Teatro in Ucraina: reagire al presente
L’attività artistica in Crimea, la prime aggressioni subite e poi l’esilio. Ora il giovane regista Anton Romanov fa teatro a Kiev, inseguendo ciò che sente necessario. Un incontro
(Pubblicato originariamente su Altrevelocità)
Anton Romanov è un giovane regista ucraino che ha già però alle spalle una notevole esperienza, sia artistica che – ci viene da dire – “esistenziale”. Originario della Crimea, ha iniziato il suo percorso teatrale nella città di Sinferopoli prendendo parte alle esperienze del centro “Karman”, che oltre alle proposte estetiche era anche una piattaforma di ritrovo e discussione per attivisti durante il Maidan. Proprio per tale natura “politica” il centro ha subito vari attacchi e, in seguito all’annessione della penisola ucraina alla Russia del 2014, Anton Romanov si è visto costretto a fuggire e ricollocarsi sul territorio del paese.
Dopo un periodo a Cherkassy in cui ha lavorato presso il teatro statale, si è infine trasferito nella capitale dando vita assieme ad altri artisti allo spazio indipendente “Postplay theater”. Il suo è un teatro – ci dice – in continua evoluzione, a volte basato sul testo, altre dal chiaro approccio performativo e partecipativo. Gli abbiamo chiesto di raccontare la propria storia e di provare a definire le sfide che circuito indipendente ucraino deve affrontare.
Sappiamo che sei stato costretto a lasciare la Crimea. In che modo ti occupavi di teatro in quell’area prima di dover fuggire?
Il mio percorso artistico inizia sostanzialmente con l’apertura del centro “Karman”, un centro di sperimentazione artistica fondato a Sinferopoli durante la Rivoluzione Arancione.
Al tempo la nostra direttrice era Galina Jhikaeva – ora con noi qui a Kiev nel Postplay theater – che subì una sorta di persecuzione nei propri confronti. Si era infatti rifiutata di accompagnare alcuni giovani studenti del centro a un meeting organizzato per supportare l’allora presidente Yanukovich [poi fuggito dal paese in seguito a Euromaidan, ndr], ordine venuto dall’alto, e venne immediatamente licenziata. Per solidarietà, anche tutto il collettivo attivo al Karman si è licenziato.
Dopo una breve esperienza presso il Museo d’Arte della città, che ci aveva concesso un altro spazio, abbiamo deciso di non voler più dipendere da alcuna istituzione – in particolar modo statale – e abbiamo riaperto la nostra sede in maniera totalmente indipendente. Era molto più che un teatro: davamo proiezioni cinematografiche, organizzavamo “poetry-slam”, concerti, serate a tema… siamo riusciti ad ospitare anche alcune compagnie indipendenti dall’estero.
Dopodiché è iniziata la parte più dura e controversa della nostra storia: mentre stavamo proiettando il documentario Open Access, sulla villa-residenza di Yanukovich, abbiamo subito un primo attacco con fumogeni. In quell’occasione il pubblico non si è lasciato intimidire: siamo usciti, abbiamo lasciato ventilare la stanza e ci siamo rimessi a vedere il documentario. In un secondo momento abbiamo poi organizzato la diretta del processo alle Pussy Riot e c’è stato un altro attacco, stavolta più coordinato.
Alcune persone si sono messe a presidiare le uscite della nostra struttura mentre altre hanno fatto irruzione mascherate, picchiando attori, registi e chiunque gli capitasse a tiro. Infine, il terzo attacco è stato a mano armata. Un uomo è entrato nella nostra sala con un fucile, minacciandoci e mostrandoci sul cellulare dei video di altri attacchi da lui compiuti.
Il fatto è che abbiamo provato a informare la polizia di questi avvenimenti, ma sistematicamente scompariva ogni traccia delle nostre denunce. Era chiaro insomma che non avremmo ricevuto alcun tipo di aiuto da parte delle forze dell’ordine.
Eravate dunque attivisti pro-Maidan?
No, noi artisti del centro Karman non eravamo attivisti diretti per il movimento del Maidan. Semplicemente, supportavamo una piattaforma attraverso cui gli attivisti si riunivano e discutevano. È vero che attraverso il teatro abbiamo sempre cercato di trattare temi “politici” ma io non mi sono considerato un attivista, anche se spesso viene riportato questo sui giornali. Sono un artista: si può arguire che le due cose siano simili fra loro, ma secondo me restano distinte.
Ad ogni modo, come dicevo, c’erano molti attivisti che si riunivano al nostro centro per discutere e organizzarsi sulle strategie di azione. Abbiamo cercato di mantenere tale realtà anche durante l’annessione della penisola ma non abbiamo avuto successo. Ci eravamo attrezzati per avviare un corso di primo soccorso e di supporto medico, nel timore che saremmo stati presto coinvolti in scontri o avremmo subito attacchi più violenti. Molte persone avevano già prenotato questi corsi e avevamo iniziato a comprare parte del materiale necessario. Io mi occupavo del coordinamento con i volontari che avrebbero portato materiale medico nei luoghi in cui stavano scoppiando i combattimenti. In breve è capitato che molti gruppi su internet, tra cui anche quelli legati a Pravy Sektor, ripostassero i miei messaggi di coordinamento e questo è stato considerato motivo sufficiente per essere accusato di t[]ismo e di far parte del gruppo di estrema destra di Pravy Sektor, nonostante non avessi mai incontrato personalmente alcun membro di quella associazione. Perciò ho dovuto lasciare la Crimea.
Hai prima trovato lavoro nel teatro di Cherkassy per poi trasferirti a Kiev. Come si è evoluto nel frattempo il tuo approccio scenico?
Devo dire che non ho un metodo definito di lavoro. Il mio “stile” cambia costantemente a seconda dello spettacolo di cui mi sto occupando. Se per esempio negli scorsi anni ho lavorato molto basandomi su un testo drammaturgico oppure con un approccio documentario, nelle due performance che sto interpretando ora – Map of identity e Questions – il testo è praticamente assente e utilizzo una modalità scenica di stampo più partecipativo.
Voglio dire, è il pubblico che in questi casi crea ed articola il testo dello spettacolo, gli attori si occupano semplicemente di provocare e favorire una discussione collettiva lasciando però agli spettatori il compito di sostenerla. Si tratta di un processo che ho iniziato ad approfondire già con gli spettacoli La casa sulla frontiera e Burgomistr dove “abbattevamo” più volte la quarta parete. Mi piace far diventare il pubblico un membro della performance, dargli quasi uno statuto di “personaggio”.
Nei tuoi spettacoli spesso parli dei conflitti che sono ora in corso in Ucraina. Pensi che sia dovere del teatro reagire in qualche modo a questi eventi?
No, se il teatro non si sente di reagire a tali eventi, perché dovrebbe? Per me personalmente è impossibile non reagire, non assumere alcuna posizione ma, allo stesso tempo, vedo che molti altri non sono interessati a farlo o altri ancora reagiscono agli eventi assumendo la prospettiva dei nazionalisti. Anche questa è una reazione!
Vedi, la tradizione dell’agit prop esiste in qualche modo ancora oggi. Nel momento in cui ci troviamo tutti in una situazione di guerra, molti dei teatri statali e indipendenti stanno giocando la carta del patriottismo nel mettere in scena i loro spettacoli, col risultato che il teatro diventa una piattaforma di agitazione per il movimento patriottico ucraino. Credo che questo sia un grave []e. Non sto dicendo che il teatro non debba occuparsi dell’attualità ma non può semplicemente imitare ciò che già stanno facendo altri media come la televisione, altrimenti si riduce ad essere una semplice “lente di ingrandimento” sulla realtà. Al contrario, il teatro dovrebbe sempre fornire una prospettiva critica sugli eventi. Il pubblico che viene ad assistere alle performance è un pubblico intellettuale e come tale va trattato.
Penso anche però che sia inutile mettersi in una posizione di scontro frontale con chi – e penso soprattutto al teatro statale – continua a proporre al pubblico, tra l’altro a spese di quest’ultimo tra l’altro, qualcosa che per me è assolutamente privo di senso. Non serve combattere contro quell’ambiente. Bisogna invece semplicemente realizzare in parallelo ciò che riteniamo necessario, così come stanno facendo il Wild Theater, il teatro dei rifugiati e, speriamo, come stiamo facendo anche noi con il Postplay.
Queste realtà stanno creando un circuito veramente alternativo a quello usuale, che credo spingerà anche i teatri “ufficiali” a rinnovarsi o comunque a reagire.
Pensi dunque che nel teatro statale esista una scarsa libertà di espressione artistica?
No, nel teatro statale non c’è libertà per sperimentare nuove forme o nuovi contenuti. E penso anche che difficilmente ci sarà a breve. Per questo non capisco come mai molti giovani spingano così tanto per entrare in un circuito in cui c’è molta poca libertà d’espressione. Certo, puoi ottenere mezzi ingenti per produrre le tue opere ma la tua creatività sarà limitata. In più, è anche difficile trovare alcun tipo di sostegno per la diffusione di opere indipendenti nei teatri statali. Per Map of identity, per esempio, mi è stata negata qualsiasi disponibilità.
Ma – insisto – non siamo noi a dover lottare contro il teatro statale, sono loro che saranno costretti a combatterci!