Sulle tracce della libertà, traffico di esseri umani in Europa
Un’intervista con Jelena Bjelica, autrice del libro "Sulle tracce della libertà – traffico di esseri umani in Europa", di prossima pubblicazione anche in Francia, grazie a Le Courrier des Balkans
"Sulle tracce della libertà – traffico di esseri umani in Europa" (tit. orig. Na tragu slobode – trgovina ljudima u Evropi) è il nuovo libro di Jelena Bljelica, giornalista del quotidiano belgradese "Danas", pubblicato poche settimane fa dalla casa editrice "Samizdat B92". Da molto tempo l’autrice è corrispondente dal Kosovo, Macedonia e Bosnia Erzegovina nonché collaboratrice per diversi media locali e stranieri. Della questione del traffico di esseri umani si occupa dal 2000. Col suo primo libro "Manuale per i giornalisti – Traffico di esseri umani nei Balcani" ha vinto il premio Press Freedom Award – Signal for Europe che viene assegnato dall’organizzazione internazionale Reporter senza frontiere. "Sulle tracce della libertà è il frutto di una ricerca durata anni nei Paesi dei Balcani occidentali, nell’Europa centrale, in Svizzera e in Francia" ha spiegato Jelena Bjelica ad Osservatorio sui Balcani "Si tratta di un insieme di reportage, appunti quotidiani e testimonianze delle vittime del traffico di esseri umani. Inoltre, nel libro sono contenuti dati ufficiali delle istituzioni governative dei suddetti Paesi così come i dati resi disponibili dalle organizzazioni non governative su questa problematica che oggi ha un’importanza cruciale".
Come sei arrivata ad interessarti proprio di questo tema?
Quando nel 1999 mi misi in viaggio per l’Europa, "armata" di zaino, partendo dalla Turchia, capii quanto le donne, in particolare quelle dei Balcani occidentali, fossero un gruppo vulnerabile. Perché il solo fatto che io fossi, in quel momento, in possesso di un passaporto della SFRJ (ex Jugoslavia) significava che anch’io potessi essere una vittima potenziale, dal momento che chiunque avesse avuto cattive intenzioni nei miei confronti, era consapevole che il mio Stato non avrebbe fatto nulla se io fossi scomparsa. Quindi desidero solo sottolineare il sentimento di insicurezza che ogni donna dell’Est europeo che viaggia da sola deve avere, in particolare quando si trova in paesi come la Turchia. Questa sensazione di insicurezza è scaturita dalla paura di dire apertamente da dove provengo. Un anno dopo, quando andai in Kosovo e vidi la campagna dell’IOM (Organizzazione internazionale per le migrazioni) sotto lo slogan "Tu paghi per una notte, lei paga con la propria vita", desiderai fare di più per la questione della difesa delle donne e dei diritti delle donne. Già il solo fatto sconcertante che i cittadini della Serbia e Montenegro da quindici anni sono sotto sanzioni e non hanno la possibilità di viaggiare è sufficientemente doloroso. La possibilità che ci sia un’ulteriore vittimizzazione di persone di sesso femminile mi ha spinto ad iniziare più seriamente ad occuparmi del tema del traffico di esseri umani, e in particolare delle donne, con l’intento finale di alzare il livello di coscienza, rivolgere l’attenzione sul problema e fare azione di lobbying per la soluzione del problema sia nel mio Paese che nella regione.
Il tuo primo libro è stato una conseguenza di questo interessamento?
Sì. Il Manuale per i giornalisti è nato nel momento in cui ho iniziato ad approfondire il problema del commercio di esseri umani. Durante la prima fase di ricerche avevo scoperto che il tema del commercio di esseri umani è mal trattato da noi e che esiste un grande problema circa la definizione della questione, che i giornalisti non sono sensibilizzati al tema, che non scrivono delle vittime. Inoltre avevo presente anche che il giornalismo investigativo non aveva potuto prendere piede durante il governo di Milosevic, e questi temi così delicati richiedono proprio un tale atteggiamento. Il crimine organizzato deve essere trattato mediante il giornalismo d’inchiesta. Dopo la comparsa del libro, pubblicato nel 2002, si è giunti ad un avanzamento almeno per quanto riguarda il modo giornalistico di seguire il problema, ma il passo avanti è stato fatto anche in diverse istituzioni come per esempio il Governo. Tra i grandi successi del libro annovero anche le lezioni che ho tenuto ai rappresentanti della polizia e della magistratura, su come riconoscere e confrontarsi col problema del traffico di esseri umani.
"Sulle tracce della libertà" è una continuazione del libro precedente?
No, si tratta di due libri differenti, ossia due libri che si differenziano nella forma. Ad essere sincera, non mai vissuto il "Manuale per i giornalisti" come un libro, parlando con gli amici ho sempre detto che si trattava di un manuale. "Sulle tracce della libertà" è tutta un’altra cosa. Avevo un grande desiderio di scrivere un libro che trattasse del traffico di esseri umani e questo è il frutto di mesi di riflessioni, letture, ricerche, osservazione di come gli altri giornalisti scrivono su temi simili. I giornalisti devono proprio scrivere di cose che accadono realmente, che non sono fiction, ossia il loro compito è di analizzare il problema e presentarlo da più possibili angolazioni. Così anche io ho provato ad analizzare il problema del traffico di esseri umani in modo imparziale, avendo riguardo anche per la posizione delle vittime, il ruolo dei protettori, i meccanismi esistenti del traffico di esseri umani, ma pure i meccanismi per combattere questo problema.
Ciò che viene spesso dimenticato è che il traffico di esseri umani fa parte del crimine organizzato, che esiste un’intera catena di partecipanti, che oltre alle vittime, i protettori e i clienti esiste una serie di altre persone che sono coinvolte nelle attività, come quelli che reclutano le vittime, quelli che le trasportano, quelli che fabbricano passaporti falsi. In questo senso il traffico di esseri umani è un problema molto complesso, un’attività organizzata ed è difficile spezzare questa catena. Nel libro sono raccolte sia le testimonianze delle vittime che le storie dei protettori. Ma ovviamente esse si differenziano in modo qualitativo, proprio come si differenziano anche i modi in cui si discute coi partecipanti alla catena del traffico di esseri umani. Sulla base della esperienza maturata durante il lavoro a questo libro, non sono riuscita a dare una risposta alla domanda su come giungere nel modo più efficace alla soluzione di questo problema, sebbene abbia passato in rassegna fino in fondo i meccanismi esistenti e gli strumenti adottati fino ad ora nella lotta a questo fenomeno.
Suppongo che indagare queste questioni implichi un alto rischio. In che tipo di situazioni ti sei imbattuta?
Certamente, ci sono state pure situazioni pericolose, ma sono sempre riuscita ad uscirne senza serie conseguenze. Solo una situazione, accaduta in Macedonia, è stata drammatica. Il conflitto etnico in Macedonia era ancora acceso, cioè la parte nord occidentale della Macedonia non era ancora sotto il controllo della polizia macedone. Una sera, io e il mio collega stavamo facendo delle indagini nei pressi di Tetovo. Eravamo in un bar nel villaggio di Kamjan e al ritorno a Tetovo ci fermò un gruppo armato di Albanesi, chiedendo di mostrare i nostri passaporti. Io mi ero spaventata a morte, perché avevo il passaporto della SRJ (Repubblica federale di Jugoslavia), che naturalmente non era in grado di garantirmi alcuna sicurezza. Tuttavia il mio collega svizzero si è fatto subito avanti, mostrando il suo passaporto si è richiamato al fatto di essere un cittadino svizzero, cosa che li ha sorpresi e tranquillizzati, così ci hanno lasciati andare. Ma all’ingresso a Tetovo ci ha fermato un altro controllo. Valter ha ripetuto la stessa storia e ha detto che i loro colleghi al controllo precedente ci avevano lasciato passare. Quella è stata la situazione più estrema in cui erano presenti anche le armi. Tutte le altre situazioni sono state solo di carattere verbale.
Con quante donne vittime del trafficking hai parlato durante il periodo di ricerca e quali sono state le loro reazioni?
Davvero non saprei dire il numero preciso, ma di sicuro si tratta di molte decine. Le reazioni ovviamente sono state differenti. Però ho trovato più facile comunicare con le donne che lavorano sulla strada che con quelle che lavorano nei bar. È interessante il caso delle bulgare che ho visto a Parigi e che sono in modo evidente vittime del trafficking. Erano in gruppo, e in modo evidente una aveva il ruolo di ispettrice, mentre le altre erano terrorizzate da lei, perché stava col protettore. D’altra parte è una regola che quando si tratta di ragazze di uno stesso gruppo etnico, che sono vittime del trafficking, che ce ne sia una, la principale, che è la "ragazza ufficiale" del protettore, anche se pure lei molto spesso si prostituisce. Naturalmente i protettori spessissimo cambiano le ragazze ufficiali, così che ognuna in modo diverso arriva ad essere nella posizione di controllore. Un meccanismo col quale si effettua una manipolazione delle ragazze. Il modo più semplice per parlare con le vittime è quando si trovano nei rifugi, perché lì si sentono al sicuro, circondate da gente che non le costringe a raccontare la loro esperienza. Io ho trascorso alcuni giorni con loro, ma non ho mai insistito affinché mi raccontassero la loro storia. Ovviamente la stessa cosa è accaduta in ogni Paese in cui sono stata.
Tu hai prestato attenzione anche alle differenze tra i vari Paesi che partecipano alla catena del traffico …
Sì, perché si deve comunque porre una distinzione tra i cosiddetti paesi di provenienza, quelli di transito e quelli di destinazione che svolgono la catena del traffico di esseri umani. È noto che l’Albania, la Bulgaria, la Romania e la Moldavia più di frequente sono Paesi di provenienza, mentre la Serbia e Montenegro, la Bosnia Erzegovina, la Croazia e la Repubblica Ceca sono Paesi di transito. I più frequenti Paesi di destinazione sono la Francia, l’Italia, la Svizzera e la Germania. Affinché il problema venga risolto si deve lavorare all’innalzamento del livello di coscienza in tutti i Paesi, ma attraverso le più ampie categorie di cittadini, perché questo è un problema globale.
Questo libro nasce col contributo di Le Courrier des Balkans…
Proprio così. Jean – Arnault Derens, direttore responsabile de Le Courrier des Balkans aveva riconosciuto come il Manuale, che avevo già scritto, fosse un’ottima base per un libro, avanzando la possibilità che io allargassi la ricerca. Ed è proprio grazie a lui e la sua organizzazione, così come grazie ai nostri donatori, la Swiss Agency for development and cooperation e la King Badouin Fondation, che è ho avuto la possibilità di estendere la ricerca all’Europa centrale e occidentale, e a loro devo pure l’edizione francese di questo libro che uscirà il prossimo settembre per la casa editrice Paris Mediterranee.