Tempesta su rifugiati e sfollati
Oluja, la Tempesta. Un’altra di quelle occasioni nelle quali le opinioni pubbliche dei Balcani si dividono profondamente. Zagabria celebra, Belgrado commemora. Rimangono comunque i fatti. Oggi la Krajina è un’area desolata. Un commento
Il decennale di Oluja (Tempesta), l’operazione con la quale nell’estate del 1995 l’esercito croato ha "liberato" la Krajina, è un’altra di quelle occasioni che dividono l’opinione pubblica in Bosnia ed Erzegovina, Croazia e Serbia e Montenegro. Nei media bosniaci, l’evento ha avuto una vasta copertura con servizi sia da Knin, dove avveninvano le celebrazioni che da Belgrado dove avvenivano le commemorazioni. Mentre i discorsi delle autorità croate ribadivano la legittimità dell’operazione, da parte serba si qualificava Oluja come pulizia etnica e crimine di guerra: il presidente serbo Tadic ha definito l’operazione come crimine organizzato e il Ministro degli Esteri Draskovic ha detto che pulizia etnica e accessione all’Unione Europea non vanno d’accordo. Il commento della Tv della Federazione è laconico "Se Zagabria celebra, Belgrado si lamenta".
In realtà al momento non si intravede un dibattito pubblico sulla legittimità di Oluja. I vertici croati, alle celebrazioni di Knin, hanno difeso la legittimità dell’operazione delle operazioni di forze di polizia e esercito croate, volte a sgominare un l’entità parastatale serba che aveva t[]izzato le città croate e condotto attività t[]istiche. Gli eccessi di Oluja e i crimini che ne sono seguiti sono stati condannati dal Presidente croato Mesic e dal primo ministro Sanader. Mesic che chiedeva di individuare le responsabilità penali di coloro che non hanno combattuto per la Croazia ma per il loro interesse personale, gettando così un’ombra su tutta l’operazione, è stato fischiato dai presenti, che hanno apertamente inneggiato a Ante Gotovina. Il generale in pensione Ljubo Cejs Rojs, al di fuori del protocollo ufficiale ha detto "Ma che celebrazione è senza Ante?".
La mancanza di dibattito storico sul significato di Oluja è rafforzata anche dal fatto che nel corso delle celebrazioni non si è fatta alcuna menzione dei civili serbi uccisi da parte dei soldati di Gotovina, nè sono stati compiuti altri gesti di riconciliazione nei confronti della comunità serba di Croazia. Il tribunale dell’Aja definisce, nell’accusa di Gotovina, l’intera operazione come una "impresa criminale organizzata" il cui scopo era l’espulsione forzata e permanente della popolazione serba dalla Krajna. Fatto sta che finchè Gotovina non viene portato di fronte al tribunale e i fatti vengono accertati, l’intera operazione rimarrà questione di dibattito e di discussione.
Rimangono i fatti, e cioè che al giorno d’oggi la Krajina resta un’area desolata dove il ritorno dei serbi è stato esiguo, dove i pochi che vi hanno fatto ritorno si trovano spesso ad affrontare una difficile lotta per la sopravvivenza e dove al giorno d’oggi sono ancora spesso vittime di attacchi e di violenza da parte della maggioranza croata.
Rimane il fatto che a parer di molti la Croazia non ha fatto abbastanza per favorire il ritorno dei Serbi alle proprie case e che la pressione internazionale in questo senso non è stata sufficiente.
Nel corso di questi anni, esaminando la realtà dei paesi confinanti, risulta evidente che la Croazia ha goduto di numerosi "sconti" nel processo di adesione al Consiglio d’Europa e più tardi nel suo cammino verso l’Unione Europea. La questione della ripossessione delle proprietà abbandonate dagli sfollati e rifugiati è forse il miglior esempio di questa disparità di trattamento.
La restituzione delle proprietà è infatti una precondizione necessaria (anche se non sufficiente) per favorire il rientro degli sfollati e dei rifugiati e come uno di quegli elementi che permettono alle minoranze di riacquistare fiducia nei confronti del paese d’origine. I confronti tra Bosnia ed Erzegovina e Croazia dimostrano in modo lampante queste differenze. La pressione esercitata dalla comunità internazionale, sia in Bosnia che in Croazia è stata determinante per un effettivo rispetto dei diritti dei rifugiati e degli sfollati. In Bosnia ed Erzegovina, nel periodo 1998 – 2004 quasi 200,000 tra case e appartamenti sono stati restituite ai legittimi proprietari o a coloro che avevano il diritto d’occupazione. Seguendo le disposizioni dell’annesso 7 dell’accordo di pace di Dayton, non si è fatta distinzione tra proprietà privata e appartamenti di proprietà sociale e sostanzialmente tutti gli sfollati e rifugiati hanno avuto modo di ripossedere le proprietà che avevano abbandonato nel corso del conflitto. Anche se alla fine molti rifugiati e sfollati hanno deciso di non ritornare alle proprie case, ma di venderle o scambiarle, il fatto di aver risolto i problemi con le proprietà ha di fatto disinnescato un potenziale fattore di instabilità per la regione, dato che sfollati e rifugiati hanno potuto fare una scelta informata e libera da pressioni. La pressione internazionale è stata determinante: per citare un esempio, la Bosnia ha ricevuto il via libera per l’adesione al Consiglio d’Europa solo nel 2002, dopo che più del 50% di tutte le proprietà erano state restituite ai legittimi proprietari (oltre 100,000 tra case e appartamenti). Il processo si è sostanzialmente concluso verso la fine del 2004.
Lo stesso problema è stato affrontato in modo molto diverso in Croazia. Come menzionato precedentemente la Croazia ha riconosciuto agli sfollati e rifugiati solamente il diritto a ripossedere le proprietà private, ma non gli appartamenti in proprietà sociale. Il processo di restituzione delle proprietà private non si è ancora concluso: delle 19,000 proprietà private, ad inizio giugno di quest’anno rimanevano ancora quasi 500 casi da risolvere. Per fare un confronto con la Bosnia, nello stesso arco di tempo la Croazia ha risolto meno del 10% dei casi risolti dalle autorità bosniache. Gli appartamenti in proprietà sociale invece non sono stati restituiti: circa 30,000 famiglie, in maggioranza serbi, che avevano un appartamento sociale come unica casa prima del conflitto ora sono nell’impossibilità di ripossederle perchè gli appartamenti sono stati privatizzati dai nuovi venuti, in stragrande maggioranza di etnia croata. Per riprendere il parallelismo con la Bosnia, la Croazia è entrata nel Consiglio d’Europa nel 1997, prima ancora che il processo di restituzione avesse inizio. Gli stessi negoziati per l’adesione all’Unione Europea, bloccatisi a marzo in seguito alla nota vicenda Gotovina, non hanno dato la dovuta importanza alla risoluzione della questione dei rifugiati e degli sfollati e di fatto avevano lasciato come unica condizione la piena cooperazione della Croazia con il Tribunale Internazionale dell’Aja. Esaminando i più recenti documenti dell’Unione Europea si può notare come l’intera questione dei 30,000 appartamenti sia stata abbandonata e non si faccia più menzione della questione del ritorno. Di fatto, le logiche dell’allargamento dell’Unione Europea, hanno posto la questione dei diritti umani in secondo piano e avallato il risultato di Oluja. Se si confronta la situazione della Croazia con quella non solo della Bosnia, ma anche del Kossovo o della Serbia e Montenegro, risulta evidente come la Croazia sia stato l’unico paese a non riconoscere la necessità di restituire gli appartamenti di proprietà sociale agli sfollati e rifugiati.
Da questi fatti, risulta evidente che se la valutazione storica di Oluja è ancora tutta da dibattere, le autorità croate non hanno fatto abbastanza per eliminarne le conseguenze e favorire il ritorno dei rifugiati serbi. In questo modo, hanno conferito una legittimità ex post alla pulizia etnica che vengono imputati a Ante Gotovina. Se i crimini contro la popolazione serba della zona sono stati condannati in numerose occasioni dalle autorità croate, poco è stato fatto per porvi rimedio e favorire il ritorno delle popolazioni che erano dovuti fuggire. La comunità internazionale non è riuscita ad esercitare una pressione adeguata sulle autorità croate e si è accontentata di dichiarazioni formali o di promesse che però non sono sempre state sostenute da fatti concreti. La vicenda degli appartamenti di proprietà sociale è un esempio lampante di questa situazione.
Le centinaia di migliaia di rifugiati che ancora vivono nei paesi dell’ex Jugoslavia, le vere vittime delle operazioni militari come Oluja, ancora oggi non riescono a spiegarsi perchè siano stati adottati degli standard diversi per risolvere lo stesso problema. Erroneamente si ritiene che il tempo possa far svanire questi problemi, ma in realtà questioni come quelle dei rifugiati e degli sfollati non scompaiono e rimangono come una fattore di instabilità latente nell’intera regione.