Thomas De Waal: “È tempo di offrire di più all’Abkhazia”
Avviare iniziative con una regione non riconosciuta significa riconoscerne l’indipendenza? Per l’analista politico Thomas De Waal no, ed anzi isolare gli stati de facto porta ad esiti peggiori che non avviare relazioni con essi
(Pubblicato originariamente da OC Media il 31 gennaio 2019)
Nella sua analisi più recente, lei afferma che l’Abkhazia, insieme alla Transnistria e Cipro Nord, potrebbero essere aperti ad un maggiore coinvolgimento con l’Ue. Ma è auspicabile l’Ue apra ai de facto?
Esiste una strana realtà che nell’Ue e nel suo vicinato esistono luoghi poco definiti e contestati che non sono esattamente all’interno dell’ordinamento giuridico internazionale. Questo non è certamente di beneficio per nessuno.
L’Unione europea non gradisce certo questa instabilità. La sua politica di vicinato afferma che i conflitti che si prolungano nel tempo rappresentano un pericolo per l’intera regione. E l’Ue crede anche nella diffusione dei propri valori. Quindi questi ultimi dovrebbero estendersi non solo agli stati riconosciuti ma anche ad altri luoghi.
È interessante fare delle comparazioni. Non parlo qui dell’Ossezia del Sud o del Nagorno-Karabakh dove, per vari motivi, non c’è quasi alcun impegno internazionale: nel caso dell’Ossezia del Sud, vi è un completo auto-isolamento; nel caso del Nagorno-Karabakh vi è l’isolamento dal lato azerbaigiano e questioni politiche differenti: il Nagorno-Karabakh è infatti quasi assorbito dallo spazio economico, diplomatico e politico armeno.
Quindi l’Abkhazia, per me, è l’esempio più singolare: rappresenta il caso di un paese, di un luogo, di un territorio, che è autonomo e abbastanza stabile – non collasserà – e tuttavia è anche lontano dal riconoscimento internazionale.
I paesi che riconoscono l’Abkhazia lo fanno non per interessi intrinseci in Abkhazia; lo stanno facendo solo per compiacere la Russia. Quindi è un paese sia stabile che molto isolato.
Intende che si intravedono segni di sviluppo democratico anche in Abkhazia?
In passato, l’Abkhazia aveva una cultura abbastanza democratica, ma la questione è divenuta più problematica di recente. Sicuramente questo è avvenuto dopo la cacciata dell’ex presidente, Aleksandr Ankvab, con mezzi che molti hanno visto come antidemocratici. Vi è anche il problema che risiede nel fatto che l’Abkhazia è un’etnocrazia: solo un abkhazo etnico può essere eletto presidente, e altri gruppi, in particolare i georgiani a Gali, sono di fatto cittadini di seconda classe.
È importante dire che a metà degli anni 2000 c’è stato un tentativo di aprire all’Europa. Era genuino, anche se un po’ ingenuo. C’era un progetto europeo in Abkhazia, è stato chiamato Key to the Future nel 2006.
Certo, l’Abkhazia voleva l’indipendenza, ma volevano anche far parte dell’Europa. Non era realistico, ma era interessante che avessero quell’apertura. Tutto questo si è chiuso nel 2008 dopo la guerra e il riconoscimento russo, ma c’è ancora del sentimento pro-europeo in Abkhazia e in molti non vogliono scegliere: vogliono collegamenti con la Russia e vogliono relazionarsi con l’Europa. E – in privato – la gente non esiterà ad affermare che non si hanno problemi a relazionarsi con la Georgia, ma c’è un grande tabù pubblico su questo.
Quindi la domanda è se sia possibile un maggiore impegno dell’UE nei confronti dell’Abkhazia. Ci sono molti fattori che ci portano a pensare non sia possibile. Gli stessi abkhazi, in qualche modo, si stanno isolando, stanno rifiutando varie iniziative mosse nei loro confronti. I russi, ovviamente, non sono entusiasti delle iniziative dell’UE; ma va anche detto che problemi arrivano anche dalla parte georgiana.
I georgiani sono molto cauti riguardo alle aperture internazionali e rispetto ad ogni impegno internazionale nei confronti dell’Abkhazia che non controllano direttamente. E va anche detto che l’UE ha perso interesse ed entusiasmo in questa regione negli ultimi dieci anni, è uscita dall’ordine del giorno europeo. Questo è avvenuto per ragioni comprensibili: hanno molte altre cose da affrontare. C’è meno memoria istituzionale, meno energia, meno interesse in Abkhazia di quanti ce ne siano mai stati.
Generalmente accade che quando attorno alla risoluzione di un conflitto accade poco, la gente inizia a mollare ed a perdere interesse, si inizia ad investire – per motivi comprensibili – la propria energia altrove.
È quindi arrivato il momento di considerare tutto questo e dirsi che è necessaria un’altra spinta? Di proporre un’offerta più ampia all’Abkhazia che comporta un Programma di assistenza e sviluppo per l’Abkhazia? Questo pacchetto non dovrebbe essere proposto senza condizioni. Dovrebbe essere subordinato alla cooperazione con gli internazionali su diverse questioni, tra cui la questione dei diritti dei georgiani di Gali, forse anche sullo stato dei detenuti in Abkhazia.
Un serio punto interrogativo su tutto questo è verificare se il governo georgiano sia pronto per una proposta internazionale così di rilievo senza che quest’ultima sia controllata dalla parte georgiana. L’ambiente politico in Georgia è ancora piuttosto scettico su questo. Ma personalmente sostengo di muoversi in questa direzione e ritengo ne valga la pena.
Ritenete sia plausibile una situazione futura in cui l’UE si stanca dell’approccio ‘cauto’ della Georgia rispetto all’impegno internazionale a causa del cosiddetto concetto del ‘riconoscimento strisciante’?
Qualcuno la vede così. Il governo georgiano è troppo cauto; sono così preoccupati per qualsiasi azione che conferisca legittimità alle autorità de facto in Abkhazia che finiscono per non fare niente e quindi si finisce con un risultato molto peggiore, che è la mancanza di qualsiasi influenza europea in Abkhazia, ed un’integrazione de facto con la Russia, e ogni anno diventa più difficile far passare un messaggio europeo agli abkhazi. Occorre pensare in modo più strategico: dove saremo tra dieci anni, tra vent’anni? È più facile per un attore internazionale come l’UE farlo, che per gli attori locali.
Nonostante l’accordo di cessate il fuoco seguito alla guerra del 2008 avrebbe dovuto ripristinare lo status quo, vi sono ancora molte basi militari in Abkhazia e nell’Ossezia del sud. Un maggiore impegno internazionale non rischia di assolvere la Russia per le proprie responsabilità nel conflitto?
Non sostengo nemmeno per un minuto che i georgiani debbano sospendere la pressione internazionale per arrivare al ritiro delle forze russe e per la soluzione dei problemi di sicurezza.
Ma allo stesso tempo, vi sono anche questioni che riguardano le persone, la società, ed è possibile lavorare a più di un livello, e l’argomentazione forte è che è molto meglio avere una società più aperta, amichevole, più istruita in Abkhazia di una società chiusa, più sotto l’influenza della Russia.
Nel mio rapporto pubblicato a maggio concludo che non esiste un "riconoscimento strisciante". Il riconoscimento è un atto politico consapevole. Ad esempio, come sapete, l’ex rappresentante speciale dell’UE Herbert Salber è stato sorpreso mentre si congratulava con il leader dell’Ossezia del sud. Forse è stato un errore diplomatico, ma senza un atto formale di riconoscimento, è un gesto che non significa nulla se non essere la notizia del giorno a Tskhinvali che però non ha cambiato nulla.
Avendo studiato il caso di Cipro Nord ritengo sia giusto affermare che ad una società più aperta, a più coinvolgimento, corrisponda maggior libertà per le persone di scegliere tra più opzioni; rende la società più aperta e questo ha alcuni effetti politici. Non prevedo affatto che l’Abkhazia voterà per ricongiungersi alla Georgia in tempi brevi, ma un maggiore impegno internazionale ridurrà il livello del conflitto e faciliterà le relazioni e le connessioni tra Tbilisi e l’Abkhazia.
Lei ha menzionato il programma Key to the Future, che probabilmente è terminato con la guerra del 2008, ma ora abbiamo l’iniziativa della Georgia Step to a better future; possono gli incentivi che prevede, ad esempio l’aumento delle relazioni commerciali, migliorare le relazioni tra le parti o la Georgia dovrebbe fare di più in questa direzione?
Prima di tutto un’iniziativa di questo tipo è al benvenuta. È molto positiva e invia buoni segnali all’Abkhazia e all’Ossezia del sud. Anche se il programma viene respinto, invia segnali di desiderio di cooperazione pacifica, che, di nuovo, abbassa il livello del conflitto.
Sfortunatamente – e molte persone sia qui che in Abkhazia scherzano su questo – il governo georgiano sembra sempre voler adottare la giusta politica, ma lo fa con qualche anno di ritardo. Dieci anni, 15 anni fa, questa sarebbe stata un’iniziativa molto più potente di quanto non sia ora.
Il problema è, francamente, che Georgia e Abkhazia vivono in diverse realtà – lingue diverse, spazi dei media diversi – quindi ci vorranno molti anni di lavoro per ricostruire queste connessioni, motivo per cui penso che il governo georgiano debba accettare che Tbilisi può arrivare solo fino ad un certo punto e che gli internazionali possono ottenere più risultati di Tbilisi.
Se si vuole veramente avere un impatto, si tratta di consentire iniziative Ue e Onu in Abkhazia coordinate con Tbilisi ma che non abbiano l’etichetta di quest’ultima. Penso siano le uniche iniziative che possono avere una qualche possibilità di successo.
Parliamo un po’ delle relazioni armeno-azerbaigiane. L’anno scorso, a settembre, i due leader dell’Armenia e dell’Azerbaijan hanno stabilito una linea telefonica diretta per ridurre le tensioni lungo il confine tra l’Azerbaigian e l’Armenia e lungo la linea di contatto del Nagorno-Karabakh. E in seguito abbiamo visto una breve distensione su Twitter tra il Presidente azero Ilham Aliyev e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan. Possiamo parlare di passi avanti per i negoziati o la riconciliazione sulla questione del Nagorno-Karabakh?
Possiamo parlare di un modesto miglioramento. Certamente è stato un buon anno. Nel 2018 il numero di soldati morti sulla linea di contatto è stato di 14, il numero più basso da circa dieci anni, e considerando i recenti livelli di violenza nel 2015 e 2016, è positivo sia così.
14 persone sono comunque morte ma è stato un progresso positivo. Le hotlines, alcuni incontri tra i ministri degli Esteri e un po’ di distensione della retorica: è ovviamente positivo, ma dobbiamo essere onesti e dirci che stiamo partendo da una base molto bassa, dove due paesi sono sull’orlo del baratro della guerra, con richieste reciprocamente improponibili che rivolgono l’un l’altro.
Quello che sta accadendo è che le autorità azerbaigiane vogliono dare un po’ di spazio a Pashinyan – ritenendo che sia un leader democratico – affinché posa trovare qualche compromesso da parte di Yerevan, quindi si stanno comportando in modo abbastanza ragionevole.
La base per un accordo deve essere una sorta di terreno per la pace in cui la parte armena inizia cedendo alcune delle sette regioni che controlla al di fuori del Karabakh. Questo ci si aspetta che accada ma il lato azerbaigiano è troppo ottimista sul fatto che questo sia possibile. È molto difficile per un leader armeno concedere luoghi che sono ormai occupati da più di vent’anni.
Possiamo aspettarci forse un po’ più di apertura del dibattito in Armenia, parlando del costo del conflitto, del bisogno di pace. È possibile ma è un processo di lungo periodo.
Stiamo parlando innanzitutto di anni di guerra, poi di anni di retorica della guerra e poi nuovamente di una piccola guerra nel 2016: il tutto rappresenta una pietra molto difficile da spostare. Alcune piccole iniziative non spostano questa pietra, dobbiamo assistere a molto di più. Basti guardare ad alcuni altri conflitti, come la Transnistria e Cipro Nord, dove vi sono molti più progressi, dove migliaia di persone vanno avanti e indietro e non c’è alcuna minaccia di violenza, eppure, anche lì, non ci si riesce ad accordare su questioni fondamentali.
Le persone che hanno commesso crimini di guerra su tutti i lati dei conflitti nel Caucaso meridionale non sono mai state punite. In molte occasioni, i criminali di guerra sono salutati come eroi. È il momento giusto per tornare a questi capitoli contestati della storia?
Chiaramente, qualsiasi processo di pace che abbia successo deve avere un elemento di giustizia per le vittime e questo può essere fatto in diversi modi: processi per crimini di guerra, amnistie e commissioni di verità. C’è bisogno di un elemento di giustizia, ma è giusto dire che questo è solitamente possibile solo quando c’è un accordo politico alla base.
Come lei ha sottolineato queste persone sono eroi, sono i difensori della nazione, e nessuna nazione che sia ancora in uno stato di conflitto, o in un conflitto irrisolto, inizierà a punire i propri eroi.
È possibile fare un passo indietro – iniziare a discutere del passato, avviare progetti per capire cosa è successo, registrare ciò che è accaduto, registrare testimonianze di vittime di crimini, dare voce e far rivivere il ricordo di chi ha sofferto – da entrambe le parti e poi permettere che si condividano le esperienze.
Una volta che si ha le basi per la testimonianza e la verità, si è già fatto un passo avanti e questo può rappresentare una base, una base documentaria, che può essere utilizzata per un’iniziativa di giustizia in futuro.
Quale il ruolo dei media nel perpetuare i conflitti e in che modo si può sostenere la riconciliazione?
Avendo fatto anni da giornalista ed avendo gestito il progetto Caucaso per conto dell’Institute for War and Peace Reporting, sono temi a cui tengo molto. Certamente i media possono giocare un ruolo molto negativo nella diffusione di false storie, perpetuando stereotipi, e non solo durante conflitti ma anche all’interno delle società. Quindi sì, i media possono sicuramente essere un problema.
Ovviamente ci sono media che sono responsabili, la maggior parte dei media responsabili in questa regione credo siano ora media online, ma è sicuramente un fattore e molti “consumatori” di media capiscono che non ottengono tutta la verità dai media ma spesso trovano difficile trovare una migliore fonte alternativa. Questa è sicuramente una sfida da affrontare.
Scheda di approfondimento
Dalla fine dell’Unione Sovietica al riconoscimento da parte della Russia delle repubbliche secessioniste di Abkhazia e Ossezia del Sud. Le tappe principali del conflitto tra Mosca e Tbilisi dal 1989 alla guerra dell’agosto 2008: nostra scheda riassuntiva e un dossier