Tessile in Georgia: uno sguardo sullo sfruttamento
L’industria tessile della Georgia è piagata da bassi salari e numerosi abusi sul posto di lavoro. OC Media è entrato nelle fabbriche Kutex e Imeri a Kutaisi
(Pubblicato originariamente da OC Media il 22 novembre 2019)
“A chi è stato detto ‘Se non ti va bene vai a casa’?”, chiede il rappresentante sindacale. Tutte le donne alzano la mano. Più tardi aggiungono di aver sentito – dai superiori – anche altre cose come ‘Fottiti’ o ‘Vengo lì e ti trascino per i capelli’.
Il 15 luglio scorso, un lunedì, davanti all’azienda tessile Kutex, a Kutaisi, si sono radunate quasi tutte le 120 lavoratrici per un giorno di sciopero, per protestare contro la moltitudine di offese che erano costrette a subire dal management aziendale: salari pagati in ritardo, umiliazioni, struttura del management poco chiara e tagli delle ore di lavoro.
Kutex, che ha avviato le proprie attività nel 2016, ha prodotto fin dall’apertura jeans per conto dell’azienda turca LC Waikiki. Nel luglio del 2019 Giorgi Gogolashvili, il facente veci del direttore, ha dichiarato a RFE/RL che l’azienda aveva interrotto il contratto dopo che uno stock di prodotto era stato consegnato con molti difetti.
OC Media ha contattato LC Waikiki per un commento. L’azienda ha rifiutato di entrare nei dettagli sulla revoca del contratto, affermando semplicemente: "LC Waikiki non ha relazioni commerciali o organiche con la società [Kutex]".
Le lavoratrici si aspettavano che il proprietario della Kutex, Mehmet Kurt, cittadino turco, partecipasse alle trattative e soprattutto pagasse gli stipendi dovuti già cinque giorni prima.
Che i lavoratori si confrontino direttamente con il direttore è anomalo nelle fabbriche georgiane. Il direttore è spesso un’autorità inavvicinabile, che allo stesso tempo ha il controllo quasi totale sul destino dei lavoratori, ma raramente viene in contatto con loro.
Nel caso della Kutex, la separazione è dovuta non solo dall’organizzazione aziendale ma anche dalla lingua: il direttore, che conosce solo il turco, è circondato da un gruppo di manager bilingui che assicurano che i lavoratori non abbiano accesso diretto ai vertici della gerarchia dell’azienda.
Trovare voce
Le donne discutono di tutti i torti che sono stati fatti loro in fabbrica con Irakli Mkheidze, direttore del Sindacato di Kutaisi e Giorgi Diasamidze, che presiede il Sindacato dei lavoratori dell’agricoltura, dell’industria leggera, dell’industria alimentare e dell’industria manifatturiera. È la prima volta che lo fanno apertamente. Prima di trovarne la forza, l’atteggiamento duro dell’azienda a qualsiasi accenno di dissenso dei lavoratori ha creato un’atmosfera di silenzio repressivo.
"Sembra che tutti siano il nostro capo qui – dice una donna – il direttore, i controllori della qualità, i normali impiegati dell’amministrazione – ognuno ha il diritto di venire e urlare contro di noi. Stanno andando oltre alla loro autorità, ma sembra non importare a nessuno. La situazione è molto tesa e malsana. Pensano di essere al di sopra dei lavoratori e di avere il diritto di umiliarci".
"Qui c’è un atteggiamento disumano – interviene un altro lavoratore – partendo dal direttore e finendo con il caposquadra. A volte resistiamo, ma trovano il lavoratore più vulnerabile da attaccare”.
Le donne ricordano di un sarto che un giorno ha lasciato un filo in più su un paio di jeans ed un tecnico glieli ha gettati in faccia. Il sarto ha iniziato a piangere per il dolore e l’umiliazione.
"Non ho bisogno che mi si urli contro, sono un essere umano, basta spiegare cosa ho fatto di sbagliato", dice un altro. “L’altro giorno, è arrivato il nuovo modello [di jeans] ed avevo così paura di sbagliare che mi sono alzato e ho detto: ‘Questo non riesco a cucirlo’.”
“’Il proprietario richiede una certa quantità. Ma il nostro contratto si basa su orari, la quantità non è prevista – eppure la gente gli crede ancora ", dice un’altra donna. ”Quest’uomo ha studiato la nostra psicologia e agisce di conseguenza. Vuole che ci sentiamo inutili perché ‘non abbiamo imparato a lavorare’ in due anni”.
Nonostante l’accumulo di rimostranze, sono stati i ritardi degli stipendi alla fine a riunire tutti.
Diasamidze è arrivato a Kutaisi da Tbilisi nella speranza di formare un nuovo sindacato a Kutex. In un settore in cui il turnover del personale è elevato, si tratta di un’opportunità rara: attualmente ci sono solo due sindacati nell’industria tessile della Georgia.
La scintilla
Tea Tsnobiladze, sarta presso la Kutex, è stata la prima ad organizzarsi. Nel fine settimana precedente allo sciopero ha raccolto le firme di 90 lavoratrici sotto una lista collettiva di lamentele. Una lista da consegnare ai sindacati, per dimostrare che i lavoratori erano pronti ad unirsi. Ma, ancora di più, è servita alle sue colleghe per far capire che in queste lotte non erano da sole. Per rompere il muro dell’isolamento.
"Ho iniziato a lavorare [alla Kutex] senza avere precedenti esperienze", racconta Tea Tsnobiladze a OC Media."Per un anno tutto è filato liscio. Quando però sono iniziati i problemi ed io ho iniziato a parlare tutte se ne stavano sedute e spaventate. Io sottolineavo cosa non mi andava e la gente si rendeva conto che io dicevo quello che loro sentivano e pensavano anche loro. Occorre solo dar loro modo di iniziare ad esprimersi".
Nell’ultimo periodo Tea Tsnobiladze è stata spinta all’azione non tanto per questioni personali dirette in relazione all’azienda ma piuttosto per quanto vedeva accadere alle donne attorno a lei.
"Vedendo come le mie colleghe di lavoro venivano umiliate non ho più retto, del resto non accettavo ingiustizie nemmeno quando ero bambina. Mi sono sempre infilata nei problemi per difendere gli altri. Probabilmente avrei dovuto essere un’attivista in difesa dei diritti umani…".
Organizzare ed esprimere il malcontento sul posto di lavoro è del tutto inusuale in Georgia: dato l’alto tasso di disoccupazione (ufficialmente al 13% ma alcune stime lo reputano al 21%) i lavoratori si sentono riconoscenti all’azienda anche solo per il fatto di offrire loro un lavoro, anche se questo significa 10 ore al giorno per 100 dollari al mese.
Quando sorgono problemi i lavoratori cercano di adattarsi o, semplicemente, se ne vanno. “Il turnover di lavoratori nel settore tessile è molto alto e ciò lo rende un settore vulnerabile, come del resto il settore alberghiero o edile”, sottolinea il dirigente sindacale Giorgi Diasamidze. ‘Per i datori di lavoro queste persone non sono che macchine”.
Quando non c’è materiale su cui lavorare, i sarti vengono mandati a casa e ci si aspetta rimangano inattivi fino all’arrivo di nuovi ordini. Non vengono pagati durante questo periodo, anche se il loro contratto rimane in vigore. È una palese violazione del Codice del lavoro della Georgia.
“Mehmet [Kurt] ci incolpa per questo. Dice che produciamo merce difettosa che non può vendere e quindi non è possibile ottenere nuovi ordini. Questi ‘difetti’ li utilizza per manipolarci. Cucire è un mestiere in cui è impossibile fare tutto senza difetti, ma non c’è quasi mai un difetto che non si possa correggere", sottolinea Tea Tsnobiladze.
La maggior parte dei lavoratori con cui ha parlato OC Media ha affermato che durante il primo anno la fabbrica era vivibile, i difetti non erano un problema e che la direzione ha iniziato a sollevare la questione della presunta scadente capacità di lavorare dei dipendenti solo quando si è smesso di pagare gli stipendi in tempo.
Secondo il Codice del lavoro georgiano, i dipendenti hanno diritto allo 0,07% degli interessi sul loro stipendio per ogni giorno di ritardo; Kutex non ha rispettato quest’obbligo.
Il giorno dello sciopero Tea Tsnobiladze è stata eletta per condurre i negoziati con la direzione insieme ad altre due donne della fabbrica. Ma presto è diventato chiaro che il proprietario non sarebbe stato presente al tavolo e che, anche quel giorno, i salari non sarebbero arrivati.
Dopo aver discusso della questione nell’ufficio con aria condizionata al piano di sopra, i negoziatori hanno annunciato la notizia alle donne che stavano aspettando di sotto, nel soffocante e buio corridoio della fabbrica.
È chiaro che molte di loro si aspettavano risultati immediati, ma le lavoratrici sono riuscite a superare la loro delusione e hanno firmato per formare un nuovo sindacato. Finora, tutte sono infelici e desiderose di unirsi, ma non è chiaro se riusciranno a stare insieme anche sotto la pressione della direzione, se saranno in grado di rifiutare accordi rapidi e distribuirsi responsabilità all’interno del comitato sindacale.
Tutti questi sono problemi che di solito emergono poco dopo che le richieste principali dei lavoratori vengono soddisfatte.
Solidarietà per sempre?
Imeri Ltd è una delle più antiche aziende tessili della Georgia – è stata fondata come cooperativa nel 1928 ed è sopravvissuta al crollo dell’Unione sovietica. Nel 1995 ha ottenuto il primo cliente internazionale. È stata inoltre sostenuta con un investimento di 275.000 dollari dal programma Enterprise Georgia per creare 120 nuovi posti di lavoro.
Al momento Imeri è una delle più grandi fabbriche tessili del paese e lavora con marchi internazionali e nazionali. La fabbrica impiega circa 450 persone, di cui 320 sono sarte e sarti.
Sulla carta, è anche uno dei luoghi di lavoro più rispettosi dei lavoratori nell’intero paese. Nel 2016, ha ricevuto il certificato di conformità WRAP-gold dal Worldwide Responsible Accredited Production (WRAP), un gruppo no-profit di difesa degli standard del lavoro inizialmente creato per le aziende di abbigliamento americane. È stata anche nominata datore di lavoro dell’anno dal municipio di Kutaisi nel 2015-2016.
Una ex lavoratrice che negli ultimi anni si è trasferita in Francia ha dichiarato a OC Media che, nella sua esperienza di lavoro presso la Imeri, l’azienda si è dimostrata tutt’altro che amichevole.
Ana (non è il suo vero nome) ha iniziato a lavorare presso la Imeri come sarta nel 2013. È rimasta in azienda per quattro anni. Ha descritto l’esperienza come quattro anni "vissuti in manicomio".
Quando è stata assunta, le è stato detto che avrebbe lavorato dalle 9:00 alle 18:00, ma spesso è rimasta più a lungo. Secondo lei, nulla di ciò che le è stato riferito durante il colloquio di lavoro si è poi rivelato vero.
Il suo stipendio dipendeva dal raggiungimento di una quota mensile che, racconta, era fissata in modo da essere impossibile da raggiungere per una persona.
“Il massimo che sono riuscita a guadagnare in quella fabbrica [in un mese] è stato di 150 dollari, dopo aver lavorato per cinque giorni alla settimana dalle 9:00 alle 22:00. Altre volte ho guadagnato dagli 84 ai 100 dollari, facendo in ogni caso molto più lavoro di quanto mi venisse pagato”.
Ana ha dichiarato a OC Media che l’azienda si è data molto da fare per nascondere la realtà delle condizioni di lavoro al fine di proteggere la propria reputazione.
"C’era una commissione WRAP che è venuta per un controllo nel 2016. I direttori ci hanno detto [di dire agli ispettori] che non lavoravamo il sabato e che il nostro orario di lavoro era normale, che eravamo soddisfatti", ha detto Ana. “Siamo andati nella sala delle interviste uno per uno e, uscendo, qualcuno dell’amministrazione ci ha poi aspettati per chiedere cosa avevamo detto”.
La direttrice della fabbrica Maia Simonidze, che è anche azionista di Imeri e presidente del consiglio di amministrazione dell’azienda, ha confermato a OC Media che la direzione ha chiesto ai lavoratori di fornire un feedback positivo. Ha aggiunto che tuttavia le interviste erano riservate e che il personale avrebbe potuto esprimere apertamente le proprie preoccupazioni, se avesse scelto di fare così.
La direttrice ha inoltre sottolineato che, in base al contratto che hanno firmato con i lavoratori, l’azienda paga il 30% in più per ogni ora in più di lavoro, e che spesso pagano anche di più.
I lavoratori dell’azienda hanno più volte scioperato per poi rendersi conto però che il loro sindacato si rifiutava di sostenerli.
“Cosa si poteva fare? Non c’era unità”, racconta Ana, aggiungendo che erano soprattutto ex lavoratori presso la Imeri ad occupare gli incarichi sindacali, che avevano 70-75 anni e che non volevano mettere a repentaglio le loro posizioni nel sindacato per il bene di giovani lavoratori.
Sindacati gialli e economia in caduta libera
In Georgia molti sindacati di settori industriali non rappresentano i lavoratori, ma servono piuttosto l’interesse degli imprenditori. Tali organizzazioni "fasulle" sono conosciute come "sindacati gialli".
Eto Saginadze, che lavora presso Imeri da oltre sei anni, afferma che il sindacato aziendale è saldamente dalla parte dei proprietari delle fabbriche. Sottolinea che qualsiasi recente miglioramento delle condizioni di lavoro è avvenuto nonostante il sindacato, non grazie a questo.
"[I rappresentanti dei sindacati] non sono stati scelti dal popolo e non servono il popolo, non ho paura di dirlo apertamente", ha affermato Saginadze a OC Media, aggiungendo che la dirigenza sindacale è piena zeppa di dirigenti delle aziende.
La direttrice Maia Simonidze ha dichiarato a OC Media che dal crollo dell’URSS l’azienda è stata impegnata in una battaglia per la sopravvivenza. "Questa zona ha vissuto un forte sviluppo in Georgia durante [il periodo sovietico] – c’erano 40 grandi fabbriche tessili qui, e Imeri era una di queste", ha detto. "Di quelle grandi fabbriche ne rimangono solo due: Batumtex, venduta ad investitori austriaci, e noi, che siamo rimasti georgiani”.
Con pochi contatti con i mercati esteri e poca domanda all’interno della Georgia, l’azienda ha avviato la fase post-sovietica producendo uniformi militari, anche se, sottolinea Simonidze, "sapevamo che non era il nostro core business”. È solo nel 1997 che ricevettero i loro primi ordini internazionali, dall’azienda tedesca Barbara Lebek.
Da allora, Imeri ha prodotto abbigliamento per molte aziende internazionali e ha recentemente siglato un accordo per produrre abbigliamento per il marchio italiano di lusso Moncler. Nonostante il successo dell’azienda, Simonidze ha dichiarato di aver dovuto affrontare un elevato turnover del personale e una carenza di manodopera, in particolare specialisti formati. In un’intervista con Mkhare, agenzia di stampa con sede a Kutaisi, ha incolpato di questo la mancanza di motivazione tra le persone in cerca di lavoro e di un’epidemia di lavoratori che scelgono di cercare lavoro all’estero. Parlando con OC Media, ha ammesso che anche che i bassi salari sono da biasimare.
“Al momento potremmo assumere altre 20 persone. Ma non le troveremmo e capisco perché. Perché lo stipendio non è alto quanto vale il lavoro che viene richiesto loro".
Per quanto riguarda il ruolo dei sindacati, Simonidze ha affermato di ritenerlo del tutto positivo. "La nostra fabbrica è sempre stata sindacalizzata, dal 1921 – ha affermato – anch’io sono iscritta al sindacato e credo che abbia un ruolo rilevante”. Ha aggiunto che capisce anche che i lavoratori potrebbero anche essere frustrati dal sindacato e dalla sua leadership, ma alla fine questo non è colpa dell’azienda, poiché il sindacato non è sotto la responsabilità della direzione aziendale.
Giorgi Diasamidze, ha dichiarato a OC Media che l’affermazione di Simonidze è falsa e che il responsabile del sindacato non viene mai nominato dalla sede centrale. Piuttosto, ha detto, dovrebbe sempre essere eletto da un voto generale dei membri del sindacato sul posto di lavoro.
Tuttavia, ha aggiunto, di non sapere come il presidente del sindacato di Imeri abbia assunto quella posizione.
Battaglia persa
Anche quando un sindacato è rappresentativo dei lavoratori e non è di quelli di cui fa parte anche il direttore di un’azienda non è garanzia di successo. Marina Oboladze, 61 anni, ex lavoratrice e attivista sindacale della Georgian Textile Ltd, è stata licenziata nel 2018 insieme a 15 altri lavoratori a causa di quella che l’azienda ha definito una "riduzione del personale", sebbene Oboladze ritenga che la società avesse ben altri motivi.
"Si sono sbarazzati di me solo perché non sopportavo l’iniquità e esprimevo sempre le mie preoccupazioni", ha detto a OC Media. È stata licenziata poco dopo aver chiesto di parlare con il proprietario della fabbrica delle ore straordinarie fatte, che a lei e agli altri non venivano retribuite.
Con l’assistenza legale del sindacato, Marina ha fatto appello al tribunale, ma invece di riassumerli, l’azienda ha pagato loro un risarcimento equivalente a due mesi di lavoro, secondo lo stipendio base.
"Il nostro stipendio era di 1.30 lari [0,40 euro] all’ora, oltre a bonus qualità", sottolinea Marina Oboladze. Abbiamo solo ricevuto 250 lari a testa [circa 78 euro, ndr]”. Marina ed altri due lavoratori hanno ricorso nuovamente ed ora stanno aspettando l’esito.
"Gli altri non sono andati in tribunale", ha detto Marina. "Non volevano pagare le spese".
Marina lavora ora in un’altra fabbrica tessile, dove i salari sono bassi. Anche se insoddisfatta, si astiene dal discuterne con la direzione. “Dopo quello che è successo, ho paura di alzare la voce. Ho paura di perdere anche questo lavoro".
Piccole vittorie
Dopo che il proprietario della Kutex non si è fatto vedere il giorno dello sciopero, i lavoratori da poco sindacalizzati hanno portato la loro battaglia nelle aule del tribunale. Con l’aiuto del team legale del sindacato dei lavoratori dell’agricoltura, dell’industria leggera, dell’alimentazione e dell’industria manifatturiera a Tbilisi, è stato avviato un procedimento giudiziario.
Il giudice si è pronunciato a favore dei lavoratori e all’azienda è stato ordinato di vendere propri beni per pagare ai lavoratori i salari dovuti.
Secondo il responsabile del sindacato di Kutaisi, Irakli Mkheidze, la pronuncia rappresenta più di una vittoria esclusivamente finanziaria.
"Dopo il sequestro dei beni dell’azienda la gente di Kutex ha capito che la magistratura può rappresentare un modo per ottenere giustizia", ha dichiarato Mkheidze a OC Media. “Queste persone spesso pensano che il datore di lavoro, essendo finanziariamente potente, possa corrompere il tribunale. Questi pregiudizi fanno perdere loro la speranza che il tribunale possa difendere i più deboli".
Mkheidze vede ragioni di ottimismo per i lavoratori della Kutex, nonostante le difficili condizioni per il lavoro organizzato in Georgia.
“Prima di tutto, qui ci sono molte persone leader, convinte di poter ottenere giustizia. Persone che come Tea accendono la fiducia negli altri e questo significa molto. [In secondo luogo], i dipendenti sono convinti che se perderanno questo lavoro, con le loro competenze ed esperienza, sarà facile trovarne uno nuovo nello stesso campo".
Ma nonostante la vittoria, Mkheidze ritiene che il caso Kutex mostri la debolezza del lavoro in Georgia, che può essere affrontata solo da un più ampio cambiamento sistemico.
"Le controversie sul lavoro compaiono solo quando gli abusi delle condizioni di lavoro avvengono su larga scala", sottolinea Mkheidze. “I dipendenti preferiscono invece, se si tratta di piccole violazioni, subire e rimanere in silenzio e non rovinare il loro rapporto con il datore di lavoro. Questa paura accumula i problemi che provocano poi un’esplosione finale”.
Di conseguenza, le lamentele, ha detto, sono affrontate solo dopo una prolungata sofferenza da parte dei lavoratori. Il sindacalista aggiunge che esempi internazionali mostrano che una più ampia sindacalizzazione della forza lavoro georgiana garantirebbe che tali rimostranze vengano affrontate prima o che addirittura non si verifichino.
Perché ciò accada, tuttavia, l’atteggiamento sociale nei confronti dei sindacati deve cambiare.
"Vi sono residui di cliché sovietici secondo i quali una persona che alza la voce per chiedere giustizia non è altro che un abile manipolatore che cerca il proprio interesse – afferma – questa mentalità influisce su una vasta gamma di settori nel paese".
Questo testo è uno dei risultati di un’ampia indagine di OC Media nell’industria tessile della Georgia, possibile grazie al sostegno dell’Ufficio regionale del sud del Caucaso della Friedrich-Ebert-Stiftung (FES).