Svetlana Broz: i giusti al tempo del male

Il decennio di guerre nei Balcani è stato segnato da atrocità e efferatezze, ma anche da moltissime storie di resistenza e solidarietà. Svetlana Broz, medico e giornalista, ne ha raccolte decine nello straordinario "I giusti al tempo del male". Una conversazione con l’autrice, nell’anniversario della morte del nonno, Josip Broz "Tito"

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Suo padre, Zarko, era il figlio maggiore di Josip Broz, Tito. Il nonno fa capolino nelle immagini di vita familiare disposte sugli scaffali della libreria, nella casetta appena fuori da Sarajevo. Svetlana infatti, cardiologa, dopo aver prestato la propria attività come volontaria durante il conflitto bosniaco, ha deciso di lasciare la nativa Belgrado per trasferirsi definitivamente qui. Gli anni della guerra li ha raccolti in un libro, con tutte le testimonianze ricevute mentre lavorava come medico. Questa volta però non si tratta delle storie di brutalità cui siamo stati abituati. Queste sono le storie dei "giusti", quelli che – pur appartenendo a una diversa nazionalità o religione – hanno salvato i propri vicini. "Dobri ljudi u vremenu zla" (I giusti nel tempo del male) è la Schindler’s list dei Balcani, simbolicamente raccolta da una Broz. Perché alla fratellanza tra i popoli, imposta dal nonno, non c’è alternativa.

Di Andrea Rossini e Luka Zanoni
Foto: Gughi Fassino

Chi sono i "giusti" delle guerre balcaniche?

Tutte quelle persone che hanno avuto il coraggio di dire no. Hannah Arendt diceva che un uomo ha sempre la possibilità di scegliere. Anche qui in ex Jugoslavia, nelle guerre in Croazia, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia, alcune persone hanno avuto il coraggio civile di opporsi, di non combattere contro il proprio vicino. Sono questi i giusti, quelli che hanno avuto il coraggio di essere delle persone.

Dove li ha incontrati?

Ho iniziato le mie ricerche nel gennaio del 1993, in Bosnia Erzegovina, quando la guerra infuriava e nessuno poteva prevedere quanto sarebbe durata. Li ho trovati in tutte le parti del Paese, sia durante la guerra che dopo. Mi hanno raccontato della bontà degli "altri", di gente che spesso ha sacrificato la propria vita per poterli difendere, gente che è stata assassinata da esponenti del proprio gruppo solo perché aveva osato opporsi. Ora con la mia associazione, "Svetski park pravednika u Sarajevu" (Parco mondiale dei giusti a Sarajevo), vorremmo dedicare loro un parco, come quello realizzato all’interno del memoriale delle vittime dell’Olocausto, lo Yad Vashem, a Gerusalemme.

Lei ha lasciato Belgrado, dove è nata e cresciuta, per Sarajevo. Altri, ad esempio il regista Emir Kusturica, hanno fatto il percorso inverso. Perché questa decisione?

Non posso parlare degli altri, ma solo di me stessa. Mi sono trasferita qui nell’ottobre del 1999, dopo aver atteso la fine dell’intervento della Nato. Benché sia nata a Belgrado e abbia trascorso quasi tutta la vita lì, ho deciso di lasciarla perché è una città che ha perduto la propria anima, e io non riuscivo più a viverci. Sarajevo, che è sopravvissuta ad un assedio di tre anni e mezzo, nel corso del quale sono state uccise in modo vergognoso 12.000 persone, di cui 1.602 bambini, è invece riuscita a conservare la propria natura. E per quell’anima sarajevese io mi sono trasferita qui.

Cosa rappresenta quell’anima?

Penso che Sarajevo nel XXI secolo debba rappresentare, anzitutto per l’Europa, il risveglio della propria coscienza. L’Europa deve vergognarsi ogni qual volta si nomina la città di Sarajevo, perché ha dormito per tre anni e mezzo mentre questa città veniva uccisa. Ma se parliamo del XXI secolo e del futuro, allora Sarajevo è una città che può e deve rappresentare per l’Europa il luogo in cui imparare cosa significa vivere insieme, cosa significa la diversità, e cosa significa la tradizione di un luogo nel quale gente di differenti nazionalità e religioni vive insieme.

Quindi Sarajevo ancora come luogo della convivenza?

Nonostante quello che è successo, sì, Sarajevo è una città in cui ancora oggi vivono tutti i differenti gruppi etnici e religiosi. È una tradizione che risale ad oltre cinquecento anni fa, e che continua. Dopo la cacciata degli Ebrei dalla Spagna, Sarajevo è stato l’unico luogo dove non è stato creato un ghetto. Persino durante i tre anni e mezzo dell’assedio qui non si è mai smesso di vivere insieme. Ci sono stati comandanti della difesa di Sarajevo e soldati dell’Armija esercito, ndr della Bosnia Erzegovina che appartenevano a tutti i gruppi etnici. Viaggio molto per l’Europa, e sono rimasta spesso sorpresa dalla xenofobia che ho incontrato. Temo che in molte metropoli europee il razzismo sia più forte che non a Sarajevo oggi. Nonostante il fatto che qui siano trascorsi solo dieci anni dalla fine della guerra.

Il Tribunale dell’Aia ha terminato la fase delle incriminazioni, mettendo in stato d’accusa poco più di 150 persone. È sufficiente per chiudere col passato e arrivare ad una sorta di riconciliazione in ex Jugoslavia?

Naturalmente no. Quando è iniziata l’uccisione della Jugoslavia, la prima guerra in Croazia, nel 1991, io dissi che un giorno si sarebbe dovuto formare da qualche parte un nuovo tribunale di Norimberga. Allora non sapevo che si sarebbe tenuto all’Aja, ma già dal 1993 si sapeva che quel Tribunale non avrebbe avuto la forza di fare i conti con più di 150 imputati, ed ecco, oggi quella cifra è definitiva. Purtroppo però sono molte più di 150 le persone responsabili dei crimini commessi, e per quanto mi riguarda queste persone devono rispondere. E devono rispondere davanti ai tribunali locali, perché il Tribunale dell’Aia è stato fondato come un tribunale temporaneo. E’ giunto il momento cioè per i Paesi nati dalla dissoluzione della ex Jugoslavia di formare i propri tribunali, per giudicare i responsabili dei crimini commessi durante le guerre degli anni ’90. Senza la responsabilità, non ci può essere riconciliazione. La giustizia rappresenta la soddisfazione elementare delle vittime, e tutte le vittime hanno il diritto di sapere che la gente che ha commesso i crimini ne ha risposto, e la possibilità che tali crimini si ripetano è ridotta al minimo.

I tribunali locali possano realizzare questo compito?

Devono, forse in questo momento non ne sono in grado, ma devono farlo. A me fa molto piacere che il primo tribunale di questo tipo sia stato costituito in Bosnia Erzegovina, a Sarajevo. E’ un’altra prova del potenziale interno di questo Paese, che sa affrontare i crimini. Questo tipo di tribunale non è stato fondato in Serbia o in Croazia. In entrambi questi Paesi un certo numero di processi per crimini di guerra sono stati condotti, ma molto spesso in modo inadeguato e del tutto bizzarro.

Che cos’è la Bosnia Erzegovina oggi, a dieci anni da Dayton?

Viviamo ancora le conseguenze dirette di quegli accordi. Se ci chiedessimo cosa sarebbe successo se in Germania, dopo la Seconda guerra mondiale, gli alleati avessero lasciato il Partito nazionalsocialista e la maggior parte dei collaboratori di Hitler al potere, allora avremmo la risposta a cosa è davvero la Bosnia Erzegovina oggi. Dayton ha lasciato al potere tutti i partiti nazionalsocialisti, tutti e tre, e la maggior parte dei collaboratori di Hitler. Solo alcuni dei criminali di guerra che si trovano sulla lista del Tribunale dell’Aia sono stati esclusi dalla vita politica, ma la maggior parte di loro tutt’oggi fa parte della vita politica di questo Paese. Oggi viviamo una situazione insopportabile nella quale la comunità internazionale ha acconsentito e appoggiato, quando non persino benedetto, il permanere dei nazionalisti al potere. Ogni nazionalismo da queste parti, quando arriva al potere, è un fascismo, ossia un nazismo. Perché ha scritto con le mani pieni di sangue le pagine della nostra storia recente. E quegli errori che la comunità internazionale ha commesso con gli Accordi di Dayton si sono ripetuti in Afghanistan, adesso in Iraq e domani chissà dove. Tutto ciò solleva un problema: la comunità internazionale impara lentamente, dal momento che abbiamo già dieci anni di esperienza negativa di Dayton, oppure ciò significa che serve un’instabilità permanente di queste regioni?

Cosa pensa della legge recentemente approvata dal Parlamento serbo che equipara i cetnici ai partigiani?

Si tratta di una cosa assurda, ma per me non è una sorpresa. Sono vissuta in Serbia nel periodo in cui i rappresentanti del parlamento serbo erano Vojislav Seselj e Zeljko Raznjatovic Arkan. Oggi nel Parlamento serbo siedono nuovi Seselj e nuovi Arkan, si chiamano in altro modo ma conducono la stessa politica. Chi li ha eletti dovrebbe ragionare sul fatto che votando per tali personaggi hanno condotto la Serbia ad una situazione in cui viene disprezzata da parte dell’Europa. Tutto ciò che la Serbia ha fatto, nella Seconda guerra mondiale, dando i propri partigiani per opporsi a quei cetnici collaboratori dei nazisti, oggi viene gettato nel fango, così, con una decisione del Parlamento. Così la Serbia da vincitrice nella Seconda guerra mondiale ha mutato completamente la propria coscienza divenendo perdente e sconfitta. E questo in un anno simbolico, nel 2005, in cui l’Europa e il mondo intero festeggiano i sessant’anni della vittoria sul nazismo.

Recentemente il Parlamento italiano ha approvato la istituzione di una giornata del ricordo per le vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. Una fiction televisiva ha mostrato i crimini dei partigiani slavi nei confronti degli Italiani, lei cosa pensa di quella vicenda?

Non conosco i dati precisi su quante persone siano state uccise in quel periodo, e quanti siano stati gettati nelle foibe. Ad ogni modo credo che per ogni vittima innocente ci debba essere una responsabilità, e che ogni vittima abbia il diritto di essere rispettata. Basta che ci sia stata anche una sola vittima innocente, a prescindere da chi abbia commesso il crimine, partigiani o fascisti, che deve esserci un’assunzione di responsabilità. E’ come per quello che è avvenuto qui negli anni ’90: senza responsabilità non ci può essere riconciliazione.

In Italia la nipote del Duce, Alessandra Mussolini, medico come lei, rappresenta la destra radicale, seguendo in qualche modo una tradizione di famiglia… Anche lei si richiama alle idee di suo nonno Tito?

Ognuno di noi risponde per se stesso, non per il proprio curriculum familiare. Se da voi la Mussolini segue la politica del nonno evidentemente ha il diritto di farlo, il vostro Stato consente che il suo partito sia registrato e funzioni normalmente, perché no?

Quindi lei non riprende le idee politiche di Tito?

Per una cosa sì: l’antifascismo.

E per quanto riguarda la fratellanza e unità bratsvo i jedinstvo, ndr tra i popoli della Jugoslavia?

L’unità e la fratellanza sono durate per 45 anni. Ora chi vive qui dovrà continuare a convivere in Europa. Non c’è altra scelta.

Chi era suo nonno, Josip Broz Tito?

Innanzitutto è stato uno dei più strenui avversari di Hitler. Poi, anche se è sempre difficile parlare della dimensione storica di un membro della propria famiglia, Josip Broz Tito è stato ed è uno dei maggiori uomini politici del ventesimo secolo. Il suo funerale, cui parteciparono rappresentanti di 126 Paesi, ci ha mostrato quanto alla sua morte fosse stimato in tutto il mondo.

Alla sua morte però si aprì un decennio di instabilità per la Jugoslavia, e poi la catastrofe della guerra… Perchè?

Credo che le politiche di Tito fossero quelle più appropriate per i diversi popoli che vivevano in ex Jugoslavia. Tutti avevano gli stessi diritti, questo era estremamente importante e il motivo principale per il quale la Jugoslavia era un Paese pacifico con un buon livello di sviluppo. Dopo la sua morte, però, sono comparsi dei nuovi politici…

Alcuni in realtà non erano così nuovi…

No, ma proviamo a considerare i casi concreti. Tudjman, ad esempio, era stato condannato e imprigionato durante il "regime" di Tito, perché mio nonno considerava i nazionalisti come il pericolo peggiore per lo Stato.

Quindi faceva bene a imprigionarli?

Sa, quando lui era vivo io lottavo contro la repressione di coloro che la pensavano in maniera differente… Quando però è iniziata la guerra, e la Jugoslavia si è disgregata in questo modo crudele, ho incontrato migliaia di persone che mi ripetevano la stessa cosa: perché abbiamo fatto uscire di prigione quella gente che era stata rinchiusa da tuo nonno per il loro nazionalismo? Non ero io a pensarla così, ma le migliaia di persone che sono diventate vittime di quelle politiche nazionaliste…

Lei non faceva parte del partito comunista?

No.

Quindi in un certo senso lei era in disaccordo con suo nonno al tempo?

Al tempo di una Jugoslavia pacifica, quando io avevo vent’anni, negli anni ’70, non ero d’accordo con lui, pensavo che queste questioni potessero essere risolte fuori dai Tribunali senza ricorrere alla repressione. Devo anche dire però che non mi rendevo conto di quanto il nazionalismo fosse e potesse divenire un problema grave. Questo mi è diventato chiaro quando la Jugoslavia si è divisa attraversando guerre sanguinose.

Tito aveva ragione e lei torto?

E’ molto difficile per me dire se quello era il modo migliore per affrontare il problema, ma in quegli anni quello era il modo. E’ difficile oggi valutare se era possibile farlo altrimenti. Ogni periodo storico conosce un proprio modo per affrontare i problemi. Sono ancora una persona che crede nella possibilità di risolvere le questioni senza la repressione politica, ma in quel periodo probabilmente era impossibile in altro modo.

Lei ha ricordi personali di discussioni su questo argomento con suo nonno?

Sì, ma fanno parte delle mie memorie private. Mi dispiace non risponderle, ma da quando ho pubblicato il mio libro ho dato molte interviste, e dal primo momento ho deciso di non parlare dei miei ricordi personali, per non perderli… Credo che se lei lo scrive apertamente, anche i vostri lettori lo apprezzeranno, potranno capire che non voglio parlare del rapporto con mio nonno per conservare i ricordi personali che ho su di lui. Può scrivere questo?

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