto vergognare lo stesso Stalin», ha scritto su Slobodna Evropa, poco tempo fa, Maja Bjelajać, di Banja Luka. Maja è la giornalista che più di chiunque altro ha seguito questa storia. «Non devi credere che la guerra c’entri qualcosa», sostiene. «Queste non sono persone che hanno imparato a comportarsi così perché erano di servizio negli anni novanta. Si tratta soprattutto di ragazzi con meno di trent’anni, forze giovani».

A causa delle sue denunce, Maja ha anche avuto problemi con la polizia locale. In un suo articolo si fanno esplicitamente i nomi di due ispettori che sarebbero coinvolti nelle violenze. «Mi hanno chiamato, chiedendomi di togliere i loro nomi dal mio pezzo, e di rettificare pubblicando un’altra storia. Non ho ceduto, gli ho detto che pubblicherò altre storie, sì, e che non farà certo loro piacere, perché ci saranno ulteriori dettagli sulle torture».

Torture a proposito delle quali, per ora, il governo di Banja Luka nega tutto. Il ministero degli Interni, in una replica fornita al CPT, ha sottolineato che dopo le accuse sono state svolte delle indagini che hanno provato, al di là di ogni sospetto legittimo, l’innocenza dei membri delle forze di polizia, oltre che l’infondatezza delle denunce. «Il rapporto con cui si accusa la nostra polizia è vecchio, risale all’aprile del 2013», ha sottolineato la portavoce del ministero, Mirna Šoja, a Osservatorio. «Da allora, l’amministrazione ha preso tutte le misure adeguate per migliorare il lavoro delle istituzioni. Ed è anche attivo un ufficio al quale ci si può rivolgere per lamentele sul comportamento delle forze dell’ordine». Tutto risolto, dunque, almeno per i vertici dell’amministrazione dell’entità. Nel frattempo, non una sola sentenza di condanna è mai stata spiccata nei confronti dei responsabili.

 

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Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa

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