Sulla strada per Knin, dopo la Tempesta
26 anni fa l’esercito croato con l’operazione Tempesta (Oluja) riconquistava la Krajina. Circa 200mila civili serbi di Croazia furono costretti alla fuga, vennero commessi uccisioni e crimini di guerra. Mauro Barisone, era lì come volontario dell’Operazione Colomba
Quando e perché hai deciso di fare il volontario in ex Jugoslavia e dove hai operato?
Ero stato in quei luoghi prima della guerra, come ho già raccontato in un mio blog , nell’agosto 1990. Ero andato a scalare con amici a Starigrad-Paklenica, nel parco naturale omonimo, e mi aveva colpito l’eccezionale gentilezza della famiglia che ci aveva ospitato. Nel 1991, ai TG hanno cominciato a parlare di guerra e mi è venuta in mente quella famiglia. Ho cominciato a chiedermi come stessero, cosa fosse loro successo…
Un giorno, leggendo un articolo di giornale ho scoperto che c’erano dei gruppi di volontari italiani che portavano aiuti alle popolazioni, soprattutto ai bambini, colpite dalla guerra in Croazia. E così, per quanto io fossi molto lontano dal mondo del volontariato e della cooperazione internazionale, ho pensato che forse potevo fare qualcosa pure io.
Dal 1991, con “Operazione Colomba ” – Corpo Nonviolento di Pace della Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII – ho operato nel campo profughi di Punta Skala a nord-ovest di Zara. Era un ex villaggio turistico con bungalow che accoglieva sfollati croati provenienti per lo più dalla Krajina, dove dormivano anche militari croati provenienti dal vicino fronte con l’autoproclamata Repubblica serba di Krajina [proclamata il 12 maggio 1991 dai serbi di Croazia, con centro di potere a Knin, mai riconosciuta a livello internazionale, ndr] situato appena sopra Zara.
Un giorno ho detto ad Ana Markulin, della Caritas locale, che volevo fare di più e che il mio comune, Loano, avrebbe sostenuto la permanenza di alcuni bambini in Italia per farli stare, almeno per brevi periodi, fuori dal campo profughi. Mi ha proposto di coinvolgere i bambini del villaggio di Posedarje, a 30 km da Zara nei pressi di Maslenica, anch’esso sulla linea del fronte tra l’esercito croato e l’SVK (Srpska Vojska Krajine – Esercito della Repubblica serba di Krajina) separati solo da una striscia di mare denominato “Karinsko more”. E così, dal 1994 ho cominciato a frequentare Posedarje nell’ambito di una specie di gemellaggio con Loano.
Tra il ‘94 e il ‘95 ho fatto la spola tra Italia e Posedarje, trasportando aiuti e beni di prima necessità donati principalmente dalle famiglie loanesi, oltre che da amici e parenti, che d’estate ospitavano i bambini nelle proprie case. Durante la riunione settimanale con queste famiglie specificavo le esigenze del momento (cibo, libri, quaderni, vestiti etc.) che poi loro reperivano. Poi con furgone o camion partivamo, praticamente ogni venerdì, per fare ritorno di domenica o lunedì con viaggi infiniti. Il rapporto nato tra i bambini e alcune di queste famiglie italiane è stato talmente forte che è proseguito anche dopo la guerra: alcune hanno proseguito a offrire un sostegno economico, altre si sono occupati di sostenerne gli studi. Il rapporto dura tutt’ora, con scambio reciproco di visite tra Italia e Croazia.
Dov’eri il 5 agosto del 1995, quando l’esercito HV, con l’Operazione Tempesta (Oluja) partita il giorno prima, riprendeva Knin?
Durante l’Oluja io e i bambini eravamo appena tornati a Posedarie, che era oltretutto uno dei punti da cui partivano i militari dell’esercito croato per entrare nel territorio della Krajina. Per due anni, nelle estati ’94 e ’95, ho portato a Loano 60 bambini. Durante il giorno venivano accolti nella struttura “Campo solare” offerta dal Comune, un centro estivo dove i bambini residenti hanno la spiaggia, la mensa, giochi organizzati, etc. La sera andavano a stare da famiglie loanesi che avevo selezionato. La cosa brutta è che nel ‘95 sono stati in Italia fino al 1° agosto, e tornati a Posedarje si sono trovati in piena operazione Tempesta…
Sono rientrati il 2 agosto con i loro insegnanti, in traghetto da Ancona a Zara e poi in bus fino a Posedarje. Assieme a un’altra volontaria, Maddalena, sono invece arrivato a Zara il 3 agosto e ho trovato la strada per Posedarje già chiusa per i combattimenti in corso. Il giorno dopo, ottenuto un lasciapassare, siamo riusciti a raggiungere il villaggio: in quei 30 km non abbiamo incontrato nessuno e ai bordi della strada solo fumo, tanto fumo.
Al nostro arrivo, Posedarje sembrava deserto, perché gli abitanti si erano rifugiati nelle cantine. Stavano bene e sono stati felici ma anche stupiti di vederci lì a condividere quei momenti. Il 5 agosto, quando alla radio è stata annunciata l’entrata dell’esercito croato a Knin, è scoppiata una specie di apoteosi. La popolazione si è riversata nelle strade per accogliere i convogli militari al rientro dai combattimenti, sventolando le bandiere, piangendo di felicità e gridando “vittoria”.
Da un lato ero contento per loro, perché erano famiglie croate che nel 1991 erano sfollate proprio da quel territorio occupato dall’esercito della Repubblica serba di Krajina. Per loro quell’operazione significava “liberazione”. Dall’altra ero cosciente che all’interno, in Krajina, dove Operazione Colomba aveva già operato e conosceva parecchie famiglie di serbo-croati, doveva essere stato terribile. Anche perché vedevo arrivare da lì camion pieni di tutto, di beni “spolpati” dalle case della zona. La frase che ho sentito ripetere in quei giorni parlava da sola: non dicevano “Pobjedili smo!” (Abbiamo vinto), ma “Sve čisto” (Tutto pulito)…
Poi cosa è accaduto?
Circa una decina di giorni dopo siamo entrati nella zona di Knin, dove eravamo già stati nei due anni precedenti e perché una esigenza del nostro modo di agire era quella di essere corpo mediatore, e quindi operare da una parte all’altra del fronte. Dopo l’operazione Tempesta eravamo consapevoli che avremmo trovato l’inferno. Ad esempio a Smoković [villaggio che nel censimento del 2011 contava solo 110 abitanti, cioè il 10,69% degli abitanti del 1991 i quali erano al 96% serbi di Croazia, ndr] ma anche a Knin, la roccaforte della Krajina, che nel 1991 era abitata all’80% da serbi mentre dopo il ‘95 la composizione dei residenti si è completamente ribaltata [nel censimento del 2011 Knin contava 15.407 abitanti, di cui il 75% croati, ndr].
Di Knin mi ricordo una scena surreale, la messa tenuta dai frati francescani [A Knin c’è un monastero francescano, il “Franjevački samostan Sveti Ante ”, ndr]. La chiesa bruciata e di cui erano rimasti in piedi solo i muri, piena di Tv straniere, i crocifissi avvolti nelle bandiere della Croazia, il Cristo in croce anch’esso bruciato con un “perizoma” fatto con la prima pagina del quotidiano “Slobodna Dalmacija” dedicata alla vittoria. Ricordo le prime parole pronunciate dal prete: “Adesso noi siamo puliti, adesso noi siamo liberi”. Mi viene la pelle d’oca ancora oggi nel raccontarlo, per l’orrore che mi fecero allora.
Sempre a Knin, al quartier generale delle Nazioni Unite abbiamo incontrato la field officer Maria Teresa Mauro [e membro dello “HRAT – Human Rights Action Plan” del Sector South con sede a Knin, che ha anche testimoniato al Tribunale dell’Aja , ndr], che si occupava della ricerca di persone scomparse e di recuperare i corpi delle vittime. Una persona con cui Operazione Colomba aveva già collaborato. Ricordo che in una delle sue missioni a Plavno, uno di noi è andato con lei e quando apriva i pozzi dell’acqua diceva: “Io, ormai, dall’odore capisco se sono corpi di uomini o di animali”…
Da Knin avete deciso di proseguire?
Maria Teresa Mauro ci ha chiesto se potevamo andare verso Plavno, perché pensava che lì ci fossero delle persone sopravvissute e se potevamo verificare. Abbiamo deciso di provarci: lungo il tragitto, circa 20 km di strada di montagna, abbiamo incontrato numerosi posti di blocco dell’esercito e della polizia croata, superati con un po’ di diplomazia.
Plavno è come un grosso lago asciutto circondato da montagne, e lungo questo anfiteatro si trovano sparsi gruppi di case, alcuni veramente poco accessibili, che nell’insieme formano il villaggio [nel censimento del 1991 contava 1.720 abitanti, nel 2011 solo 253, ndr]. All’inizio pareva non ci fosse nessuno. Invece gli abitanti si erano nascosti e pian piano, li abbiamo trovati.
Dopo giorni di ricerche, abbiamo trovato 85 persone, tra i 65 e gli oltre 90 anni di età. Erano rimaste o perché non avevano avuto la forza di fuggire assieme agli altri 200mila serbi, oppure per proteggere la casa e la terra a cui erano legati, ma soprattutto per sfamare gli animali pensando che in pochi giorni tutto sarebbe tornato normale. Sono fuggiti tutti i giovani, quelli più a rischio, mentre tra i rimasti c’erano solo anziani.
Purtroppo di tutti i loro animali da allevamento sono riusciti a salvarne soltanto alcuni, nascondendoli. Ricordo che al nostro arrivo a Plavno abbiamo incontrato maiali, asini, mucche e cavalli, che vagavano nella valle, molti li abbiamo trovati morti – uccisi – nelle loro stalle assieme ai cani legati alla catena. La devastazione era quasi totale, mancava la corrente elettrica, molte case erano prive di acqua, l’odore di animali morti era quasi insopportabile La maggior parte delle case era bruciata o saccheggiata di tutto.
In quel momento noi non sapevamo ancora cosa fosse accaduto nei villaggi. Ma parlando con quei pochi vecchi rimasti attorno a Plavno, abbiamo capito subito che la situazione era molto grave. Ci hanno raccontato che bande di uomini in divisa, per quanto ne sapevano loro non dell’esercito ma paramilitari, passavano di villaggio in villaggio a “pulire”. Così come ci hanno raccontato che alcuni soldati dell’HV li avevano invece aiutati a nascondersi.
Abbiamo poi deciso di inoltrarci lungo la strada che costeggia il lato nord del parco della Krka, cioè la strada che passa dai comuni di Kistanje e Varivode, e abbiamo girato tutta la zona. Un paesaggio lunare, di sole pietre, con semplici sterrati per raggiungere i paesini più piccoli. Trovavamo di media una persona, sempre anziana, ogni parecchi chilometri e in mezzo al nulla. Ricordo una donna di 95 anni che dormiva nel garage accanto alla sua casa bruciata, sola e abbandonata a se stessa. Tutti avevano problemi di approvvigionamento di acqua e cibo, perché durante l’operazione militare pozzi o cisterne dell’acqua potabile – perché in quella zona l’acquedotto non arrivava alle case – erano stati avvelenati oppure ci avevano buttato dentro le carcasse degli animali uccisi.
Queste persone rimaste dopo l’operazione Oluja, sono state assistite?
Dopo l’operazione Oluja gli aiuti venivano gestiti dalla Croce Rossa locale, quindi croata. Una volta siamo entrati nella casa di un anziano, bloccato su una sedia a rotelle; per terra, vicino ai suoi piedi, c’era la carcassa di un maiale morto che emanava un odore spaventoso, e sul tavolo un pacco della Croce Rossa. Abbiamo chiesto come mai non fosse stato portato via il cadavere del maiale, e lui ci ha risposto che la Croce Rossa non se ne occupava…
Tanti tra quegli anziani serbi sono morti non solo perché uccisi nelle settimane successive alla Tempesta, ma anche perché non autonomi, senza cibo e acqua. Le persone rimaste nei villaggi, al 99% anziani, non avevano nessun tipo di assistenza: gli aiuti erano scarsi e arrivavano una volta ogni tanto, mentre a molte di queste persone serviva un’assistenza, soprattutto medica, quotidiana.
E così, nella zona e nei dintorni di Plavno abbiamo deciso di occuparci di tutto . Eravamo 3-4 persone fisse, ma ogni settimana arrivavano 6-7 anche 10 volontari tra cui alcuni medici, e il magazzino della nostra casa era diventato una farmacia molto fornita. Mancava la corrente elettrica per cui si cucinava con la stufa a legna, e il grosso del lavoro era anche tagliare e distribuire legna. Poi distribuivamo cibo e cure mediche. I casi più gravi li trasportavamo all’ospedale in città e purtroppo ci siamo occupati anche della sepoltura dei morti. Tagliavamo l’erba per i pochi animali rimasti e ne compravamo di nuovi, aiutavamo le persone a rifare i documenti – jugoslavi, ormai inutilizzabili – a rintracciare i parenti fuggiti e a organizzare il loro ricongiungimento che avveniva sempre dalla Croazia verso la Serbia.
Infatti, anche dopo il ‘95 è proseguito l’esodo di popolazioni. Ad esempio, nei sobborghi di Kistanje, sempre in Krajina, c’era un intero villaggio abbandonato. Nel 1996 è stato occupato da croati del villaggio di Janjovo in Kosovo [che prima della guerra contava 5mila abitanti, ad oggi solo 200, ndr], trasferito in toto lì. Da un giorno all’altro, il villaggio si è animato di bambini, negozi, bancarelle di frutta e verdura e persino di un bar. Avevano occupato le case dei serbi fuggiti o uccisi. Un po’ come è successo a Knin, che dopo il 1995 si è riempita di croato-bosniaci scappati dalla Bosnia Erzegovina, dalle zone di Zenica, Grabac, ma anche di Prijedor e Banja Luka.
Quindi profughi croato-bosniaci fuggiti dalla Bosnia?
Sì, e mi raccontavano, i pochi vecchi serbo-croati rimasti, che questi arrivati cercavano in altre case abbandonate ciò che era rimasto. Intendiamoci, era una guerra tra poveri. Questi profughi croati erano arrivati dalla Bosnia senza assolutamente nulla, e le case che occupavano erano già state saccheggiate in modo organizzato il 5 agosto. La maggior parte andava nella case abbandonate in altre zone anche solo alla ricerca di un tavolo o di un letto, oppure di tutto ciò che poteva essere utile: le tegole, le finestre, i pavimenti e persino le prese elettriche.
Dalle carte processuali del Tribunale dell’Aja e da documenti di organizzazioni locali e internazionali, emerge che durante e dopo l’operazione Oluja militari e paramilitari croati hanno perpetrato crimini di guerra su civili serbi. Ad esempio l’eccidio di Varivode del 28 settembre ‘95. Hai conosciuto testimoni di quegli eventi?
Tra i villaggi che monitoravamo c’era anche Varivode, rimasto quasi vuoto. La prima volta che ci siamo andati, in un gruppetto di case ai margini del villaggio abbiamo trovato un uomo che se ne stava da solo, al buio, seduto vicino alla stufa. Aveva gli occhi allucinati, la barba e i capelli lunghi, i vestiti sudici su un corpo ormai solo ossa. Non parlava. L’ho soprannominato Geremia… forse perché mi ricordava un personaggio della Bibbia.
Barbara, un’infermiera italiana che era con noi, gli ha trovato alcune costole rotte. Geremia non mangiava da tempo per cui gli abbiamo preparato da mangiare, poi lo abbiamo lavato, vestito e portato all’ospedale. Le uniche parole che ha pronunciato lì le ha rivolte a Paglia, un altro volontario: “Hai famiglia?”. Siamo tornati il giorno dopo a fargli visita ma purtroppo Geremia era morto, pare di polmonite. Poi ci hanno detto che era stato testimone dell’uccisione di suo figlio, ammazzato davanti ai suoi occhi a Varivode.
Hai conosciuto persone che hanno cercato, o stanno cercando ancora oggi, informazioni sui familiari scomparsi?
A Plavno si cercano ancora alcuni ragazzi, due in particolare figli di Nikola, che il 4 agosto del 1995 hanno lasciato casa diretti sulla montagna alle spalle del paese. I loro corpi non sono mai stati trovati. Sempre di Plavno ricordo una famiglia, una delle poche serbe tornate dopo circa due anni dall’Operazione Tempesta in cerca del padre che era rimasto e che in quei giorni del ‘95 era scomparso. Ho accompagnato la famiglia sulle montagne nei dintorni per cercare traccia del corpo, sebbene la figlia mi dicesse che era certa non si fosse allontanato perché camminava con difficoltà.
Come già ho detto, in quei tre anni a Plavno ci siamo occupati di rintracciare i familiari fuggiti. L’operazione di ricerca non era semplice, perché chi era scappato non aveva lasciato molti riferimenti e le linee telefoniche, così come le strade verso la Serbia, erano interrotte. Per cui in alcuni casi siamo partiti in auto, con solo alcuni indirizzi o indicazioni in tasca, alla ricerca di qualsiasi traccia.
Non dimenticherò mai la signora Milica di 86 anni, sempre di Plavno. L’abbiamo trovata nella sua casetta, sola, taciturna e con lo sguardo impaurito. Dopo parecchio siamo riusciti a rintracciare uno dei tre figli di cui non si sapeva più nulla. Li abbiamo trovati e solo dopo due anni siamo riusciti a portare Milica ad incontrarli in un paesino vicino a Belgrado. Quando ha visto i figli è stata la prima volta che ho sentito la voce di Milica: urla di gioia, liberazione, disperazione, sopite e conservate per anni. Il giorno dopo è partita per il Montenegro per andare a vivere con uno dei tre figli. Ho saputo che due settimane dopo è morta, come se avesse aspettato e resistito tutto quel tempo per morire felice…
I giovani che hai conosciuto sono poi tornati a vivere in Krajina?
Pochi. Quelli che erano ragazzini o bambini nel ‘95, non sono tornati prima di tutto perché dopo anni vissuti altrove si sono ricostruiti una vita. Poi, anche perché il ritorno dei serbi in Croazia è stato tutto fuorché semplice, sia perché è stato reso loro difficile riottenere le proprietà e gli aiuti per ricostruire le abitazioni, sia perché per tanto tempo non sono stati benvenuti o addirittura hanno subito intimidazioni e minacce.
Poi si deve considerare che la vita nelle campagne di Knin o nelle valli di Plavno è dura, richiede una grande resistenza alla fatica dovuta all’asprezza del territorio. Ma di sicuro, in tutte le persone che ho conosciuto in quegli anni, ho sempre percepito un grande attaccamento alla terra di origine da cui sono stati sradicati.