Terremoto a Tirana

Una diplomatica italiana catapultata in un’Albania di fine regime. Una realtà che rimane lontana, un mondo che sino al crollo del regime ”non era dato scoprire”. I suoi ricordi ora nel libro ”Terremoto a Tirana”. Un’intervista

12/05/2009, Marjola Rukaj -

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Serena Luciani è stata direttrice dell’Istituto italiano di cultura a Tirana negli ultimi anni del regime. A distanza di 20 anni, ha raccolto i suoi ricordi nel romanzo "Terremoto a Tirana" edito da Nuovi Equilibri. Il libro racconta l’Albania di fine regime agli occhi di una giovane ragazza italiana che si trova a vivere nell’ambiente diplomatico di Tirana tra intrighi e isolamento. Scritto in chiave autobiografica, "Terremoto a Tirana" costruisce una testimonianza dettagliata della società albanese al momento del crollo del Muro di Berlino mentre il regime iniziava a cedere al cambiamento.

Lei si è trasferita in Albania nel ’89 e ci ha vissuto sino al ’90. Che ricordi ha dell’Albania di quegli anni?
Non sapevo pressoché nulla dell’Albania. Quando mi sono trasferita, per ammortizzare l’impatto avevo deciso di fare il viaggio in macchina attraverso la Jugoslavia che avevo già visitato prima. Il mio contatto con l’Albania è iniziato già in Montenegro. Quando dicevo alla gente che ero diretta in Albania, le loro reazioni erano sconfortanti. Il Montenegro era una delle repubbliche più povere della Jugoslavia, e nel vedere i montenegrini reagire in quel modo non sapevo che aspettative crearmi. Ho attraversato il confine albanese in una giornata di pioggia. Vedevo gente che camminava sotto la pioggia sul lato della strada, lentamente, senza ombrello, in maniera quasi rassegnata. Sembravano persone desolate. Sembravano abituate e disposte a qualsiasi sacrificio. Poi ho scoperto che avevo appena conosciuto il nord, la parte più arretrata dell’Albania.
Come era vivere da straniera nella Tirana di fine regime?
A Tirana mancava la vita. Non si poteva trovare neanche un caffè. Era qualcosa di estremamente strano, perché mi aspettavo di trovare un paese balcanico, come in Jugoslavia, come in Grecia. Tirana era invece una città grigia, dagli spazi enormi, una città nuova senza molta storia, in cui quel poco che potesse testimoniare il passato della città era stato raso al suolo per creare quel tipo di città comunista. Era una città molto fredda, che traboccava di solitudine. Per me quelli sono stati anni di grandissima solitudine. Si percepiva che il paese viveva in una dittatura e l’atmosfera era molto pesante. Temevamo di avere spie ovunque. Inoltre noi del corpo diplomatico non eravamo liberi di viaggiare per il paese. Non potevamo muoverci senza autorizzazione. Ricordo che una volta volevo andare a vedere il sud del paese, che avevo sentito fosse bellissimo, ma non mi è stato permesso.
Cosa si diceva degli albanesi nel corpo diplomatico di cui lei era parte?

Degli albanesi si diceva tutto il male possibile. Si parlava male del governo, e veniva ridicolizzato tutto. Non si capiva molto la gente, la cultura. A vederli sembravano gli italiani prima del boom economico, ma allo stesso tempo non sembravano dei mediterranei, si vedeva che erano estremamente controllati dal peso della dittatura, e c’era tanta discrezione e formalismo nei rapporti tra di loro. Ma spesso l’apparenza ingannava, capitava di incontrare gente vestita male ma coltissima. Da parte nostra c’erano molti pregiudizi.
C’era qualche tipo di rapporto tra gli stranieri e gli albanesi?
Gli stranieri e gli albanesi in quegli anni a Tirana erano due mondi paralleli che si osservavano a distanza senza quasi alcun contatto. Era impossibile socializzare con gli albanesi. Solo una volta mi è capitato che un ragazzo mi fermasse per strada chiedendomi se fossi francese, ma poi è scappato subito quando gli ho detto che ero italiana, e il motivo non me lo so ancora spiegare. I contatti erano minimi persino con i funzionari albanesi che lavoravano nell’ambiente diplomatico. Ma c’erano anche persone che facevano eccezione. Ad esempio da me veniva una signora a fare le pulizie, che parlava poco l’italiano e con lei ho instaurato un minimo rapporto pur sapendo che naturalmente era una spia. C’era ovviamente la barriera linguistica. Infatti la prima cosa che avevo chiesto era un’insegnate di albanese ma non è stato possibile, non volevano che imparassi l’albanese. Per il resto gli albanesi sembravano freddi, contenuti. Anche se non dovevano esserlo. Mi stupiva che sotto casa mia in un ristorante ogni sabato e domenica la gente andava a ballare e a festeggiare i matrimoni. Si sentivano musiche bellissime per tutta la notte, e io morivo dalla voglia di andare a vederli, e di partecipare alle loro feste. Ma sapevo che non era possibile. Anche nei ricevimenti dell’ambiente diplomatico la gente creava minor contatto possibile. Poi una volta finito l’incontro nessuno ti risalutava più. A dir la verità io gli albanesi li ho scoperti una volta caduto il regime. Avevo passato due anni in Albania e c’era tutto un mondo che non mi era dato scoprire. Ad esempio parlando poi con gli albanesi ho scoperto la loro grandissima vena satirica che in quegli anni non avevo avuto modo di scoprire.
Lei ha vissuto in Albania proprio negli anni in cui il regime stava crollando…
Sì però non lo si avvertiva. La convinzione più diffusa tra il corpo diplomatico era "questo sarà l’ultimo regime a crollare". Non solo io, ma neanche i diplomatici più informati non erano in grado di vedere la fine del regime. In realtà il muro ci è crollato sotto il naso senza che nessuno se lo aspettasse. L’Albania invece veniva considerata un’eccezione. Pensavamo che avrebbe conservato il suo status quo se non per sempre, per molto tempo ancora. Era inimmaginabile uno scenario diverso. Gli albanesi non sembravano preparati al cambiamento. Non si vedeva entusiasmo ad esempio per la caduta del muro di Berlino. La gente continuava a vivere con rassegnazione. La mia impressione era che fossero consci della loro situazione ma che avessero rinunciato a ogni possibilità di cambiarla. Però lentamente iniziava a muoversi qualcosa. Cominciavano un po’ di dibattiti su delle riforme economiche. L’Albania giaceva in una crisi economica desolante in quegli anni, e tutti avevano capito che bisognava partire da lì per cambiare la situazione.
Un anno dopo il crollo del muro di Berlino, anche in Albania iniziano ad accadere delle cose. Come avvengono i cambiamenti?

Iniziavano a percepirsi dei segnali. Ho trovato molto significativo il fatto che ad un certo punto mi fosse permesso di organizzare un concerto con un direttore d’orchestra italiano. Dopo la caduta del muro di Berlino hanno iniziato a intensificarsi i rapporti culturali. Però tutto in modo molto lento. L’invasione delle ambasciate infatti è avvenuto con quasi un anno di ritardo dalla caduta del muro di Berlino. In quell’anno si vedeva l’interesse, e una sorta di maggiore disinvoltura nei rapporti con gli stranieri. Ad un certo punto mi era stato permesso di organizzare una mostra di libri italiani. E’ stato qualcosa di incredibile, c’erano 500 persone al giorno che venivano a vedere solo delle copertine di libri stranieri senza poter comprare i libri veri. Gli albanesi non erano più diffidenti, si avvicinavano, ci parlavano in italiano, ci facevano regali, volevano assolutamente instaurare rapporti con noi. Non li avevo mai visti gli albanesi così vicini. Comunque non si poteva ancora dire che qualcosa stesse per cambiare nettamente. C’erano molti tira e molla. Me ne accorgevo quando si cercava di collaborare con le istituzioni albanesi, una volta erano aperti alla collaborazione, poi rifiutavano, poi si mostravano di nuovo disponibili, quindi davano l’impressione che non sapessero neanche loro come comportarsi, e sicuramente c’erano degli scontri interni nella classe politica. Poi, quando la gente ha iniziato a entrare nelle ambasciate straniere nel ’90 abbiamo avuto la certezza che il cambiamento era ormai un fatto irrevocabile. Nell’ambasciata italiana hanno iniziato a preoccuparsi. Il personale iniziava a pronosticare quanta gente sarebbe entrata per iniziare a programmare come fare fronte all’emergenza. In quel momento era finalmente chiaro a tutti cosa sarebbe accaduto.

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